Del latte non capiamo (quasi) nulla, ma non vogliamo farne a meno | Rolling Stone Italia
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Del latte non capiamo (quasi) nulla, ma non vogliamo farne a meno

Due terzi della popolazione mondiale sono intolleranti al lattosio, e non sappiamo con certezza perché i nostri antenati abbiano iniziato a berlo né come sia composto. Intanto, però, gli investimenti per spingere latte e derivati continuano

latte

Foto: Mehrshad Rajabi su Unsplash

Sul latte versato, vuole proverbio, non bisognerebbe piangere. Nemmeno quando la lattasi manca nel nostro organismo, e il bicchiere che c’è stato riempito – chessò, durante una gita defaticante a un bel maso di montagna – potrebbe provocarci dolori e sconquassi intestinali.

Chi scrive, per fortuna o per genetica, a ingollare latte non ha mai fatto difficoltà. Anzi: appena riscaldato quando è buono, schiumato nella cappuccino rigorosamente dopo le 11 del mattino, la sera, da bambina, prima di andare a dormire: rito, certezza, piacere. Entrando nella vita adulta, la mia assidua frequentazione con il latte ha assunto la forma di una liaison dangereuse: non tanto tra me e quel liquido pallido (anzi, lattiginoso), ma tra me e chi minacciava che, prima o poi, da che mondo è mondo sarebbe capitato. Bye bye baffi sporchi e un po’ sexy, come nella leggendaria campagna pubblicitaria Got Milk? che, dai primi anni Novanta, imbrattò alcuni tra i nomi più in vista (e tendenzialmente femminili) dello show business (con tanto di hotline da chiamare per avere maggiori informazioni sui benefici del latte).

Ma non erano le uniche voci. Se tutti (almeno, dagli anni Cinquanta / Sessanta alla prima decade del Duemila) siamo cresciuti con la convinzione che il latte (con i suoi derivati) è un alimento-pilastro della nutrizione umana, ricco di calcio, buono per prevenire l’osteoporosi, eccetera; be’, altri hanno iniziato a dirci che, forse, non è proprio così. O che, detta meglio: potrebbe esserlo, ma non ne siamo sicuri. E l’unica evidenza è che ci siano ingenti interessi economici da parte dell’industria lattiero-casearia a volercelo far credere.

Ok, un passo indietro, una cosa alla volta: perché, per essere “solo” un alimento, dal latte siamo ossessionati fin troppo. Apparentemente lo erano anche i nostri antenati, anche se, relativamente ai tempi storici, non si deve andare troppo indietro. Le prime tracce di ingestione di latte si ravvisano circa 10.000 anni fa, il legame è quello con le prime popolazioni dedite alla pastorizia e all’allevamento di animali. Questo parlando, naturalmente, di individui adulti, in quanto, per i neonati, non fa differenza che il latte materno non sia esattamente identico a quello degli altri mammiferi: anche lì è contenuto lattosio, di-saccaride composto da glucosio e galattosio e principale difficoltà digestiva per chi è, appunto, intollerante al lattosio.

Questi individui non sintetizzano la lattasi, enzima che si preoccupa di separare i due zuccheri e di creare “mattoncini” più esili da digerire (intanto, fuori di retorica, c’è chi, con il latte, prova a farci dei mattoni veri). Il punto è che, una volta svezzato, nessun essere umano adulto dovrebbe essere teoricamente in grado di sintetizzare la lattasi, in quanto il suo periodo di nutrimento a base di latte (materno) è terminato. Questa è la motivazione che spinge alcuni a parlare della “innaturalezza” della bevuta di latte in età non più infante. Ma, come tutte le cose non di natura, dietro una deviazione dallo standard si potrebbero nascondere fondamentali nodi evolutivi.

Interpellata dalla BBC, Laure Ségurel, ricercatrice del Museo dell’Uomo di Parigi, ha detto che le prime tracce di persistenza della lattasi si hanno, in Europa del Sud, a partire da circa 5.000 anni prima di Cristo. Stessa cosa vale, dai 3.000 anni a.C., per l’Europa centrale. È però all’Africa che bisogna guardare per provare a piantare i semi di una risposta che assomiglia all’indovinello dell’uovo e della gallina: ma se gli adulti di essere umano non erano capaci di digerire il lattosio, com’è che hanno iniziato a bere latte?

Secondo uno studio riportato da Science, nei moderni Kenya e Sudan si sarebbe infatti bevuto latte circa 6.000 anni fa. Allo stesso tempo, evidenze tratte dal DNA di scheletri risalenti a quel periodo non mostrano tracce di lattasi. Combinati, questi due dati compongono un quadro che parla dell’indipendenza geografica del consumo di latte (non importa in quale zona del mondo fosse, gli umani hanno iniziato a farlo) e della preminenza della cultura sulla natura: in tempi di carestia o di necessità alimentare, riuscire a nutrirsi, anche a costo di effetti collaterali come flatulenze e dolori alla pancia, era la cosa più importante.

Da lì comincia l’ipotesi della “sopravvivenza del più adatto”: se il latte era un alimento necessario, allora prima alcuni individui svilupparono mutazioni a favor di lattasi, e poi questi tratti furono trasmessi alla loro discendenza. Un altro studio, pubblicato su Nature nel 2022 e di nuovo con focus sulla tolleranza al lattosio degli europei, porta questa teoria a un livello più radicale, e propone l’ipotesi che le reazioni di intolleranza al lattosio siano così violente perché, in un’epoca di ristrettezza alimentare (e di necessità di consumare il latte), la differenza in termini di sopravvivenza tra chi avrebbe digerito il latte e chi non era abissale. Tanto che l’evoluzione si sarebbe spinta a “trovare una soluzione rapida” per togliere di mezzo geni che non sarebbero stati congeniali alla sopravvivenza della specie. Immaginate una dissenteria da ingestione di lattosio quando fuori c’è caldo e siete disidratati…

Nonostante questo, a oggi solo un terzo circa della popolazione mondiale produce lattasi e digerisce il lattosio. Di questa porzione, gran parte è concentrata nei Paesi Scandinavi. Allo stesso tempo, altri studi indicano la mancata corrispondenza tra l’aumentato o addirittura regolare consumo di latte e lo sviluppo di una più spiccata abilità a digerirlo. È il caso delle popolazioni della steppa euroasiatica (Russia, Mongolia, eccetera), grandi consumatori di latte ma tendenzialmente incapaci di processarlo attraverso il loro sistema digerente.

C’è poi un ulteriore fattore da tenere in considerazione: se già oggi la produzione di latte materno a volte non basta per svezzare il bambino, figurarsi in periodi di insicurezza alimentare ben più spiccata. In questo caso, poter avere accesso a una seconda fonte di latte, quello degli animali addomesticati, si sarebbe rivelato un notevole vantaggio evolutivo.

A ogni modo, date queste premesse pare assurdo tornare alla campagna Got Milk?. In che senso si dovrebbe spingere il consumo di un prodotto a cui la maggior parte della popolazione mondiale (con un intero continente, l’Asia, praticamente incapace di digerire il lattosio) è intollerante? O, stando su lidi più vicini a casa: quante volte vi hanno ripetuto che il calcio si trova soprattutto nel latte e nei suoi derivati, e che per non raggrinzirsi con il tempo bisogna berlo?

Un aneddoto prima di continuare: nell’episodio dedicato da The Weeds di Vox – podcast che si occupa di indagare le cose che tendiamo a dare per scontate, ma che influenzano la nostra vita quotidiana – all’onnipresenza del latte, spunta un dato interessante: nonostante la maggiore tolleranza, e il maggiore consumo, di latte nei paesi scandinavi, non si riscontra, nella stessa popolazione, una diminuzione dell’incidenza dell’osteoporosi. Potrebbe essere perché sintetizzare vitamina D a quelle latitudini è più difficile? Chissà.

Sempre Vox, in un lungo e dettagliato articolo su quella che definisce la trasformazione del latte in “superfood”, sottolinea come la propulsione al consumo ricevuta dal latte sia stato tanto pervasiva quanto non necessariamente legata ai suoi reali benefici per il corpo umano. La ragione del suo status privilegiato sarebbe un mischione di lore legata alla produzione del latte materno e di eccedenze fattuali legate all’industria casearia, che, ritrovandosi con un surplus di prodotto, cercano di metterlo a reddito.

Citata nel pezzo, Anne Mendelson, autrice di Spoiled: The Myth of Milk as Superfood, scrive: «[Il latte] ha guadagnato e mai perso uno status di esaltazione come proxy del latte materno, parlando di vita e nutrimento. Un’idea che però non è associata ad alcun dato nutrizionale nella vita reale». Anche perché del latte materno umano sappiamo davvero pochissimo: non abbiamo dati certi sulla sua composizione, o del perché a volte essa cambi; sappiamo che è tendenzialmente più zuccherino che grasso, e che la componente di grasso potrebbe variare in base a quante tirate vengono effettuate al giorno. Sappiamo che i bambini svezzati a latte materno sono generalmente più resistenti alle malattie di quelli a cui sia stato somministrato molto latte in polvere. Il che è, da un certo punto di vista, paradossale: se la composizione del latte materno cambia costantemente, non dovrebbe essere meglio, come per una cucina professionale, lavorare con un prodotto che si sa essere standard, uguale nel tempo, affidabile nelle sue componenti nutritive?

 

 
 
 
 
 
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Apparentemente no. Anche perché sembra che il latte materno sia un veicolo fondamentale per far sviluppare all’infante la capacità di relazionarsi con il mondo al di fuori di esso, che si tratti di interazione con i batteri o altro. L’Atlantic li definisce addirittura una trinità: madre, latte, bambino.

In generale il latte bianco, denso, quello sbicchierato quando il giorno è fumoso sul nascere, o brumoso alla chiusura – si veda Caproni: «E intanto ho conosciuto l’Erebo / -l’inverno in una latteria» (Stanze della funicolare, Interludio) – viene di norma associato proprio all’infanzia. Ed è dall’infanzia che il suo consumo viene promosso, con l’antica strategia per cui chi vende a un minorenne vende, in realtà, al suo adulto portafogliato di riferimento. Dicevamo, motivazioni economiche. Così, per esempio, nel 1964 il Congresso degli Stati Uniti passò il National School Lunch Program, in cui era fatto obbligo di servire ai bambini, nelle mense scolastiche, un bicchiere di latte intero a ogni pasto.

 

 
 
 
 
 
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Il piano, passato con il benestare dell’equivalente del Ministero dell’Agricoltura per gli Stati Uniti, era volto a tutelare gli interessi degli industriali del settore. Solo che, nelle decadi dei ’70 ed ’80, tra (ricordiamolo un’altra volta) effettiva intolleranza al lattosio della popolazione (specie nera), preoccupazioni legate alla salute e alla forma fisica (il latte intero è ricco di grassi saturi) e la popolarità crescente delle bevande zuccherate (soda, Coca Cola e compagnia), il consumo andò a scemare. Il “problema” fu risolto istituendo, nel 1983, il National Dairy Promotion & Research Board, istituzione semi-governativa il cui unico e dichiarato scopo era quella di aumentare il consumo di latte nel paese. È grazie a questo Board se possiamo bearci degli artwork prodotti per Got Milk?.

Complice la crescita delle preoccupazioni ambientali, il collegamento dell’industria del latte con quello dell’allevamento intensivo e uno stile di vita generalmente più attento all’alimentazione nella popolazione occidentale, istruita e con potenziale di spesa, il consumo di latte negli Stati Uniti si è notevolmente e continuamente ridotto negli ultimi vent’anni. Non dobbiamo venire a spiegarvelo noi che una mucca, come tutti i mammiferi, produce latte solo quando serve a lei, ovvero dopo la nascita di un vitello, ed è per questo che vengono continuamente inseminate artificialmente e munte, con conseguenze molto gravi per l’animale come la mastite, infiammazione delle ghiandole mammarie che rischia di far passare agenti patogeni nel latte stesso.

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Foto: Noemi Jimenez su Unsplash

L’Italia presenta un quadro simile: secondo recenti dati del Ministero della Salute, tra il 1998 e il 2020 il consumo giornaliero di latte è passato da interessare il 62,2% della popolazione a coinvolgerne solo il 48,1%. Sono invece aumentati i non consumatori, passati dal 17,2% della popolazione al 22,2%. La fotografia parla inoltre di un consumo diseguale tra le fasce d’età, dove i giovani sotto i 24 anni si mostrano i più restii a consumare latte.

Arriva allora la parola che tutti stavamo aspettando: GenZ. Che cosa fa la GenZ, ovvero la più bassa fascia di giovani dotata di potenziale d’acquisto, quando si trova di fronte al latte? Tendenzialmente, preferisce alternative vegetali, che tecnicamente, vedasi il caso di Oatly nel Regno Unito (quando pubblicarono una campagna pubblicitaria con lo slogan “è come il latte, ma fatto per gli esseri umani”, e persero), non possono nemmeno chiamarsi latte. Tanto che, già cinque anni fa, il Guardian parlava di «post-mild generation» portando in rassegna alcune delle maggiori alternative plant-based sul mercato e lo shift di consumo che indicavano. Nemmeno queste sono un consumo perfetto: al pari di un osannato avocado, alcune delle materie prima utilizzate per questi non-latti – come le mandorle, per esempio – hanno bisogno di ingenti quantità d’acqua per essere coltivate. E se pensiamo che spesso vengono coltivate in luoghi che di acqua, come la California o la Sicilia, di acqua non ne hanno poi in abbondanza…

 

 
 
 
 
 
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Sta di fatto che, ragione o non ragione, l’industria del latte si è sentita di controbattere. E, con mossa nostalgica ma non troppo, ha dato il via alla campagna Gonna Need Milk, per la quale sono stati arruolati influencer, atleti, e star degli e-sport. Altra operazione degna di nota è stata quella di Dairy Management, Inc., ulteriore agenzia semi-governativa statunitense per la promozione del latte che ha visto infiltrare alcuni consulenti all’interno di catene di fast food come Domino’s. Risultato: la loro pizza ha da qualche anno una nuova ricetta, più formaggiosa del 40%.

Le armi, insomma, appaiono affilate, e non sembra che, per convenienza politico-economica, tradizione o romanticismo, saremo ancora pronti ad abbandonare l’ennesimo cibo che un tempo ha significato sopravvivenza, ma che oggi potrebbe risultare superfluo e che, se la produzione incontrasse una vera decrescita felice, potrebbe aiutare a mitigare a lungo termine le storture legate all’industria alimentare su larga scala. Che sia un bene o che sia un male, la scienza è d’accordo su un’unica cosa, anzi due: non abbiamo abbastanza elementi per dire se davvero il latte sia un alimento così unico e necessario come alcuni ci comunicano; e comunque i nutrienti che in esso si ritrovano sono presenti anche in altri alimenti, spesso non di origine animale.

 

 
 
 
 
 
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A chi scrive un po’ rincresce, per carità: se il latte fosse il prossimo sulla lista delle cancellazioni, gran parte delle mie memorie diventerebbe materia d’Inquisizione. Seguendo un altro adagio dopo quello con cui abbiamo aperto questa ricognizione, si potrebbe dire che la verità stia nel giusto mezzo, e tanto che abbiamo il latte vale usarlo, il giusto, qualche volta.

Intanto, però, sappiamo una cosa: mentre ancora cerchiamo una (piuttosto appassionante) verità scientifica sui misteri del latte, Giorgio Caproni, nella sua latteria, ci trova una sorta di cuore dell’inferno, e Proserpina è di corvée dietro il bancone per la stagione. E, per non cascare nella sovra-interpretazione, la chiudiamo così.

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