Mangiare con le mani è un’usanza antica, osannata e rinnegata, fatta di consistenze, texture e temperature. L’incontro con questa libertà, inedita sulle tavole occidentali di oggi, appare per tanti inaspettata, ma inconsciamente desiderata. Dover rivolgere la domanda al cameriere, “Scusi, ma come si mangia?”, è un atto di liberazione. E poi, la risposta: “Con le mani!”. A chi scrive successe in un ristorante giapponese, galeotto fu un pezzo di sushi. Di colpo, il mio rapporto con il cibo guadagnò preziosi centimetri di guinzaglio. Ma allora quand’è che abbiamo rinunciato alla meraviglia di questo contatto del quinto tipo (perdonatemi) con il cibo? Quand’è che abbiamo scelto la forchetta, che Maometto si spinse a definire “lo strumento del diavolo” (perché «con un dito mangia il diavolo, con due il Profeta, con cinque l’ingordo»)?
La risposta è: per necessità e tutela. Una volta allontanato dalla fiamma, il cibo era più facilmente maneggiabile con un “allungamento” del braccio. Uno scarto di prospettiva meno banale di quanto si potrebbe pensare: certo, possedevano forchettoni e spiedi, ma da usare esclusivamente per la preparazione, non per mangiare. In più, il cibo ha significato a lungo qualcosa di poco appetitoso: puro sostentamento. Il buon sapore, d’altronde, è il vizio di una specie che ha superato il problema immediato della sopravvivenza. La cucina come la intendiamo oggi iniziò proprio così: iniettando stupore in un’azione necessaria.
Non che, nel nostro parterre di competenze naturali atte alla sopravvivenza, non fossimo stati dotati di metodi per analizzare il cibo prima di ingerirlo. Lo strumento fa parte dei nostri cinque sensi, e si chiama tatto. Toccando il cibo ci prepariamo a goderne appieno. Il motivo risiede nel fatto che il tatto è il sistema sensoriale che per primo sviluppiamo da neonati, lo stesso con cui, nei primi mesi di vita, impariamo a interagire con il mondo circostante. Se qualcosa, toccandolo, rivela una consistenza piacevole, allora il nostro cervello farà scattare un particolare semaforo verde e ci sentiremo autorizzati a portarlo alla bocca per mordicchiarlo e assaggiarlo. Si tratta di un gesto naturalissimo, che resta radicato in noi quando cresciamo: al supermercato è tastando la frutta che capiamo se è matura o acerba, che pregustiamo la gradevolezza del suo sapore.
Il legame tra tatto e nutrimento non parla solo di natura, ma anche di cultura, dove la pratica di mangiare con le mani è legata alla cucina a doppio filo. Nelle tradizioni più antiche, quelle degli attuali Cina ed Egitto e dell’antica Mesopotamia, tutto ciò che si mangiava, lo si mangiava con le mani. Purtroppo, gran parte delle ricette a base di riso, fagioli azuki, lenticchie e rape tipiche di queste società non ci sono pervenute, eccezione fatta per quella che a oggi risulta essere la più antica esistente, originaria dell’Egitto e trascritta su papiro in lingua greca: la “Purea di lenticchie”, del 300 d.C. circa.
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E l’Occidente? Andando alle nostre radici, e indipendentemente dalla classe sociale, anche nell’antica Grecia si mangiava rigorosamente con le mani, seduti a terra o intorno al tavolo. L’unico utensile tollerato — l’unico, badate bene — era il cucchiaio per le zuppe, spesso rimpiazzato dal pane. Quando entrarono in contatto con i greci, anche gli antichi romani adottarono le loro usanze culinarie, incorporandole alle proprie. E, dalle loro parti, si cominciò a usare il pane come pulisci-dita, sporcate mangiando. Dopodiché lo gettavano ai cani o ai servi.
A questa altezza del discorso, è necessaria una precisazione: finora abbiamo parlato di “mangiare con le mani”, ma sarebbe più accurato dire “con la mano”, la destra per l’esattezza. I romani lo facevano per via di una certa attenzione all’igiene, visto che la sinistra aveva altri nobili e intimi scopi. Comunque lavavano entrambe, prima e dopo il pasto. Sebbene non fossero i primi a farlo, con loro tale gesto divenne sistematico. Tra una portata e l’altra comparivano poi le ciotole “lavadita”, per pulirle nuovamente. L’etichetta diventò più rigida nel Medioevo, quando comparvero servitori specializzati incaricati di lavare le mani degli ospiti. Dimostrazione di estrema raffinatezza era mangiare escludendo l’uso del dito anulare e del mignolo, impiegando solamente pollice, indice e medio.
Margaret Visser, nel suo libro The Rituals of Dinner, descrive come fosse consuetudine per alcuni utilizzare determinate dita per specifici piatti, mantenendo le altre pulite e pronte per servirsi da un altro vassoio. Questa pratica era fattibile solo in presenza di cibi cotti a lungo e con cura, così da non doverli tirare; di conseguenza, la carne doveva essere particolarmente tenera, già tagliata a pezzi o sminuzzata. Solo i più ricchi e quelli dotati di numerosi servitori potevano permettersi tali sofisticatezze.
Mangiare con le mani, insomma, comporta un cambiamento effettivo nella sostanza e nella percezione del cibo. E permette di perdersi anche un po’ nella filosofia: nel Libro d’ombra di Jun’ichirō Tanizaki, la forchetta, a differenza delle bacchette, interagisce con il cibo in modo più brusco, spezzandone l’unità e l’armonia. Al contrario le bacchette, così come anche le mani, accolgono il cibo rispettandone l’insieme e l’integrità, sia in termini concettuali che fisici. Mordere qualcosa che inevitabilmente avviciniamo al naso ce ne fa cogliere ogni sfumatura: così, anche il sapore ci risulterà diverso da quello che si gusta assaporando il boccone già tagliato con forchetta e coltello.
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Non solo nel passato, però: in alcune parti del mondo, mangiare con le mani è ancora una pratica viva e apprezzata, adottata in varie culture arabe, indiane e africane. Nella tradizione gastronomica dell’Etiopia spicca l’injera, morbida frittella a base di farina di teff, un cereale piccolissimo simile per consistenza alla sabbia fine. Questa viene solitamente servita insieme allo shiro, un ricco stufato preparato con ceci o fave tritate e spezie aromatiche. Con la mano destra si strappano pezzi di injera e si immergono nello stufato, assaporando il suo sapore intenso con ogni boccone. In Bangladesh invece si può gustare il bhorta, un piatto super versatile composto solitamente da un mix di verdure, bucce, ortaggi, pesce o carne, cucinati in diversi modi: bolliti, al vapore, al forno o leggermente fritti. Il bhorta viene comunemente accompagnato da paratha e roti, pani piatti perfetti per assorbire e non sprecare nemmeno una goccia delle salse che lo accompagnano.
E anche in Occidente, c’è da dire, esistono piccole resistenze a forchette e coltelli. Dall’hamburger, classico americano, alle tapas spagnole, fino alla variegata tradizione italiana che include pizza, crostini, panelle, olive ascolane e supplì. Insomma, che sia un’ostrica, un taco, un kebab, un arancino o un involtino primavera (l’elenco non si esaurisce certo qui), l’atto di afferrare il cibo con le mani e portarlo alla bocca diventa un rituale quasi meditativo, un gesto d’amore. La vita è decisamente più facile quando la si prende a morsi.
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Solo che, nel IV secolo, in Cina compare un primitivo modello di forchetta a due rebbi. L’utensile fu perfezionato dai bizantini, e grazie a loro iniziò lentamente a diffondersi, primi fra tutti tra i frequentatori delle corti e della nobiltà. Inclusa nel prezioso corredo nuziale delle nobildonne bizantine, la forchetta compie il suo viaggio verso i principi europei. La prima sembra sia stata Maria Argyropoulina, che nel 1404 va in sposa a Giovanni Orseolo: di lei si ricorda l’amore per i profumi, i lunghi bagni in acqua di rugiada e la “vanità” con cui ostentava l’uso della forchetta.
L’uso della forchetta rimane prerogativa dell’alta, anzi altissima nobiltà – principalmente italiana – fino al XVI secolo, quando anche chi fa parte della ricca borghesia inizia a inserirla nella mise en place dei pranzi formali. Per chi la utilizzava, però, la vita non era sempre facile. Al punto che persino Enrico III di Francia, figlio di Caterina de’ Medici, venne deriso da tutto il paese per la sua abitudine. Chissà se fu per questo che il suo successore, Luigi Antonio di Borbone, si rifiutò per tutta la vita di impugnare una forchetta. Continuò a mangiare con le mani fino alla morte avvenuta nel 1715, convinto che “così fa il vero gentiluomo”. Carismatico, ma non abbastanza da convincere i propri discendenti, che via via si fecero conquistare dal fascino delle posate. Nel frattempo i più poveri, che si nutrivano principalmente di pane e polenta, continuarono a mangiare con le mani fino alla fine del XIX secolo, quando un miglioramento delle condizioni economiche permise loro di accedere a una dieta più ampia, e quindi anche alle posate.
E oggi? Proprio ad aprile, Beyoncé ci ha mostrato (ancora una volta) come amarci, condividendo una foto in cui si cala una manciata di spaghetti al pomodoro dritta in bocca. Una roba che Obama, scansati proprio (indimenticabile la passione dell’ex POTUS per il junk food e le mani unte).
C’è da specificare, però, che mangiare con le mani non significa catapultarsi nel “selvaggio West della tavola”.Proprio come esiste un galateo per l’uso delle posate, anche il mangiare con le mani richiede specifiche attenzioni e regole: almeno tre, che devono essere apprese se vogliamo evitare che quel qualcuno che invitiamo a cena non desideri alzarsi dal tavolo e dimenticarci per sempre (e un bel manualetto in questo senso è Elogio del mangiare con le mani di Allan Bay, pubblicato quest’anno dal Saggiatore).
Primo step: lavarsi le mani prima di iniziare a mangiare, ma in maniera più aggraziata dei romani. In alcune culture, agli ospiti viene mostrata ospitalità offrendo loro brocca e catino, con il padrone di casa che versa delicatamente l’acqua sulle mani degli ospiti. Alla fine del pasto, il galateo suggerisce la presenza di un lavandino e un rubinetto nelle vicinanze, da preferire all’uso della ciotola, se non altro per preservare lo stomaco di chi dovrebbe riportarla in cucina. Secondo, e riguarda la mano con cui si deve toccare il cibo: la destra. A prescindere dalla fede o dalla cultura, questa regola si applica sia che si tratti di pane, riso o altri cereali come miglio o mais, sia nel caso di purè di manioca o piantaggine. Utilizzare la mano sinistra è considerato un grande tabù nella maggior parte dei paesi, apparentemente assente solo in Europa e in Nord America. Sempre per lo stesso motivo dei romani? Non saprei, ma nel dubbio abbiate cura di ricordarvelo.
Terzo, è generalmente considerato molto scortese eseguire l’ultimo lavaggio prima che tutti gli altri abbiano finito di mangiare. Sarebbe come lasciare la tavola mentre gli altri stanno ancora finendo le proprie portate, quindi solitamente le persone che mangiano con le mani di solito cercano di finire il pasto insieme. Anche solo per evitare di essere gli unici ad aver finito ed essere costretti a rimanere seduti con una mano unta. Non proprio l’ideale.
Ammettiamolo: è difficile sradicare dall’immaginario collettivo l’idea che mangiare con le mani significhi automaticamente sinonimo di scarsa raffinatezza, o di abbandono della propria tradizione, compreso l’utilizzo di forchetta e coltello. Difficile, ma non impossibile. Un epilogo ideale per la tradizione del mangiare con le mani potrebbe essere, dunque, una convivenza armoniosa con il “metallo”, attraverso la creazione sempre più diffusa – a casa e nei ristoranti – di piatti specifici che finalmente possano rinnovare il piacere di mangiare, coinvolgendo l’intera nostra folle orchestra dei sensi.