L’antipasto è questo, e vi promettiamo che avrà un senso: nei ristoranti filippini in giro per il mondo sta tornando di moda una pratica caduta in disuso per anni (circa una cinquantina) di nome boodle fight. Questa modalità di consumare il pasto prevede che tutto il cibo sia messo al centro della tavola – contemporaneamente e senza divisione di portate – su una foglia di banano che fa da supporto, senza piatti né posate. Sull’origine di questa tradizione, nata durante la guerra d’indipendenza filippina di fine ‘800, ci sono due diverse teorie: la prima è che sia comparsa quando i soldati, non avendo tempo di apparecchiare a modino, scatafasciavano tutto il cibo sulla foglia di banano per mangiare, un po’ arrangiati, dove si trovavano e con le mani (o come si dice in filippino kamayan). Mentre l’altra, più edulcorata e legata alla condivisione, vuole che a rubacchiarsi il cibo da una foglia comune, in una specie di gioco-lotta, fossero i soldati filippini e quelli americani. Magari tutte le guerre finissero così…
Una scena che dalle parti del mondo occidentale sarebbe davvero raro vedere. È noto a tutti: sulla nostra bella tavola (altro che foglie di banano) si mangia secondo una successione determinata di portate (antipasto, primo, secondo, dolce) servite con certo garbo e criterio. Se questo è lapalissiano, quello che spesso non si sa è che questo modo di esser serviti origina da un servizio detto “alla russa”, nato all’inizio dell’800 ma non nell’impero degli zar, bensì in Francia, alle porte di Parigi precisamente.
Il primo ad aver chiesto che i suoi commensali fossero serviti “alla russa” fu l’ambasciatore dello zar di Russia in Francia Alexander Borisovich Kurakin. A darcene però una prima vera testimonianza scritta fu Marie-Antoine Carême, cuoco e pasticcere tra i più importanti della gastronomia francese nonché promotore dell’uso in cucina della giacca bianca e dell’iconico cappello da cuoco o toque blanche. È proprio Carême che racconta, nella sua opera, di aver fatto servire un banchetto «à la Russe par l’auteur à S.M.I. l’empereur Alexandre, pendant son séjur à Paris, en 1814 et 1815» mettendo nero su bianco l’inizio di questa lunga tradizione.
Prima di questo spartiacque epocale, la modalità di servizio era, evidentemente per mancanza di fantasia, quella “alla francese”, e voleva che «i piatti di uno stesso servizio fossero in tavola tutti insieme ed esposti» racconta Matteo Ghirghini, direttore di Garum, Biblioteca e Museo della Cucina di Roma. Se ve lo state chiedendo, e magari vi state anche confondendo come è successo a chi scrive, i servizi citati – e non il servizio – erano le diverse macro-aree dell’immenso banchetto e si dividevano in servizi di credenza (freddi) e servizi di cucina (caldi). I primi, invece che da un cuoco erano gestiti da una figura quasi mitologica, che aveva in cura la credenza – o buffet – il credenziere. In ogni caso l’effetto scenico di questi banchetti «il cui scopo non era certo quello della nutrizione, ma anzi ostentare la propria potenza, ricchezza e quindi anche forza politica e militare» dichiara sempre Ghirighini, era suscitato dalla presenza, oltre che di tutto il cibo en plein air sulla tavola, anche dall’esposizione di vere e proprie sculture edibili di marzapane, gelatina e zucchero in stile Boss delle Torte dell’ancien régime, oltre che da opere decorative d’ingegneria meccanica chiamate autòmata.
Bisogna però dire che l’abitudine di avere tutto il cibo sulla tavola non era solo una faccenda da ricchi e aristocratici. In un’analisi dello storico Massimo Montanari (ne Il sugo della storia) viene raccontata la pratica legata alla tradizione popolare e contadina di avere sul tavolo tutta una «girandola di sapori» come formaggi, salumi, qualche verdura e una zuppa. Qualcosa che ci riporta» – come dice lo storico – «alla genealogia del nostro attualissimo e amatissimo antipasto», portata che avrebbe in sé «la memoria di quelle antiche abitudini» che facevano imbandire la tavola di tutto e di più.
Altro discorso invece fa lo storico delle scienze gastronomiche e primo rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo Alberto Capatti, che sugli antipasti di un tempo dice «Quello che scrive il prof. Montanari è vero, ma bisogna dire che nell’uso fiorentino di Pellegrino Artusi, per esempio, si cominciava con una minestra o un brodo e quello che oggi chiamiamo antipasto susseguiva a questo ed era un boccone interessante. Pensare che Artusi tra gli antipasti, o come li chiama, i Principii, colloca addirittura il sandwich (la ricetta qui)». Ma tornando alla rivoluzione del servizio “alla russa”, la domanda è: il modo di servire subisce questa epocale trasformazione anche sulle tavole non abbienti? Capatti risponde di no, perché giustamente «il numero limitato di vivande fa sì che non ci sia proprio un servizio “alla francese” o “alla russa”, che era invece un mutamento per classi molto agitate, che volevano spettacolarizzare il pranzo».
Intanto, sempre in Francia, verso la seconda metà del ‘700 sono nati i ristoranti, luoghi – nomen omen – in cui viene servito un brodo di carne altamente rinvigorente, anzi di più, ristorante. Soprattutto però dove «a differenza della taverna […] non bisogna starsene seduti a un tavolo lungo in compagnia di ogni sorta di sconosciuti. Al ristorante ognuno ha il proprio tavolo. Può decidere a che ora vuole essere servito. Può scegliere le pietanze da un menu», come scrive Christoph Ribbat in Al ristorante. È all’interno dei ristoranti, e una volta usciti dalle corti, che si sviluppano così tutti i diversi servizi che oggi esistono e che sono: quello “alla francese”, dove il cameriere porta il vassoio con le pietanze e le pinze per far servire da solo il cliente (diretto) o, e questo è l’erede di quello alla francese di cui abbiamo parlato più sopra, lasciando sul tavolo il vassoio e le pinze per permettere a chi siede di servirsi da solo (indiretto). Poi c’è quello con guéridon o “alla russa”, per cui i piatti, già completi, si portano dalla cucina alla sala attraverso l’uso del carrello e quello “all’inglese” dove dal vassoio è il cameriere a servire le vivande al cliente. Infine quello “all’italiana” che comincia sostanzialmente nel ‘900, quando nasce anche la figura dello chef, per cui il piatto arriva in tavola bell’e pronto.
In quest’ultimo caso il piatto esce dalla cucina «buono sì, ma soprattutto bello», come racconta Matteo Zappile insegnate dell’Accademia di Alta Formazione di Sala Intrecci, Restaurant Manager del Pagliaccio di Roma (2 stelle Michelin) e premio miglior servizio di sala sempre per la Michelin nel 2022. Una constatazione che ci fa pensare quanto l’aspetto estetizzante della cucina non sia mai venuto a mancare, ma si sia solo nel tempo ri-editato in sempre nuove espressioni. E che, quando Paul Bocuse mise le mani in pasta, decidendo che era ora di togliere le coperture di salse e lasciare che il piatto risplendesse di fronte al cliente, diede inizio alla Nouvelle Cuisine.
Oltre la storia, nel presente il servizio è, comunque, soprattutto una questione di fattore umano: quello che si traduce banalmente – ma poi mica tanto – nel lavoro del cameriere. È stato Massimo Bottura, di recente, a dire che il servizio è il 50% dell’esperienza gastronomica, il che dovrebbe smetterla di farci parlare sempre e solo «about the chef, the chef, the chef» (così Bottura nel suo intervento). Un concetto ripreso anche da Zappile: «oggi per dare un po’ di lustro alla sala a volte si completa un piatto davanti al cliente con qualche salsa e finitura. Ma sicuramente non c’è più, almeno nella ristorazione gastronomica, una presenza in sala numerosa, come quella che serviva per esempio per fare un servizio “alla russa” che prevedeva due operatori, uno per sporzionare e l’altro per mettere in tavola, più un terzo che porta il vassoio dalla cucina alla sala».
Il mondo dell’alta ristorazione, degli stellati, è però solo una piccola, piccolissima parte del mondo del servizio di oggi. Nel presente post-industriale, il “cibo veloce” va in scena su palcoscenici separati, quelli dei fast food e delle catene soprattutto. Come in una catena di montaggio, tutto è reso prevedibile, standardizzato, idealmente più efficiente. Si perde di sequenza, tutto è posato sul vassoio nel medesimo istante, portata principale (hamburger), contorno (patatine), bevande. L’unica regola per lo staff: keep smiling, così da cavarsela con una «perdita relativamente ridotta di energia emotiva», come scrive Ribbat. Per la formazione di questi professionisti, McDonald’s ha creato già nel 1961 l’Hamburger University, un’università per specializzarsi in “scienza degli hamburger” ma più seriamente in marketing, leadership, business, finanza e gestione del servizio.
Fuori dalle aule dell’università (ci perdonerete il mix di sacro e profano), la realtà dei fatti è però più complessa di un case study. Nella giungla del capitalismo postindustriale e delle sue professioni liquide, tra gli ultimi protagonisti del lavoro manuale rimangono loro, nuovo “proletariato del bancone”: i camerieri. Forse allora è proprio al ristorante, come propone sempre Ribbat, che possiamo trovare un terreno di riscatto, di resistenza e di lotta. Solo lì possiamo ritrovare quel «terreno di corporeità» che rende evidente la simultaneità di «godimento e lavoro duro (fisico)» percepibile in primis nella fatica dei camerieri, e in secundis, e dietro le quinte, anche dei cuochi. Sono loro le «persone reali, lontane solo qualche metro da noi» che riescono a darci la «prova tangibile della disuguaglianza sociale prodotta dal capitalismo consumista». Vista così non resta che dire: che la sinistra riparta da Ribbat, ma soprattutto, lunga vita al servizio e ai ristoranti.