Ripartono i nuovi episodi di 4 Ristoranti con Alessandro Borghese, format Sky Original, prodotto da Banijay Italia, dal 17 dicembre la domenica su Sky e in streaming su NOW. Siamo andati sul set di una puntata “estera” (ce ne sono sempre almeno un paio a stagione, e questa apre la stagione) in Costa Azzurra, alla ricerca del miglior ristorante italiano della zona. E per vedere, naturalmente, l’effetto che fa stare dietro le quinte. Dovendo riassumere quello cui abbiamo assistito, le notizie salienti potrebbero ridursi a due. La prima: di persona Borghese, con le sue camicie jungle, le giacche a righe, le collanine e gli anelli, è pure più figo di quel che appare in tivù. La seconda: ragazzi, quel che vedete è tutto vero.
Dal momento in cui si siedono a tavola a quello in cui stilano le pagelle sul famigerato taccuino, il conduttore (o “cicerone”, come si autodefinisce) e i ristoratori (in questa puntata incontrerete Vincent Calabrese di Chez Vincent – Le bordo de mer, Tina Napoletana di Da Tina 33, Salvatore Siciliano di Villa Marina Salvatore, e Francesco Milanese di Diva Restaurant) fanno esattamente ciò che va in onda sul piccolo schermo: ordinano, mangiano, bevono, parlano, mentre il ristorante ospite si occupa di loro e degli altri clienti in sala in un turno di servizio reale.
L’unica differenza con una qualunque cena, tra amici o colleghi che sia, è che questa va avanti per ore. La media è tre, ma spesso i tempi si dilatano a dismisura: «Qualche settimana fa eravamo in questo posto piccolo, con una cucinetta così, pochi coperti. Ho detto alla troupe: dài che oggi ce la caviamo velocemente. Ci siamo seduti alle quattro. Alle otto e mezza ancora non avevamo mangiato», racconta.
Effetti indesiderati dell’ansia da prestazione che può mandare nel panico i concorrenti. E costringere la produzione a fare i salti mortali per tenere dritta la barra. «Con otto macchine da presa in azione, e un girato lungo l’equivalente di quattro giorni, non è facile mantenere un montaggio dritto, che non stravolga, lasciando che la narrazione di snodi naturalmente. Ma alla fine è tutto confezionato molto bene».
Onore al regista Gianni Monfredini, dunque, ma anche alla capacità di Ale (se ho detto che è figo posso chiamarlo Ale?) di restare sempre e comunque rispettoso, stemperare le tensioni con un’ironia che non è mai presa in giro, senza critiche feroci («a quelle ci pensano i concorrenti») ma con consigli costruttivi. Ecco perché «è raro che qualcuno ne esca veramente male, persino i disastri si buttano sul ridere», osserva. Sebbene ancora si ricordi di quella volta, a Monaco di Baviera, dove le liti furono così furiose che ebbe paura che a un certo punto qualcuno tirasse fuori una pistola.
Anche nei voti si dimostra un giudice bonario. Difficile scenda sotto al 5: «Perché dia un’insufficienza grave deve esserci qualcosa che va oltre la mia tolleranza». Passa sopra a forchette nelle cappe, calcare nei bollitori, affettatrici ingrommate, tavoli nudi senza piattini del pane – tanto per citare alcuni degli episodi cui abbiamo assistito. E sebbene non sempre abbia la possibilità di ribaltare il risultato (cit.), perché la disparità tra primi e ultimi è troppo grande, spesso con i suoi voti può premiare il vincitore morale.
Sarà anche per questo che il buon Borghese è amato dal pubblico. Persino sul lungomare di Juan-les-Pins la gente lo ferma per un selfie, tra una battuta in francese maccheronico e l’altra. In Italia, fuori dai ristoranti in cui gira c’è sempre una folla, tanti bambini con le mamme, e ci si chiede chi avrà portato chi. Il grande successo del personaggio è testimoniato dai meme – “manca ancora il mio voto”, “nulla è ancora deciso”, “per me è diesci” e compagnia – che negli anni sono stati usati in ogni contesto, dalle elezioni alle partite di calcio.
Al contrario di Nicolas Cage, che di recente ha dichiarato al Guardian di non aver fatto cinema per diventare un meme, Borghese ne va alquanto fiero: «Lo apprezzo tantissimo, mi hanno trasformato anche in fumetto e caricatura. Mi diverte sempre molto». Del resto, lui al gioco si presta, mimica facciale e tutto, quello sgranare gli occhi davanti a una pasta precotta o a una gaffe nel servizio, quando il resto della sala si “freezza” per lasciar posto al suo commento mordace. Perché ogni tanto la soddisfazione di dire la sua (sempre in modo costruttivo, eh!) se la toglie. «In fondo, è bello essere re», dice citando Mel Brooks.
Riconosciamo al nostro di avere maturato una certa autorevolezza. Televisiva, dopo 8 anni di 4 Ristoranti e relativi “figliolini” (4 Hotel di Bruno Barbieri e 4 Matrimoni di Costantino della Gherardesca), una carriera lanciata da Cortesie per gli ospiti, format originale (oggi regno dell’algida Csaba dalla Zorza) ideato nel 2005 partendo da un’ispirazione colta, l’omonimo romanzo – Comfort of Strangers – di Ian McEwan. Ma anche una statura professionale, con il successo dei suoi locali, Il lusso della semplicità, a Milano e Venezia: «Io non sono solo 4 Ristoranti».
In un epoca di ristorazione più o meno genuinamente low profile, in cui prolificano trattoriette e osteriucce con “piccola cucina”, tovaglie a quadretti e sedie impagliate, è curioso che un personaggio verace come lui abbia scelto di ammantare di lusso la sua proposta gastronomica, invero assai concreta. Sul menù compaiono cotechino, broccoli e arzilla, alici e puntarelle, la sua celebre cacio e pepe. «È la tradizione il nuovo lusso, la cucina regionale di una volta, che si è persa per la cosiddetta gourmet [detto con una certa smorfia, ndr]. Oggi al ristorante mangi sempre gli stessi piatti: il pacchero, la burrata, il gambero… Anche la cacio e pepe, ma con la scorza di lime e lo scampo crudo. Non fa per me».
Quando gli capita di prendere spunto dai concorrenti dello show, è proprio sulle tradizioni da (ri)scoprire che cade la sua attenzione. «Ultimamente in Ogliastra ho assaggiato questa ricetta della pecora in cappotto, una pecora vecchia con cui si fanno un brodo e i culurgiones, che ho sperimentato aggiungendo finocchietto e pomodoro secco. Il bello della cucina è questo, mica il lime».
Qual è un complimento che lo lusinga? «Che ho una mano femminile. Le donne in cucina hanno un palato infinitamente sensibile, senso estetico, sono più ordinate e metodiche. L’ambiente troppo testosteronico non mi piace. Voglio tante donne in cucina per abbassare il testosterone: i maschi non possono fare troppo gli stronzi se sono in minoranza. Del resto, vivo circondato da moglie e figlie femmine». Bambine irriverenti, che quando a casa prepara una zuppa lo apostrofano: «Il passato che ha fatto nonna era più buono». Che poi è il tipo di sconfessione che, tra le mura domestiche, subisce ogni cuoco. Per quanto figo sia.