MasterChef si vince tre volte: la prima non te l’aspetti, la seconda non te la godi, la terza comincia a diventare un gran casino, perché, quando lo sanno anche gli altri dopo la messa in onda della puntata, non puoi più sottrarti a chi sei diventato, giunge la fatidica domanda: «Oddio, che cazzo ho fatto».
“Come stai” dopo la vittoria, dunque, non è domanda lecita; come sei stato, come sarai, cominciano ad aprire un orizzonte di senso. Anche perché «riassumere l’esperienza della Masterclass non si può. Bellissima, difficile, tosta sono aggettivi che calzano, ma che non chiudono il discorso. È un’esperienza che amplia la gamma delle emozioni, ti fa provare qualsiasi cosa». Detto da chi in fondo al programma di Sky Original (prodotto da Endemol Shine Italy) c’è arrivata, vincendolo e diventando la tredicesima MasterChef italiana, be’, spazio per contradditori non ce n’è.
Chi è lei crediamo di saperlo ormai tutti a menadito: Eleonora Riso, toscana, 27 anni, cameriera fino a prima del talent, l’aria di una che sulla Terra c’è finita per accidente. Una gran testa per la cucina, pareggiata solamente dall’ansia, e uno stuolo di versetti e prodezze di prossemica mica da ridere. Chiaro, no? Per nulla. Perché Eleonora è qui, come ha sempre fatto nello show, per sconfessarci, e farci ripartire, insieme a lei, dal via. Anche perché come si può ingabbiare l’identità di qualcuno che si “resetta” ogni sei mesi (i calcoli, lo giuriamo, sono tutti suoi), ed evolve come Pokémon (anzi, si corregge subito, «come un Digimon»: il riferimento generazionale giunge particolarmente apprezzato)? «Diversa mi sento sempre, son capace di esserlo anche tra un’ora. Di sicuro MasterChef mi ha cambiato dandomi il tempo di lasciar sedimentare tutto quello che succedeva e che provavo, e tutto ciò che incontriamo, anche le cose più piccole e banali, ci cambiano. Anche per questo cerco sempre di farle appena le sento, appena me ne viene voglia, altrimenti il momento mi passa. Al programma mi ci sono iscritta così, solo considerando l’ipotesi».
In questo flow state si vive «come le bestie. Mi sento un po’ una bestia io, prima ero una bestia e adesso sono un’altra bestia, non lo so». Affilando le armi dell’esegesi, Eleonora ci sta di fatto riproponendo l’ideale popolarizzato dal suo fu conterraneo Lorenzo De’ Medici: chi vuol essere lieto sia… Il che vale non solo come traslitterazione del famoso carpe diem oraziano, ma anche al contrario, ovvero dell’abilità di riconoscere quando sarebbe meglio non afferrarlo, quell’attimo fuggente, lasciare che arrivino tempi migliori (“ogni cosa a suo tempo”, per tornare agli amati Pokémon) e, nel suo preciso esempio, lavorare sì nella hospitality, ma dalla parte del contatto con il pubblico. «Iniziare l’ho fatto per necessità, poi è arrivata anche la passione. Un lavoro per me bellissimo, che mi ha dato tante soddisfazioni. Certo, è stancante, ma divertente. In cucina forse non c’ero mai voluta andare, prima, proprio per questa affezione verso la sala, che è davvero uno dei cardini della ristorazione».
Sotto il velo del tempo e del passato rimane, però, un ricordo-stipite. «A cucinare ho cominciato con il mio babbo, a lui piaceva molto e lo aiutavo la domenica, quando aveva tempo di mettersi a fare qualcosa. Comunque ero sempre incuriosita, il lavoro manuale mi affascina e mi fa stare bene duplicemente, se possiamo dire così. Forse una scintilla più precisa ci fu con un fagiano in umido che mi fece. La prima volta che piansi per un piatto. Fu un’emozione ancestrale, la nostalgia di qualcosa che si fa fatica a ricordare o che, in fondo, sappiamo di non aver mai vissuto, o non ancora. Ti astrae dal momento, ti riconnette con il corpo, il tuo e quello della natura. I piatti fatti bene e con amore sono impulso, e istinto».
Chissà che cosa ne avrebbe pensato chef Alex Atala di questa chiosa. Il corpo del cibo e della terra, a ogni modo, è qualcosa che a noi torna, così come che Eleonora parli della cucina come, in primis, esercizio fisico. La sua connessione con gli ingredienti, la visione che come pochi nelle ultime edizioni di MasterChef ha saputo portare nel piatto; dietro a tutto questo c’è il rispetto di un artigiano, e lo stupore di chi sa che, in fondo, la materia che maneggia sarà sempre più forte di lei.
Anche per questo si sviluppa un occhio analitico sulla propria opera, e si diventa fin troppo bravi a darsi addosso. «Sono critica sempre e comunque, sul mio lavoro e su quello degli altri. È una parte di me che ho in comune con il suddetto babbo, critico irreducibile e della cucina in primis». Per questo un piccolo nervosismo durante la finale, con la famiglia convenuta ad assistere a quello che, ancora non sanno, sarà un trionfo indiscusso. «Oh, negli anni si è impigrito, andava a finire che cucinavo sempre più spesso io».
E meno male, perché alla fine il cibo (e la sua preparazione) è conoscenza, di sé e degli altri, ed è il mezzo attraverso cui comunichiamo lati e armonie di noi altrimenti intraducibili a parole – che non siano naturalmente quelle a indicare gli ingredienti coinvolti. Non a caso, l’esperienza che Eleonora si porta sempre dietro è quella dell’ultima prova in esterna con chef Mauro Uliassi (dove, ricordiamo, dovette servire ai giudici un dessert comprensivo di olive). Per l’emozione di una cucina stellata, certo, ma anche, crediamo, per lezione di Uliassi: avere il coraggio di mettersi nel piatto in prima persona, sempre, e osare aprire un canale comunicativo inedito con l’avventore.
Quindi Eleonora l’aveva capito, che aveva qualcosa di prezioso da condividere, che sarebbe potuta essere lei la nuova MasterChef italiana? «La sfida da Uliassi è stata come una sveglia, poi ancora la vittoria nella prima prova con Andreas Caminada. Pur rimanendo con i piedi per terra, ho cominciato a dirmi che avrei davvero potuto decidere qualcosa io, in un certo senso. Cercare di far andare le cose come avrei voluto andassero». L’intenzione del menu portato alla finale, Ichi-go ichi-e, è evidentemente un passo in questa direzione. «Ci ho messo dentro tutto quello che mi foga [sic.] di più. Oddio, tutta la cucina mi foga, ma qui volevo spingere su stupore, divertimento, su quel non so che di inconsueto. Ma poi anche il legame con la tradizione inserendo alcuni elementi più vicini a me», e dunque il vin santo nell’antipasto “Nonno Umami”, i due pesci “sacri” anguilla e trota, il caffè insieme al tè matcha nel dessert “Mochi = Grande Fortuna”. «Mettimola così: in cucina, il mio rapporto con la tradizione è come quello che ho con le canzoni di Battisti. Stupende, ma poi torno dai Daft Punk».
Show stopper, e potremmo chiuderla qui. Le formule di rito impongono, però, di aprire il tempo al futuro. «C’è il mio libro di ricette, in uscita in questi giorni [l’8 marzo, ndr]. Mi sono messa sotto, ho provato di tutto, ho rivisto i singoli piatti più volte. Piccolo spoiler: ci sarà tanto grasso, tanto burro, tanta sostanza. Poi in generale voglio star bene, prendere il buono che arriva, e spaccare i culi. Si può dire, no? Spaccare i culi. Che significa solo, in sostanza, che voglio stare bene. Te la faccio per passaggi: io voglio stare bene, per stare bene voglio stare nella natura, per stare nella natura poi arriva un progetto di accoglienza e ospitalità, e da lì la mia esperienza in sala si unisce alla cucina. E vorrei ospitare spettacoli, eventi, musica, così». Ok, ma ci stiamo perdendo: il piatto che deve ancora cucinare, però vorrebbe? «Un po’ di capriolo, così, leggero». E buono, e gustevole. E il preferito? Anche qui, la risposta cade dalle nubi: le ballotte. Che? «Ah, le castagne lessate. Lo abbiamo capito andando per esclusione con una mia amica». Lunga vita a questa regina.