Se dovessero chiedervi di nominare i cibi più inquinanti, la carne sarebbe certamente al primo posto; forse citereste il pesce, se avete visto Seaspiracy su Netflix. Potreste azzardare i prodotti derivanti dall’agricoltura e, in particolare, quelli che si trasformano in mangime per produrre carne.
Le avreste indovinate tutte o quasi. Avreste probabilmente dimenticato il cacao e il suo derivato più amato, il cioccolato. Infatti, secondo Trase, iniziativa che documenta l’impatto delle filiere sulla deforestazione, l’industria del cacao sarebbe responsabile del 45% della deforestazione in Costa d’Avorio e Ghana, che producono insieme due terzi del cacao mondiale, oltre a richiedere 24.000 litri d’acqua per ogni chilogrammo prodotto, dato che lo mette al numero uno nella poco onorevole classifica dell’impronta idrica, come indica il Water Footprint Network. Senza considerare l’impatto in termini di CO2 dovuto alla logistica della filiera, che vede le fave di cacao viaggiare in tutto il pianeta per essere trasformate in cioccolato e poi posizionate sugli scaffali. E tutto questo se guardiamo solo l’aspetto ambientale: come riportato da Slave Free Chocolate, sarebbero 1,6 milioni i bambini sfruttati per la raccolta delle fave di cacao. Tutti dati che potrebbero farci andare indigesta la prossima tavoletta.
È questa scoperta amara (proprio il caso di dirlo) ad aver spinto nel 2022 i pugliesi Giuseppe D’Alessandro e Massimo Sabatini, che si erano conosciuti nell’ambito del mondo legato alle startup, a lanciarsi in una nuova sfida imprenditoriale: creare un cioccolato di qualità, senza usare il cacao. Così nel 2022 è nata Foreverland, l’azienda foodtech che oggi produce Freecao, un cioccolato privo di cacao, realizzato con un mix di polvere di carruba e grassi naturali.
«A ottobre 2022, Massimo mi condivise un articolo che parlava dei problemi del cacao. Il pezzo concludeva dicendo che nessuno stava lavorando su un’alternativa al cacao, come sta succedendo su carne e formaggio, e che non ci sarebbe mai stata, escluse le certificazioni fair trade [equo e solidale, ndr]», racconta D’Alessandro, che dell’azienda è responsabile marketing. «La cosa ci incuriosì: scoprimmo che in realtà qualcuno ci stava già lavorando in Regno Unito e in Germania, e capimmo subito di aver bisogno di persone esperte per farlo anche noi. Scrivemmo un post su LinkedIn e fummo contattati dal nostro attuale Chief Technology Officer e socio Riccardo Bottiroli, ricercatore all’università di Wageningen in Olanda, che aveva pubblicato un articolo su questo tema. Due giorni dopo ci incontrammo a Milano e da quell’appuntamento tirammo fuori la startup, alla quale si aggiunse il quarto socio, un altro ricercatore e amico d’infanzia di Bottiroli, Massimo Brochetta. Mettemmo subito alla prova l’idea insieme a un pasticcere locale, conducendo dei test molto promettenti con della carruba trattata a Wageningen».
L’intuizione di usare la carruba in ambito dolciario non è innovativa, ma quello che fa la differenza qui è il processo di trasformazione. La utilizzano diversi chef, come il pastry chef Fabrizio Fiorani del ristorante Al Duomo di Ciccio Sultano, ma fa parte anche della tradizione popolare: D’Alessandro ricorda la carruba come «alimento prediletto da cavalli e asini, e da piccolo i miei nonni la definivano il “cioccolato dei poveri”, anche se l’odore e il sapore non hanno molto a che vedere col cioccolato». Ironicamente, la carruba è lo stesso frutto dalla quale deriva il “carato” (dall’arabo “qirat”, che vuol dire carrubo), l’unità di misura del diamante (da non confondere con quella dell’oro), perché in passato si credeva impropriamente che i suoi semi fossero tutti uguali.
Diamo qualche cenno in più sulla carruba che, in effetti, non è molto conosciuta. Eppure, la sua farina è spesso presente come addensante in molti prodotti di largo consumo, come il gelato artigianale. Partiamo da un primo elemento: la carruba non è un frutto, ma un legume, con un baccello lungo circa 15 cm che contiene, appunto, i carati. Non si tratta di un legume molto proteico, ma la presenza di molte fibre lo rende comunque un alimento estremamente saziante e sano, grazie anche ai polifenoli dal potere antiossidante e ai tannini che migliorano la flora intestinale. Insomma, sembra proprio di trovarsi di fronte a un cibo un po’ sottovalutato.
Ma torniamo ai giorni nostri: come si fa quindi a creare un prodotto che, a un palato non esperto, risulti molto simile se non uguale al cioccolato?
«Con la ricerca e utilizzando processi naturali, leggeri e già utilizzati in qualsiasi azienda alimentare. Oggi al progetto lavorano tre ricercatori presso l’università di Wageningen, sono attivi due progetti di tesi, mentre a Milano ci sono quattro persone che sviluppano costantemente ricette e formulazioni», spiega D’Alessandro. «La carruba», continua, «dà il colore e l’aroma, ma non basta: per ricreare la scioglievolezza tipica del cioccolato è necessario trovare un sostituto per il burro di cacao, che abbiamo individuato in un mix di grassi naturali, come il karitè, una pianta coltivata in Africa, nelle olive e nel riso».
Scelta che si porta dietro una serie di benefici ambientali. «La carruba è una pianta che ha bisogno di pochissima acqua per sopravvivere, è secolare e non ha bisogno, a differenza del cacao, di essere ripiantata ogni 25 anni. Abbiamo stimato un risparmio dell’80% di emissioni di CO2 e del 90% nell’utilizzo dell’acqua. Inoltre, essendo vicina agli impianti di produzione in Italia, ridurrebbe la necessità di essere trasportata in giro per il mondo, come avviene per il cacao che viene coltivato solo in Africa, ma poi trasformato in Nord Europa o America, e poi trasportato fino alla sua destinazione finale». Inoltre, per creare Freecao l’azienda utilizza la polpa della carruba, che viene abitualmente scartata, tostandola e trasformandola in una farina.
La carruba di Freecao arriva prevalentemente dalla Sicilia, la regione che ne produce di più in Italia (secondo produttore al mondo), ma l’obiettivo dell’azienda è sviluppare una vera e propria filiera di prossimità che oggi manca, partendo dalla “madrepatria” Puglia.
A parole sembra tutto bellissimo, ma alla fine Freecao può essere davvero un sostituto valido del cioccolato? Lo abbiamo assaggiato e la risposta è “sì, potrebbe”, ma mettiamo le mani avanti e ricordiamo che siamo persone non esperte che consumano abitualmente il cioccolato, non maître chocolatier usciti da uno spot televisivo. Durante il nostro test, abbiamo provato il cioccolato al latte, l’unico al momento disponibile: il sapore, dolce, è molto simile a quello tradizionale, così come il colore e la lucentezza. I test alla cieca svolti da Freecao con altre persone non esperte confermerebbero la nostra impressione: «Il 95% non ha notato alcuna differenza, mentre il 5% ha notato qualcosa di diverso, ma non è stato in grado di spiegare cosa», racconta D’Alessandro. Non stiamo parlando di cioccolato “sintetico”, un prodotto di laboratorio chimicamente uguale al cioccolato, ma di una sua riproduzione. Proprio il tema del gusto è argomento di riflessione internamente all’azienda: «A livello di sapore ci stiamo avvicinando molto all’originale, ma dobbiamo capire se crearne uno differenziante o provare ad avvicinarci ancora al cioccolato tradizionale. In questi mesi siamo al lavoro sul Freecao fondente, ma raggiungere il suo tipico gusto amaro non è facile. Speriamo di arrivarci nel primo trimestre del 2024».
Foreverland vuole quindi arrivare sugli scaffali con un proprio prodotto? Nonostante da San Valentino sarà possibile acquistare una box di bonbon sul sito dell’azienda, non sembra essere questa la direzione intravista dai quattro soci. «Vogliamo sviluppare un brand d’ingredienti, non essere gli unici a trasformarlo. Freecao non nasce come “brand consumer”, ma inizialmente come strumento per far conoscere la nostra startup. A Natale abbiamo sperimentato con il primo panettone, e continueremo a sperimentare in tutti gli ambiti dove viene impiegato oggi il cioccolato. Puntiamo a diventare quello che è stato Intel per i chip o Goretex per i tessuti tecnici e immaginiamo, un giorno, di vedere sugli scaffali dei supermercati biscotti e prodotti di altri brand fatti col Freecao». Per facilitare questo processo, l’azienda si è anche assicurata che per trasformare il Freecao i produttori possano continuare a utilizzare i macchinari e le lavorazioni che usano per il cioccolato tradizionale, incontrando già il favore delle prime aziende, come quella di Novi Ligure che realizza i primi prodotti a marchio Foreverland.
L’obiettivo, spiega d’Alessandro, è «creare è una community di persone che scelgono Freecao al posto del cioccolato tradizionale, così da spingere i produttori a sceglierci come ingrediente». E disegna un identikit delle persone a cui si rivolge. «Il nostro prodotto è vegano, con il 50% in meno di zuccheri, privo di nichel e caffeina. Naturalmente ci rivolgiamo a persone intolleranti al cacao o al nichel o che cercano un prodotto privo di caffeina o, semplicemente, più sano. Questa sarebbe già una fetta importante di mercato, ma il target principale rimane quello potenzialmente più grande delle persone attente alla sostenibilità, ambientale ed etica». Il pericolo, in questi casi, è che vada a finire come molti prodotti simili: buoni e sostenibili, ma abbordabili solo per chi ha una maggiore disponibilità economica. L’ennesimo prodotto di lusso, in sostanza. D’Alessandro rassicura su questo punto: «Sullo scaffale Freecao costa esattamente quanto il cioccolato, a differenza di quanto avviene nel mondo della carne, dove il burger vegano costa molto di più di quello in carne».
In ogni caso, Freecao non nasce per sostituire totalmente il cioccolato derivato dal cacao, anche perché l’azienda incontrerebbe probabilmente le resistenze di un’industria forte in mano a pochi attori, ma per offrire un’alternativa più sostenibile e che contribuisca a innalzare gli standard qualitativi ed etici dell’attuale filiera del cioccolato. Con un prodotto che non faccia sentire troppo la differenza.
Ci stanno riuscendo? Provatelo a occhi chiusi e chiedetelo alle vostre papille gustative.