La scena è una camera fissa, primo piano sulla bocca di un ragazzo o una ragazza che mangia quantità oscene di cibo. Si avvicina al microfono per scandire bene i morsi, le salivazioni, i piccoli risucchi che, a sentirli a tavola, mamma che fastidio. Ma qui siamo staccati da uno schermo, e il ribrezzo per fauci in masticazione mezze aperte non si applica. Lo spettacolo continuerà, in diretta o registrato su YouTube, finché il protagonista non avrà spazzolato l’ultima briciola.
Si chiama mukbang, e, qualche anno fa, ha rotto l’internet per un po’, aprendo una nuova nicchia per i creator del Tubo. Il mukbang è nato in Corea del Sud, e vuol dire, letteralmente, “trasmettere quando si mangia”. Per molti è stato il primo contatto con una cucina spesso non pervenuta, in Italia, nella galassia che la nostra immaginazione associa al cibo asiatico. Ramen, sushi, spaghetti di soia, involtini primavera: anche la provincia profonda è familiare con questi termini. Tok bokki, bulgoghi, bibimbap, kimbap, invece, proprio no. Potrebbe non durare molto, però. Perché l’intrattenimento coreano sta conquistando tutti: facendo trionfare Parasite agli Oscar del 2020; catapultando i BTS nelle top chart mondiali di Spotify; rendendoci dipendenti dalla versione sudcoreana delle soap opera, i K-drama. Per completare la colonizzazione della serata infrasettimanale qualunque, manca solo il cibo.
«La scalata di soft power della Corea del Sud è stata rapidissima, di fatto si è verificata con il governo degli ultimi due Presidenti, Moon Jae-in e Yoon Suk-yeol. Si parla dal 2016 in avanti. Secondo alcuni osservatori potrebbe essere una piccola bolla, pronta a scoppiare in qualsiasi momento. Molti altri non la pensano così. Quale che sarà l’evoluzione del soft power coreano, però, è probabile che il cibo farà fatica a inserirsi compiutamente nell’equazione, o meglio, più fatica rispetto agli altri vicini asiatici. Almeno per quanto riguarda l’Italia». Giulia Pompili è una giornalista de Il Foglio, e da anni scrive di Cina, Coree, Taiwan e Giappone. È inoltre autrice con Francesco Radicioni del podcast Bambù, prodotto da Chora Media e Far East Film Festival, che indaga i cambiamenti dell’Asia degli ultimi venticinque anni.
«Un paese come il Giappone ha messo subito il cibo nel calcolo degli asset culturali da esportare per rafforzare brand e identità nazionale all’estero. Questo per due motivazioni: la prima è che il cibo è parte integrante, anzi, imprescindibile nella costruzione dell’identità dei Paesi asiatici. Sembra un caso simile a quello dell’Italia, ma non lo è, perché in Oriente il cibo regola e rispecchia la costruzione della società, e parla di potere. Sono rimasti famosi parecchi piccoli incidenti scatenatisi alle tavole dei pranzi e delle cene diplomatiche per aver servito il piatto sbagliato alla delegazione sbagliata. E anche nella sfera privata il cibo parla di potere, basti pensare che, in Corea del Sud, è sempre il più piccolo del tavolo a dover servire da bere agli altri commensali, ma è il più anziano a gestire il ritmo della bevuta. In Asia tutto è simbolo. La seconda motivazione è che il cibo è un linguaggio immediato, comprensibile da chiunque. E se uno straniero si innamora del tuo cibo, siete già sul piede giusto».
Ciò a cui Pompili fa riferimento è anche nota come food diplomacy o gastrodiplomacy, termine coniato dall’Economist nel 2002 per descrivere la strategia con cui la Thailandia stava accrescendo la propria desiderabilità come meta turistica internazionale a partire dal cibo. Guidato dalla politica, il programma si articolava attraverso l’aiuto attivo a chi volesse aprire un ristorante tailandese all’estero, che si trattasse di rifornirsi di ingredienti tipici od ottenere più facilmente il permesso di lavoro per uno chef del posto. Inoltre fu creata una “Bibbia” dei ristoranti, con precise istruzioni di replicabilità per ogni categoria di servizio, informale, medio, formale. I risultati parlano da sé: al 2002 erano presenti circa 5.000 ristoranti thailandesi nel mondo. Nel 2018 il numero era triplicato, attestandosi attorno ai 15.000. Crescita che si accompagnò a un boom del turismo, che vide il Paese accogliere 40 milioni di turisti nel solo 2019, per 56.7 miliardi di dollari di spesa effettuata in loco.
Seguendo l’esempio della Thailandia, anche la Corea del Sud ha attuato una strategia simile a partire dal 2009. Gli obiettivi: entro il 2017, quadruplicare il numero dei ristoranti coreani all’estero, standardizzare le pratiche di preparazione dei piatti e uniformare le grafie per i nomi dei piatti più iconici, a volte presentati con spelling diversi. Al termine del programma, i ristoranti coreani all’estero erano triplicati: da 9.253 a 33.499. H Mart, storica catena di alimentari coreana presente solo negli Stati Uniti, continua a espandersi e, grazie al bestseller autobiografico di Michelle Zauner (aka Japanese Brekfast) Crying in H Mart, è entrato di diritto nella cultura pop. Beef, il più brillante originale Netflix del 2023, porta in scena personaggi coreani di seconda generazione tra un riferimento al Korean barbecue e uno all’intolleranza al lattosio comune a quasi tutti gli orientali. Dal 2017 la Guida Michelin copre anche la Corea del Sud (o meglio, Seoul). E in Italia?
Da noi, gli amici che hanno mangiato coreano almeno una volta nella vita si contano sulle dita di una mano. Per vedere come mai, bisogna partire alla sorgente. E rispondere a una domanda: di che cosa parliamo, quando parliamo di cibo coreano?
«I miei genitori sono arrivati in Italia per studiare musica e canto lirico. La ristorazione è venuta dopo, quando – tra il 1997 e il 1998 – alcuni Paesi dell’Asia furono colpiti da una violenta crisi economica. Tra questi c’era anche la Corea del Sud, e per far quadrare i conti i miei cominciarono a lavorare nel primo ristorante coreano di Milano. Mia madre aveva sempre cucinato molto a casa, è l’ultima dei suo fratelli e sorelle e, in Corea, questo vuol dire occuparsi delle faccende di casa, tra cui la preparazione del cibo. Qualche anno dopo abbiamo rilevato il ristorante dalla proprietà precedente e oggi sono io a seguire la cucina. Ancora, però, i piatti che trovi sul nostro menù sono quelli che potresti mangiare in qualsiasi casa coreana. È l’approccio che hanno ancora tutti i ristoranti coreani, almeno a Milano».
Ha Neul Ko è lo chef di Ginmi, storico ristorante coreano in zona Città Studi. In Italia c’è arrivato a due anni, e per lui è sempre stato naturale confrontarsi con due tradizioni culinarie: quella coreana tra le mura di casa, quella mediterranea fuori. «Quando ero un ragazzino non pensavo che un italiano potesse mangiare coreano. I miei amici venivano a casa mia e mangiavano coreano, fine. Poi, la prima volta che sono andato al ristorante dove lavoravano i miei, ho capito: stavo mangiando le stesse cose che avrei avuto a tavola in qualsiasi sera, erano preparate dai miei genitori, e in sala c’erano sia italiani, sia coreani che volevano mangiare qualcosa che ricordasse loro di casa. Per trovare sapori sicuri, diciamo, di cui ti puoi fidare e che ti parlano».
Se vi suona una campana è perché avete già mangiato in uno, forse più ristoranti coreani in Italia, e avete notato che, detta in soldoni, i piatti si assomigliano un po’ tutti. La ragione di tali coincidenze si trova nel racconto di Ko, e di come la sua famiglia sia arrivata alla ristorazione: non-professionisti, in Italia per altri motivi, con la necessità di consolidare la propria posizione. Scelta, quella di restare, che compiono in pochi. Se a Milano il cognome più diffuso è il cinese Hu, i numeri della comunità coreana nel nostro Paese non sono paragonabili nemmeno alla lontana, con gli ultimi dati Istat che parlano di un totale di 3.553 presenze sull’intero territorio nazionale.
«La verità è che tanti rientrano dopo qualche anno, o terminati gli studi. La società coreana non è abituata a far gruppo come quella cinese, a sostenersi dall’interno. Prova ne è che non conosco nessuno, dei colleghi coreani, che possieda più di un ristorante o di un’attività commerciale. Siamo indietro anni luce. Nel mio piccolo vorrei cominciare a scardinare questa situazione, il mio sogno è aprire un secondo locale in stile bistrot, con una carta più informale e contemporanea e una bella selezione beverage».
Vero è che la cucina coreana può lasciare al primo assaggio piuttosto spiazzati, anche perché la Corea del Sud non ha sviluppato una tradizione culinaria parallela e tarata sulla conquista dei palati dell’Ovest, cosa che invece hanno fatto Cina e Giappone con piatti come riso alla cantonese, o California roll. Piatti per i quali i giapponesi si sono inventati una categoria a parte: yōshoku, letteralmente “cibo occidentale”.
Lo sa bene Marco Ferrara, in arte @seoulmafia, che in Corea del Sud ci si è trasferito a 21 anni: classe ’89, Ferrara la Storia l’ha precorsa alla grande, cominciando ad ascoltare K-pop da adolescente nella sua cameretta di Vimercate. Il merito è di Britney Spears e di una idol coreana accusata di averle plagiato alcune canzoni. Una tana di coniglio che ha portato Ferrara a un sogno: far parte di una boy band coreana. Il punto è che ce l’ha fatta.
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«Oggi sono un content creator, non faccio più parte della band. Sono stati anni assurdi, lavoravo a ritmi folli senza nemmeno il tempo di mangiare. Ho capito quanto fosse artificiale il mondo dorato che circondava gli idol e sono riuscito a staccarmene». In Corea, Ferrara ci è arrivato già ben consapevole della cultura del posto. Ma ci sono cose per cui nessuno può prepararti, come per esempio la piccantezza che va al di là di ogni immaginazione. «Il kimchi subito non lo guardavo neanche, era troppo strano e infuocato. Ora se non lo mangio per troppi giorni di fila sto male, è come se il mio fisico ne avesse bisogno. Sembra da pazzi ma è parte dell’assuefazione dei coreani per il piccante: alcuni lo mangiano a dismisura proprio per stare bene, il fisico ha uno shock così forte che poi ti senti libero, leggero. Qualcuno fa le gare per vedere chi resiste di più e anche i bambini vengono “svezzati” al piccante sin da piccolissimi».
Qui, però, serve un piccolo a parte. Perché il peperoncino, causa di gioie e sofferenze di coreani e non, in Corea – un Paese di tradizioni agricole e contadine – è stato importato dai portoghesi dopo la scoperta delle Americhe. E il piccante, oggi, è l’equivalente della cucina povera italiana: un segno indelebile nella cultura della nazione, che parla delle radici umili sotto gli sviluppi del secolo scorso. Nello specifico, il peperoncino ha funzione di conservante, e viene applicato alle verdure per poterle mangiare anche dopo molto tempo dalla stagione del raccolto. Prova del suo inserimento graduale nella dieta coreana è, ancora una volta, il kimchi, che in origine era conservato in bianco, senza l’aggiunta di peperoncino (baek-kimchi).
Il kimchi – cavolo Napa fermentato – ha una storia antichissima. Le sue origini affondano nel 37 a.C., periodo in cui i “coreani” erano già conosciuti dai vicini asiatici come maestri della conservazione per fermentazione. Lo racconta Veronica Croce, content creator e divulgatrice culturale specializzata sulla Corea del Sud, nell’episodio del suo podcast, Kimchi Taste, dedicato alla cucina coreana. Croce parla dei coreani come di un popolo per cui la tavola è estremamente importante – ma alle loro regole. Che comprendono, per esempio, l’obbligo morale di continuare a bere finché tutti gli altri, specie se più anziani o colleghi di lavoro più avanti nella carriera, vanno avanti a tracannare.
«La cultura del mangiare in Corea del Sud è molto simile e allo stesso tempo molto diversa dalla nostra. I coreani mangiano un sacco, ma lo fanno con un rigida suddivisione non solo dei ruoli a tavola, ma anche di che cosa mangiare, e dove. Molti ristoranti propongono un solo piatto da consumare al volo, ti siedi e in pochissimo tempo puoi saziarti e andartene. Fa parte della cultura del palli palli, che vuol dire “veloce veloce”: sono fissati con la velocità e l’efficienza, pure quando si nutrono. Quindi è possibile che una serata fuori con gli amici si componga di più tappe. Per dirla con i nostri termini, qui faccio l’antipasto, lì il primo piatto, vado a bere in un terzo luogo. Se invece sei ospite a casa loro, guai. Ti accoglieranno con tutti gli onori per farti gustare i piatti tipici della loro cucina, non c’è scusa che tenga. Allo stesso tempo, però, fino a una decina di anni fa, se al ristorante coreano ordinavi, da occidentale, una cosa che “solo loro” avrebbero dovuto conoscere, per esempio il soju, il distillato alcolico a base di riso o patata dolce tipico della Corea, ti guardavano strano, ti chiedevano se sei proprio sicuro tu, occidentale, di voler provare questa cosa “loro”».
Le due facce del coreano costume del mangiar fuori sono confermate anche da Noemi Pelagalli, content creator che, come @cookingwiththehamster, si occupa delle cucine di Cina, Corea e Giappone. «I coreani si fermano per mangiare con calma e chiacchierare solo il pomeriggio, se vanno a fare merenda. In Corea ci sono queste caffetterie e sale da tè dove si ordinano torte e dolcetti instagrammabili ma che spesso sanno di plastica. Costano anche tantissimo, paghi più l’esperienza che quello che ti metti davvero in pancia».
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Pelagalli organizza viaggi di gruppo per portare follower e appassionati alla scoperta degli angoli d’Asia più autentici, scansando le tagliole gastronomiche per turisti. «Avvicinarsi a una cucina asiatica autentica è sempre difficile per un europeo. La Corea da questo punto di vista ha più legami con l’Italia, banalmente è una penisola e la varietà di carni e prodotti agricoli, non per tipologia ma per estensione, è molto simile. Allo stesso tempo, però, da noi c’è ancora molta confusione sulla Corea. La pensiamo come un Paese super avanzato e per certi aspetti lo è, ma non andiamo a indagare quello che è stato fino a ieri, e cioè uno Stato molto povero, tartassato dalla guerra. Poi c’è confusione geografica, non è comune saper indicare con precisione la posizione della Corea alla cieca. Infine, c’è un tipo di disinformazione che viaggia sul filo dello stereotipo, e che vuole che i coreani siano un popolo “mangiacani”. Nel passato è stato vero, per costumi antichi o per fronte alla carestie, ma oggi la consuetudine è scomparsa».
Una cucina gustosa e di sostanza, forse un po’ troppo piccante per le sensibili papille mediterranee; tenuta indietro dagli scarsi numeri della comunità coreana su suolo italiano, da piatti calibrati per essere consumati in tempi e modi parecchio diversi rispetto ai nostri primi e secondi (e spesso creati per la condivisione) e dalla volontà di rimanere tutto d’un pezzo sulle proprie tradizioni, senza fare sconti al gusto occidentale. Questo il quadro delle relazioni gastronomiche tra Italia e Corea del Sud, che, per il momento, si dimostrano ben più solide sul versante dell’intrattenimento a lunga distanza. Qualche esempio notevole, che sfugge alle maglie del quadro generale, però, c’è. È il caso di chef Minseok Kim, il cui percorso taglia diagonalmente le altre esperienze di ristorazione coreana del milanese.
«Il mio percorso in cucina è iniziato in maniera un po’ inusuale. La mia famiglia non era inserita nella ristorazione, e il desiderio di diventare chef è arrivato guardando i programmi di Jamie Oliver. Lui ha il suo particolare personaggio pubblico, certo, però mi trasmetteva gioia autentica per la cultura del cibo e per l’atto di cucinare. Così mi è rimasto questo pallino e ho provato a iscrivermi ai percorsi di formazione che abbiamo in Corea e che ti permettono di ottenere un certificato di cuoco per svolgere la professione. Sono stato bocciato 4, forse 5 volte. Lì mio padre aveva detto basta. Nel frattempo avevo terminato il servizio di leva obbligatorio, e il desiderio di mettermi in una cucina c’era ancora. Così ho cominciato a lavorare in un ristorante italiano in Corea, imparando sul campo. Dopo qualche anno sono arrivato in Italia, l’idea era di specializzarmi all’Alma e poi tornare indietro. La prima parte l’ho completata come da programma. Poi, però, sono rimasto».
Il percorso di chef Kim in Italia comincia nel 2014 e tocca cucine importanti, come quelle di Joia e Seta, e poi da Daniel Canzian. Da qualche tempo, però, il suo percorso ha presa una piega diversa. Ambiziosa, per portare a compimento un piccolo sogno: aprire un ristorante interamente dedicato al Korean Barbecue, a Milano.
«La parte più difficile è stata trovare il locale adatto. Molti palazzi sono antichi o comunque non modificabili, e il korean barbecue ha bisogno di cappe aspiranti molto forti, in cucina ma anche sui tavoli, per permettere al fumo generato in cottura di uscire dalla sala e non creare fastidio o problemi agli ospiti. Abbiamo cercato il locale adatto per un paio d’anni. A livello di proposta, vorremmo inglobare due formule: una specie di chef’s table, con i commensali seduti attorno alla postazione di cucina, e il servizio al tavolo. Qui, all’inizio, la carne sarà pre-preparata in cucina, così che i clienti debbano solo finalizzare la cottura a proprio piacimento. Stiamo anche ragionando se ampliare il menù e inserire piccole ibridazioni con la cucina occidentale. È tutto una sorpresa, anche per noi».
Il nome della nuova avventura di chef Kim? Soot, che in coreano significa carbone e in inglese fuliggine. Teniamo gli occhi aperti. Magari è la volta buona che la finiamo di spiattellarci davanti a video mukbang e cominciamo a rimpinzarci noi di delizie. Rigorosamente Made in Corea.