Nelle prime immagini che ci sono in giro di Parthenope di Sorrentino, la grande bellezza del titolo sfila su una canoa davanti al lungomare di Napoli, e vede passare scogli, palazzi, moli, barche, giovani, vecchi, e guarda, e viene guardata, e ovviamente, per ragioni di balneabilità, non si spinge fino al porto. Ma io m’immagino invece che c’arrivi, e che dalla terrazza di un albergo di vetro e acciaio si affacci un uomo con i capelli così bianchi che si vedono anche dal mare, e lui la guarda, e lei lo guarda, il roi francese e quella ragazza che è tutta una città, apparentemente inespugnabile.
Alain Ducasse non starebbe affatto male in un film di Sorrentino, ed era a suo modo molto sorrentiniana la serata che ha inaugurato il suo primo ristorante a Napoli, al nono piano del Romeo Hotel, una sala tutta marmi neri e specchi un po’ Grande Gatsby che guarda non le luci verdi laggiù ma i barconi da crociera, il vecchio palazzo fascista del porto, un magazzino tutto imbragato dalle reti che «fa molto Brooklyn», dice un’astante, e poi i camion, e il finto carcere di Mare fuori, e anche il Vesuvio, il Vesuvio per forza.
In realtà la venuta in città del maestro dei piccioni e dei cioccolati fa parte di un multiaccordo, verranno anche il ristorante dell’hotel di Roma e quello di Massa Lubrense. Intanto però la prima ouverture è qui a Napoli, e una cosa così – “lo chef più stellato del mondo”, come ormai da epiteto mitologicamente omerico, che decide di aprire nel posto della pizza, della genovese, eccetera – fino a dieci anni fa non sarebbe forse potuta succedere, e invece poi è successo quel che sapete. È successa Napoli.
Qualcuno si lamenta che ormai è quasi troppo, siamo al limite della gentrificazione turistica, Napoli farà la fine di Lisbona (ne scriveva di recente Alice Rohrwacher su Internazionale, di Lisbona dico), e mentre passeggio verso Moccia e vedo, tra i bandieroni di Maradona e gli altarini con le madonne, un negozietto con l’insegna “L’orto va in città – Agricoltura naturale” per un attimo lo penso anch’io. E alla Sanità, sarà che c’è passato di recente Mister Ripley by Netflix, Poppella adesso sembra Ladurée, e Concettina è un impero ultracool. Però poi c’è Napoli tutt’attorno, e Napoli vince sempre.
Vincerà anche su Ducasse? Non è una gara, in realtà, sembra più uno studio tra due colossi che già si vogliono bene. C’è, com’è naturale, il teatrino di rito, il gioco delle parti, il minuetto per annusarsi a vicenda. «I francesi sono arroganti», e tutti ridono, «i napoletani cucinano meglio», e giù risate ancora, ma è solo un gioco, come è «un gioco», parole di Ducasse, l’unica pasta per ora in carta, un amuse-bouche di spaghetto freddo in acqua di cozze mantecato col caviale (l’ho assaggiato, mica male). Perché non si viene a Napoli per fare la pasta, ed è giusto così.
Haute cuisine anche local, al galà vengono a omaggiare il grande chef pure Esposito, Iaccarino, e si commuovono persino con le lacrime. Nella città che ha vinto tutto ma in cui tutto pare sempre un eterno riscatto, il calcio il cinema il rap, sembra un grande riscatto collettivo anche questo fatto che Sua Stellatissima Maestà sia arrivato col suo ristorante proprio qui. E che abbia scelto Napoli come ritorno in Italia dopo la Toscana di molti anni fa, be’, questa resta una grande ed eccitante notizia.
Avvocati, pizzaioli, editori («avevo un giornale con Piero Sansonetti…», si sente dire in sottofondo mentre in pochi riottosi cerchiamo di farci servire il Dom Pérignon prima del brindisi ufficiale), e anche Vincenzo De Luca in modalità più Crozza di Crozza. Racconta la storiella di Renzi che, quando lo invitò a Palazzo Vecchio, gli diede la ribollita, «ah, ecco perché siete così gracilini, vi magnate questa roba…», e di nuovo viene giù la sala. La storiella serve ovviamente a dire che quella napoletana è una cucina di grandeur, a suo modo, cosa che la accomuna alla francese. Ma venire a Napoli è un atto «non politico», dice Ducasse, e vogliamo credergli, anche se a chiudere il giro di saluti istituzionali è l’ambasciatore francese.
Passano gamberi crudi con lo zafferano, pomodori del Piennolo e stracciatella, deliziose ricciole in tutte le salse, letteralmente, e alici arrotolate, un favoloso cubetto di melanzana un po’ contemporary art come quella appesa alle pareti di questo Romeo, il cui patron è un grande collezionista. Alla reception, per dire, c’è il Vesuvio sputafuoco di Andy Warhol.
Già sull’aereo, mentre venivamo qui, c’era stato un momento di panico, quando certe invitate milanesi hanno scoperto che, a dispetto dello cheffone, non saremmo stati placé, «ma come è una cena in piedi!». E infatti a qualcuno, ormai trasferitosi con le ultime bollicine sulla terrazza in cui fra non molto ci sarà una infinity pool vista mar for, resta un po’ di fame. Anche a un gruppetto di noi, che ci facciamo portare da una milanese ormai napoletanizzata da uno dei soliti pizzaioli in rampa di lancio per una margherita della staffa.
Cerchiamo di passare da Piazza del Plebiscito ma è chiusa causa concertone di Radio Italia, e in quel momento c’è Angelina Mango che canta, e penso che se fossi Ducasse, e avessi già sessanta e più ristoranti ovunque nel mondo, e la fama tuttora inscalfita di cuoco máximo, ecco forse me ne starei a mangiare il mio cioccolato e a godermela, ma probabilmente a stare fermo a lui gli viene la noia, e allora Napoli, altro giro, altro gioco, e per ora sembra già divertirsi assai.