Tutto ebbe inizio dalla vagina di mucca. Precisamente, dalle tub de fallopp dela vaca, come il cuoco tradusse un giorno la ricetta ginecologica a una platea di gourmet parigini piegati dalle risate. «Venghino, signori, venghino ad assaggiare la figata», si era già sgolato qualche tempo prima, sventolando come un ambulante da strada un panino ripieno di quella stessa matrice, lessata con sedano, carote, cipolla e poi piastrata.
Era il 20 giugno 2015, il giorno in cui Trippa tirò su per la prima volta la sua serranda in via Vasari. L’imbonitore veronese Diego Rossi e il riservato socio pugliese Pietro Caroli avevano aperto in Porta Romana a Milano un’insegna che non c’era. Una trattoria bella incasinata, coi tavoli accalcati e i colori rustici e caldi, un modello che è storicamente altro da quello dilagante e affettato dell’alta cucina francese. Quel fine dining che impone candide tovaglie a strascico fino a terra, carte dei vini con più pagine del Diderot e D’Alembert e piatti disegnati, nei colori e nella geometria, come un vestito da prima della Scala.
«Scrivi pure che quelli che preparo io sono brutti», provocava Rossi agli inizi dell’avventura, «perché ogni secondo che un cuoco dedica ad abbellire una melanzana o a truccare un piccione è tempo sottratto a fare un piatto buono». Per carità, i piatti brutti veri sono quelli che cucino io a casa mia, non quelli che abbiamo mangiato in quasi otto anni di Trippa. Ma il concetto che al ragazzo premeva e preme trasmettere è «la sovranità del sapore che, nella tradizione italiana, viene prima di qualsiasi ipotesi sulla presentazione». Sapori che scommettono sull’onestà dell’ingrediente, non sul vestito o il lifting che gli dai. La bontà ben prima dell’instagrammabilità.
E non il buono espresso da astici, foie gras o lepri à la royale, ma da esofagi e intestini tenui di vitelli da latte, lampredotti, uova embrionali di galline, rognoni di maiali e pecore, frattaglie e fegati di pesci spesso trascurati. Il corredo del “quinto quarto”, cioè le parti oltre i quattro quarti, i tagli considerati a lungo – e a torto – i meno pregiati di un animale. Un genere che storicamente ha attecchito molto più a Roma che a Milano. «Volevo uscire dall’omologazione, tornare a dar valore al cibo del popolo». Cuori, milze e cervella preparate non in anticipo o cotte in bassa temperatura ma brasate, bollite, grigliate. Soprattutto, cucinate espresse, à la minute, al momento. E molto spesso raccontate al tavolo dal cuoco stesso che, dietro l’aria da mona («Ara qua che roba!», «Toh, magna…»), nasconde un piglio da vero secchione, chino a studiare i ricettari storici e gli alimenti dimenticati del nostro Paese.
La simpatia straripante e la rivincita delle interiora su filetti e costate sono le leve che, in tempi rapidissimi, fanno di Trippa una trattoria praticamente imprenotabile. Ancora oggi, per ottanta persone che ogni giorno trovano posto nei due turni serali, ce ne sono almeno un centinaio che imprecano davanti alle date barrate in grigio nel sistema online: “siamo al completo”. Trovare un tavolo si può, connettendosi a mezzodì quindici giorni prima esatti del servizio prescelto. Ma è sempre più complicato per l’hype accumulato in tutto questo tempo. E perché il signor Rossi si concede solo alla sera: a pranzo il ristorante è sempre chiuso. Non per snobismo, perché «essere felici è più importante che guadagnare. Abbiamo sempre voluto avere una vita al di là della cucina. Così, nella mezza giornata libera che ho, io posso andare a mangiare dai colleghi che stimo di più, come Paolo Lopriore ai Portici di Appiano Gentile o i ragazzi dell’Osteria dei Fratelli Pavesi, nel Piacentino. Oppure mi dedico allo sport, come il canottaggio, la bici o, più di recente, gli esercizi di calisthenics: ara qua, che roba», spiega porgendo il bicipite come un bullo delle banlieue.
Discorsi di equilibrio vita/lavoro, occorre specificare, che il ragazzo tesseva ben prima che scoppiasse il fenomeno della great resignation della post-pandemia, le orde di cuochi e camerieri in fuga di massa dai ritmi infernali della ristorazione. Che Diego Rossi ha conosciuto benissimo nella lunga gavetta prima di aprire la sua trattoria: «Quando lavoravo alle Antiche Contrade di Cuneo, io e il mio amico Juri Chiotti spingevamo come ossessi per conservare il titolo, effimero, di chef stellati più giovani d’Italia. Prima ancora, al St. Hubertus in Alta Badia (insegna oggi con tre stelle Michelin, nda), lavoravo anche sette giorni su sette, pure con la febbre a trentanove. Ero il capo-partita dei primi piatti: se non venivo io paste e risotti non uscivano perché non c’era nessuno dietro di me».
Mai sofferto di burn-out? «Sì, nell’ultima esperienza prima di venire a Milano: lavoravo come chef, a 2.500 euro al mese, in un boutique hotel altoatesino in inculonia. Non c’era neanche un bar nel paesino. Per trovare un po’ di vita dovevo mettermi in macchina e fare diciassette chilometri di tornanti, fino a Cavalese. Ero depresso, soprattutto perché non riuscivo a vedere la fidanzata di allora. Chiamavo mia madre in lacrime, anche tre volte al giorno». E brigate dal clima tossico à la Gordon Ramsay? «Mai vissute, per fortuna. Se uno chef mi avesse menato, gli avrei risposto allo stesso modo. Gli unici schiaffi che ho dato o ricevuto sono sempre stati per scherzo, alla Amici miei».
Per Rossi la goliardia è fondamentale per superare l’alienazione del mestiere ma anche l’affollamento e la claustrofobia delle cucine della sua trattoria. Nel 2019 convocò in via Vasari, per una serata speciale, dodici colleghi che riteneva affini, per sensibilità e talento. La prima cosa che tutti fecero non fu spennellare le animelle, eviscerare il tonno o tirare la pasta fresca: legarono Diego a una sedia e gli disegnarono col pennarello la H del simbolo di eliporto sulla pelata incipiente. Ogni tanto capita anche che i ragazzi più perfidi in brigata fingano di bruciare pentole o placche nel cuore del servizio, un attentato alle coronarie dello chef perfezionista, che tuttavia sa bene quanto sia importante stare al gioco.
Rossi non sta lì a prendersela nemmeno di fronte alle imitazioni. Oltre a calamitare le attenzioni dei cuochi più grandi del mondo, il successo esagerato di Trippa ha prodotto emuli dal Veneto alla Sicilia, locali che hanno scimmiottato persino gli arredi della trattoria, gli stessi toni beigiolini delle pareti, le foto d’antan al muro, il modernariato della mobilia. Per non dire dei piatti: quanti vitelli tonnati con la salsa sifonata abbiamo visto dal 2015 in poi? E trippe fritte servite in condivisione al centro del tavolo? Diego è troppo lucido per non sapere che la cucina vive di ricami su pietanze che ha già fatto qualcun altro e che il diritto d’autore nella ristorazione non ha senso perché paralizzerebbe tutto. Lo sa bene anche perché lui stesso ha reso popolare in Italia il midollo di vitello piastrato di Fergus Henderson, il cuocone inglese che a sua volta rilanciò una vecchia usanza delle tradizioni popolari: impiegare un animale from nose to tail, dal naso alla coda, cioè in tutte le sue parti.
Ma l’allievo bravo è quello che si sforza di dire una cosa in più del suo maestro. E questo, a essere onesti, non sta tanto accadendo con le insegne post-Trippa. «Quando aprimmo», riflette un po’ amaro Rossi, «pensavo fossimo all’inizio di un movimento che avrebbe dato progressivamente valore alla tradizione italiana, dopo anni di deferenza nei confronti del modello francese. Però oggi le nuove trattorie si limitano al ruolo di punta dell’iceberg, quando invece dovrebbero essere l’iceberg vero e proprio. Non succede perché i ragazzi fanno due anni di gavetta, pensano di essere pronti ad aprirsi il loro locale e poi lo chiudono sei mesi dopo, senza aver mai pensato a un business plan. Ogni progetto deve essere sorretto da esperienza e visione. Ma queste te le puoi dare solo studiando la storia e investigando gli anfratti nascosti del nostro territorio, per capire il patrimonio che stiamo perdendo. Oggi tutti fanno le stesse cose e l’omologazione è il nemico più grande del nostro mestiere».
Che il ragazzo fugga a gambe levate dal conformismo è acclarato: tolti i tre piatti firma del locale (vitello tonnato, trippa fritta e midollo alla brace), da Trippa è quasi impossibile trovare in carta la stessa specialità per due giorni di fila. «Ogni giorno entrano materie prime nuove e io devo ragionare su quelle. È il sale del mio mestiere». Un’irrequietezza che negli ultimi mesi sta conducendo a una decisiva virata della linea di cucina: Diego Rossi è sì il re delle frattaglie, ma solo se ci si arresta a un’analisi superficiale. Il suo cuore batte da sempre e più di tutto per la verdura, i legumi, la frutta; il suo culto del corpo si nutre quasi solo di questi generi alimentari e la sera fa di tutto per vestire con mise sexy cavoli cappucci, porri di Cervere, cannelloni di verze e castagne, insalate di melone, cipolle di Castrofilippo, carote di Polignano.
Dalle posizioni periferiche della tavola – side dish – i vegetali di Trippa stanno prendendo progressivamente possesso del centro mentre carne, pesce e quinti quarti sono sempre più confinati al ruolo di attori non protagonisti, in forma di salse o intingoli, come acceleratori collaterali di sapidità. «Il mio sogno è aprire presto un’osteria di verdure con contorni di carne», ha dichiarato di recente. E pazienza se la vagina di mucca sarà ricacciata nei manuali di anatomia bovina. È il preludio a una serie di cambiamenti tutti da scoprire: «Questi anni di pandemia», spiega, «mi hanno cambiato la testa, hanno amplificato il mio desiderio di libertà. Vorrei avere una famiglia. E poi disegnare orizzonti più ampi, gettare lo sguardo lontano, ben oltre i palazzi di Milano». Lascerai Trippa? «Ma ti xe mona?». Si torna sempre lì.
***
Foto: Asia Michelazzo
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Direzione artistica: Gabriele Bassetto
Fashion editor: Francesca Piovano
Grooming: Maddalena Brando per Making Beauty
1st photographer assistant: Nicola Cattelan
2nd photographer assistant: Manuel Grazia