Che cos’è la follia? Parlando di un toscanaccio verace, quale è Carlo Giusti, vien da prendere in prestito le parole al Melandri di Amici Miei: follia è fantasia e intuizione. Due dei tratti caratteriali che saltano all’occhio quando ci si trova a tu per tu con questo allevatore per molti versi illuminato, sicuramente fuori dagli schemi, che folle ama definirsi (“Follie” chiama i suoi prodotti), ma un folle con una visione: rendere agli animali la loro libertà e la loro dimensione selvatica. E solo con molta fantasia poteva immaginare, l’uomo, di restituire il movimento ad animali per tradizione costretti, dall’uomo, in stalle, recinti e gabbie. Vedi, a volte, l’intuizione?
Il regno di Giusti – l’azienda La Vallata di Lajatico, sulle colline pisane – si estende su cinquecento ettari di terreni, sessanta chilometri di macro-recinzioni, un’oasi («una grande savana», dice lui) che è la casa di centoventi femmine di Angus in riproduzione, trecento maiali, ottanta pecore “estinte” Garfagnine bianche. Se questi numeri ai profani dicono poco, colpisce invece il numero di stalle: zero. Bovini, suini e ovini vivono al cento per cento allo stato brado. Così come le circa cento coppie di piccioni e il migliaio di Galli neri del Chianti che costituiscono la quota avicola della Vallata.
Alla sera i galli si ricoverano in arche, montate sui trattori, altrimenti svolazzerebbero di albero in albero e si sperderebbero nei boschi. Alle prime luci dell’alba, un meccanismo a energia solare le riaprirà per lasciarli a razzolare e librarsi fino al tramonto. Così anche i colombi, che hanno l’atavico istinto di tornare spontaneamente da dove sono partiti.
Delle cinque specie che popolano la tenuta, sono proprio i piccioni il grande amore di Giusti e gli animali che meglio incarnano la sua visione: «Senza un piccione non vivrei», confessa. Cresciuto con un padre artigiano con la passione per la vigna, ha condiviso e coltivato con lui – sin da bambino – l’amore per i volatili viaggiatori. Dal papà ha imparato i rudimenti dell’incrocio tra esemplari anche di specie diverse (viaggiatori con domestici, appunto), approfonditi con lo studio e oggi applicati, non solo ai volatili, per ottenere esemplari d’eccellenza.
«Il colombo selvatico è un migratore. Quello domestico è assoggettato all’industria alimentare». L’uno ha il volo nel DNA, l’altro è poco meno che stanziale, selezionato per avere taglia giusta e carni appetibili. «Unire le due nature è la mia sfida. Che pratico – come per tutte le specie che allevo – senza provette, inseminazioni artificiali, controllo delle gravidanze o dei calori (metodi largamente adottati negli allevamenti tradizionali, Nda)». Gli basta mettere in contatto viaggiatori e domestici, lasciando poi che la natura segua il suo corso. Dall’accoppiamento nascono “nuovi” piccioni che uniscono le caratteristiche di entrambe le specie. L’attitudine al volo rende la muscolatura sviluppata e le carni magre e asciutte, l’alimentazione spontanea garantisce un accrescimento corretto.
Da qui è nata la sua follia più nota al mondo dei gourmand, quel prosciutto di piccione che pare il prosciuttino della Barbie, lungo neanche una spanna, l’ossicino da spolpare al coltello. Stagionato sei mesi in vasche di marmo di Colonnata (quello del lardo, per intenderci), è avvolto in un blend di piante aromatiche locali. Ma la follia si spinge anche oltre: «Tra fine luglio e i primi di agosto i miei colombi volano su prati di erba sulla, ne mangiano i semi e le loro carni assumono un sentore mieloso». Per questo, s’è inventato di spingere la stagionatura finanche a tre anni, poi grattugiare il prosciutto come fosse una bottarga e mescolarlo a una parte di polline d’api, ottenendo una polvere che unisce salinità e mineralità a dolcezza e note fiorite.
A proposito di natura che segue il suo corso, c’è la storia dei maiali. Fino a tre anni fa, Giusti allevava solo suini di Cinta senese, con tanto di adesione al Consorzio di tutela della Dop. Finché un (bel) giorno, all’interno della proprietà s’introdussero dei cinghiali. Tra allevati e selvatici scattò, inevitabile, l’attrazione. E presto si ebbero i frutti di questa liaison dangereuse: nuovi nati, un po’ maiali e un po’ cinghiali. Esemplari che il Consorzio intimò di togliere dalla circolazione, sia mai che compromettessero la pura razza senese.Costretto a macellarli, Giusti ne fece dono agli amici. Subito fu chiaro che la qualità delle carni era eccellente: «Il feedback era estremamente positivo. Tramite analisi di laboratorio, ho scoperto che l’incrocio aveva portato a un bilanciamento tra la parte grassa della cinta e quella magra del cinghiale».
La fine della storia? Prevedibile: ciao ciao Consorzio, benvenuti cintali. «Cintale è l’unione di cinghiale e maiale, nome coniato dall’amico Gianluca Biscalchin (scrittore, giornalista, illustratore e palato fino, nda)”. Anche in questo caso, la chiave di volta è il movimento. «La cinta mangia qui e dorme lì accanto, il cinghiale si sposta veloce, è capace di fare un chilometro in cinque minuti». Il cintale (che oggi è “provocato”, guidando i contatti tra le due specie) sa prendere il meglio da questa ricombinazione di geni. A riprova che mescolare razze – o etnie, del resto – arricchisce le popolazioni.
«Grande movimento uguale grande qualità», sintetizza Giusti. Che certo non si nasconde dietro un dito. Lo scopo ultimo dell’allevatore è ottenere un prodotto. Cibo, insomma. Ma naturalmente c’è modo e modo di raggiungere il risultato. «In un momento in cui si ricerca il tutto e subito, io scelgo la strada più lunga e più lenta. In un mondo che produce un pollo in quarantadue giorni, a me servono da otto mesi a un anno». È così che va persino oltre al bio, formalmente praticato da più di quindici anni. Che – per capirci e sempre parlando di polli – prevedrebbe una macellazione a ottantuno giorni, contro i quaranta-sessanta degli allevamenti industriali a terra o all’aperto. Comunque pochi, secondo i parametri di Giusti. «Il motivo per cui allevo non è fare presto, ma fare bene».
Una filosofia condita da frasi all’apparenza fatte come «Dovremmo consapevolmente tornare a mangiare meglio e meno, altrimenti ci autodistruggiamo», «Meno carne ma più buona» e anche «Perché uccidere gli animali per ucciderci?», riferito a pratiche ormai unanimemente ritenute barbare come l’alimentazione forzata delle oche: «Siamo riusciti a fare della cirrosi epatica di una papera, inchiodata sulle tavole, una prelibatezza mondiale chiamata foie gras». Potrebbero sembrare luoghi comuni, si diceva, ma in bocca a lui assumono una connotazione di verità che si rispecchia nelle pratiche attuate in azienda.
«I miei animali devono stare bene dall’inizio alla fine, devo metterli in una condizione di vita il più possibile serena e onorata». Così, per esempio, sta conducendo una battaglia per l’uccisione in campo, invece che al macello. Non prevista dalle normative. «Ma se catturi un animale che sta pascolando tranquillo e lo metti su un camion, diventa pazzo. Lo mandi al mattatoio con migliaia di altri animali che percepiscono che stanno per morire e vanifichi tutto quello per cui hai lavorato, il rispetto che hai avuto per la sua esistenza».
Il rispetto, dunque. Per gli animali come per il territorio e, in ultima istanza, per il consumatore finale. Un atteggiamento che ha origini nella formazione di Giusti, che nasce agronomo ed enologo, a lungo in un mondo dove l’attenzione all’ambiente e alla vigna, il cosiddetto terroir, sono intimamente legati alla qualità del vino.
Il colpo di fulmine per gli Angus scozzesi, ampiamente allevati in Argentina, è scattato in Patagonia proprio durante un viaggio per esperimenti vitivinicoli. Subito, la decisione di importare alcuni capi in Italia. Erano i primissimi anni Novanta e la scommessa appariva davvero “fuori di testa”, anche solo per problemi legati a trasporto e dogane. Soprattutto, con destinazione finale una terra dove domina il culto della chianina: «Ma io piano piano l’ho abbandonata, tranne qualche capo che mantengo per campanilismo. Non può nascere allo stato brado, ha bisogno di supporto anche veterinario per la gestazione e il parto, per la nutrizione, per il ricovero. La chianina viene dal lavoro dell’uomo. E sì, anche dal marketing, che le ha creato il posizionamento che sappiamo nell’immaginario collettivo».
Gli Angus restano comunque gli unici “foresti” che pascolano le terre di Giusti. Che invece ama smodatamente il recupero di razze autoctone, spesso sulla via dell’estinzione. È il caso del Gallo Nero del Chianti, emblema della toscanicità, abitante storico di aie e cortili. Riscoperto a livello locale, ormai trent’anni fa, per dare nuovo lustro all’immagine del vino che porta il suo nome e che da allora campeggia sullo stemma che identifica il miglior Chianti Classico. «Io allevo un mio ceppo di questa razza che si presta poco all’intensivo, perché è incazzina. Se tieni i galli in ambienti angusti si beccano, devono potersi muovere, razzolare, salire in albero». Le carni sono il frutto di questa indole scattante, sode e tenaci, da valorizzare con tecniche moderne come basse temperature, sottovuoto, cotture in olio o in vaso ad amplificarne la qualità. Giusti ne fa ragù e intingoli, ma anche una strepitosa mortadella.
Più curiosa la reintroduzione della pecora Garfagnina. È da sempre uso contadino, adottato in passato anche da Giusti, tenere in valloni e dirupi un certo numero di capre, per conservare pulito il sottobosco che questi animali brucano con voracità. Anche troppa voracità, senza distinzione tra piante infestanti e altre indispensabili al mantenimento dell’ecosistema. Sicché, la Forestale costringe Giusti ad allontanare le capre. Poi accade che qualcuno gli parli di questa pecora della Garfagnana «che ha un atteggiamento caprino nel mangiare, si nutre spontaneamente di rovi, ma pochissimo di erba». Rispettosa dell’habitat, insomma.
Contente le autorità, contento il Giusti, che porta a casa il risultato senza sovvertire l’equilibrio dei boschi ed evitando che una razza storica sparisca per il poco interesse commerciale: «La Garfagnina fa poca carne e pochissimo latte. Di contro, mangiando quantità esigue di erba non ha il gusto forte tipico della pecora, è elegante, perfetta per la produzione di salumi delicati». Oggi, macella gli agnelloni e tiene le femmine fino a fine carriera, per garantire la prosecuzione di questa specie che conta appena ottocento esemplari in tutta Italia, circa un decimo dei quali di sua proprietà.
Basta percorrere la strada che sale a Lajatico e gettare uno sguardo sulla sinistra, oltre i filari di cipressi, per vedere greggi e mandrie che pascolano insieme lungo i pendii della tenuta. Buoi e vacche, soprattutto, sono animali di grande presenza scenica, neri e lustri, lenti e massicci. Così come affascina il visitatore dell’azienda la popolazione dei piccioni: nulla a che vedere con i garruli pennuti metropolitani, questi sono animali fieri che ti scrutano dritto negli occhi prima di spiegare le ali e volare lontano, in ricognizione chissà dove.
C’è un che di poetico e di artistico in questo serraglio, rurale e selvatico. «Anche l’allevamento può essere arte», riflette Giusti. Lo afferma da un borgo, Lajatico, che con l’arte, in tutte le sue forme, ha più di un addentellato. Celebre per essere il buen retiro di Andrea Bocelli, che qui ha casa e che anima il Teatro del Silenzio, l’anfiteatro sito in una conca naturale che ospita un unico, ambitissimo spettacolo all’anno e per il resto dei mesi si trasforma in lago, custodito dall’imponente volto in bronzo dello scultore polacco Igor Mitoraj.
Giusti da queste parti c’è capitato quasi per caso, in cerca di spazi per il suo progetto agrario. Del resto, dice, «a Lajatico o ci vieni apposta o ci vieni apposta». E oggi sì che la gente ci viene, attirata dalle tante attività culturali promosse da Bocelli e da Alberto Bartalini, architetto e direttore artistico del Teatro che porta ciclicamente in paese mostre diffuse, rassegne di street art, esibizioni e installazioni di artisti internazionali. A sconvolgere la quotidianità del migliaio o poco più di abitanti di questo centro minuscolo, che pare un presepe, le casette un po’ sbilenche, la piazza principale meno grande del parcheggio di un qualunque centro commerciale di periferia.
Un luogo ameno e unico nel suo genere che Giusti ha visto crescere negli anni. «Quando abbiamo aperto l’agriturismo, io e mia mamma (ancora in cucina, nda) ce ne stavamo in sala, a guardare fuori se passava qualcuno. Si contavano le auto sulle dita di una mano. Andrea Bocelli ha dato a questo posto, amandolo, grande ridondanza. Ma ancora ricordo quando Bartalini lo strapazzava per convincerlo della bontà del progetto del Teatro: se ne stavano seduti al tavolo del mio ristorante, fino alle due di notte, a bisticciare e discutere».
Da quelle ore piccole ha preso forma questo angolo di mondo dai risvolti affascinanti, richiamo per turisti e, in alcune occasioni, anche per il cosiddetto jet set o popolo vip che dir si voglia. E mentre a Lajatico, soprattutto in bella stagione, salgono auto e comitive di gitanti, nulla riesce a stravolgere i ritmi della campagna. Gli Angus e le Garfagnine continuano a pascolare, i piccioni vanno e tornano, i maiali grufolano, le galline depongono le loro uova. Una popolazione che prospera sotto la guida del suo signore.
Perché gli animali si governano. Giusti lo fa ogni mattina, ancor prima che sorga il sole sulla valle. «Gli animali sono subordinati all’allevamento dell’uomo. Necessitano di essere affiancati. Se domani aprissi i recinti, non ne camperebbe uno. Se lasciassi libera una gallina, volpi e faine, rapaci e macchine ne farebbero scempio. E se non fosse per questo, la chioccia e soprattutto i suoi piccoli non avrebbero comunque la capacità di procacciarsi il cibo».
Non è facile condurre animali così diversi tra loro. Occorre sapere chi può stare insieme a chi, e chi invece deve essere tenuto separato dagli altri: «Piccioni e galli possono convivere, così come pecore e Angus, ma i maiali devono essere lasciati per i fatti loro». I capi si devono indirizzare sui pascoli e prati più ricchi di foraggio, che deve essere prima seminato e fatto crescere. L’alimentazione viene integrata con miscugli e scarti delle aziende del circondario come frutta, nocciole, pane, sedani, porri, che arricchiscono anche la dieta dei bovini. E ci sono da gestire gli accertamenti sanitari: «Ogni sessanta-settantacinque giorni i capi devono essere portati all’interno di “acchiappatoi” e fatti passare in corridoi di ispezione, dove il veterinario esegue controlli a campione e fa diagnosi di gravidanza».
Persino a casa Giusti ha una piccola arca di Noè con cani, conigli, tortorine e bestiole varie, che cura ogni sera insieme alla figlia adolescente. Mentre in tenuta è spesso accompagnato dal padre, che non ha mai perso la passione per gli animali e, soprattutto, per gli incroci: ancora oggi – secondo la visione di Giusti – l’aspetto più esaltante del lavoro di allevatore. «Occorre sensibilità per cercare di migliorare la specie senza tecniche artefatte, ma semplicemente assecondando la natura». E conoscendola a fondo.
Per esempio, spiega, «il piccione è monogamo e, per selezionare volatili sempre migliori, capita di provare a combinare le coppie. Ma a volte le coppie si scoppiano e “divorziano”. E tra quelle che nascono spontaneamente se ne formano di eterosessuali ma anche di omosessuali. Se sono due maschi, dopo un po’ me ne accorgo perché non fanno uova. Ma se sono due femmine, le uova le depongono. Così, devo controllarle, verificare se siano o meno fecondate e se no toglierle dal nido, altrimenti la colomba va avanti a covare e quelle non si schiudono».
Multirazziale e aperta agli scambi, la fattoria degli animali di Giusti è una società inclusiva, comprensiva di differenze caratteriali e diversità tra gli individui. Come nelle favole di Esopo, se ne può persino trarre una sorta di morale: che governando più spesso le bestie, si potrebbe imparare a governare meglio anche gli uomini.
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Foto: Giacomo Francesconi per MINDBOX STUDIO
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Direzione artistica: Gabriele Bassetto
Fashion editor: Francesca Piovano
Grooming: Serena Sbrana
Photographer assistant: Giacomo Di Luise
Special thanks to: La Vallata Lajatico