Che nel petto di Antonino Cannavacciuolo batta un cuore di panna non è una novità. Lo abbiamo visto nelle passate edizioni di MasterChef e ancor più in quelle di Cucine da Incubo, lo show Sky Original, prodotto da Endemol Shine Italy, che riparte su Sky Uno e in streaming su Now. Non si spiegherebbe, altrimenti, come faccia a non andare ai pazzi quando, dall’alto di tre stelle Michelin, si trova catapultato in certi locali mesti, tra locandieri raffazzonati e personale smarrito. Lui si accomoda e, senza fare un plissé, legge menu astrusi e riceve piatti improbabili in sale inospitali. Imperturbabile anche quando entra in cucine non esattamente immacolate, né efficienti.
Se, nonostante tutto, resta il sospetto che questa affabilità sia frutto della scrittura di bravi autori, tutto vorresti nella vita tranne che ospitarlo alla tua tavola: i suoi amici non sono terrorizzati a invitarlo? «Ma no! In casa d’altri non ci si arrabbia per niente. Ci si va proprio con lo spirito del rilassamento. Che poi, fra noi amici-amici-amici (sic) bastano cibo buono e vino buono per stare bene». Certo, immaginiamo che nessuno dei suoi intimi si azzardi a scartargli vaschette di spalla cotta o buste di quattro salti in padella. Ma ci sarà comunque qualche dettaglio che lo disturba. «In effetti una cosa che mi dà fastidio c’è: quando mi versano il vino in un bicchiere da acqua. Lì mi si gela il sangue».
Il tema non è lo snobismo di esigere a tutti i costi un calice in cristallo purissimo, quanto «la mancanza di rispetto per il lavoro dei produttori. Ci dimentichiamo i passaggi che ci sono stati per permettere a me e a te di mangiare e bere, le giornate interminabili nei campi e in vigna, sotto al sole e con la pioggia, i mancati raccolti, le domeniche che non esistono, la stalla che deve mangiare anche nei giorni di festa». Ecco che onorare un buon ingrediente o, appunto, un buon vino passa anche dal modo di presentarlo.
Questa cosa del rispetto torna spesso nei suoi discorsi. Non un atteggiamento a senso unico, ma esteso al rapporto con i clienti: la controparte di chi il cibo, a vari livelli, lo produce, lo vende, lo serve. Così scopriamo che in effetti c’è qualcosa che non tollera, nelle cucine professionali da incubo e non: «risparmiare sulla spesa. Io per primo guardo al risparmio – confessa – ma concentro gli sforzi sull’oggettistica per il ristorante e l’accoglienza. Lì sì che si può tirare sul prezzo, fa parte del commercio, e se uno mi presenta un preventivo di diecimila euro per delle attrezzature cerco di trattare e scendere. Però sul cibo non ho mai chiesto sconti a nessuno». L’esempio che porta è illuminante e, per certi versi, stupefacente: «a Villa Crespi ho aperto nel 1998 e fino al 2004 (con la prima stella nel 2003, Nda), non ho inserito in carta scampi e gamberi perché costavano troppo e uscivo fuori budget».
Scorciatoie -– tipo abbassare la qualità per contenere la spesa – non contemplate: «tanti pensano che basti il congelato per cavarsela. La realtà è che dovremmo essere capaci di dare il meglio guardando alle nostre possibilità. Anche con le alici e i calamari puoi fare un bel lavoro, non hai bisogno di dare uno scampo estero che non sa di niente solo perché vuoi tenere in carta un piatto di scampi. Chi lo ordina, aspettandosi una certa qualità, resta deluso: tu hai risparmiato, ma hai perso un cliente».
Che poi, è il bello della nostra cucina: «mica ce lo ha ordinato il medico di avere l’astice in menu», osserva ragionando su quanto sono varie e vaste le possibilità offerte dalla cucina italiana. Di recente “attaccata” a vario titolo, accusata ora di poca autenticità, ora persino di scarsa salubrità. «Provocazioni», taglia corto Cannavacciuolo. «Chi ci parla contro lo fa per invidia. Ma la cucina italiana è lì, e nessuno ce la può toccare. I più grandi cuochi del mondo, i Paul Bocuse e i Joël Robuchon, hanno sempre avuto nelle dispense i nostri prodotti italiani. E oggi, gli alberghi di lusso in giro per il mondo hanno molto spesso all’interno un buon ristorante italiano con materie prime importate da qui».
Tornando ai nostri, più modesti, ristoranti televisivi, la stagione promette di emozionare: «Tra le tante, mi torna in mente una ragazza giovanissima che ha affrontato per la prima volta il padre e la madre in modo diretto. Mi ha molto colpito e mi ha fatto riflettere: ho due figli (di 10 e 15 anni, Nda) e ho visto qualcosa che domani può capitare a me. Perché lavori, vai spedito avanti, pensi che tutto vada bene, ma poi all’improvviso la vita ti presenta il conto». Il conto, di questi tempi, ha molto a che fare con la pandemia che ci siamo appena lasciati alle spalle: «ho percepito tanta voglia di riscatto. Molte cucine si sono trovate in una situazione difficile, il Covid ha fatto male a chi non era preparato economicamente e non aveva basi solide. Poteva succedere a chiunque. Ma in più di un caso ho sentito il desiderio di fare bene. E qualche lucina accesa».
La lucina di cui parla è quella dei “suoi” ragazzi di Villa Crespi «la mia brigata di leoni», li definisce. «Nella mia cucina non cerco necessariamente qualcuno preparato a priori. Da me ti devi presentare con la luce negli occhi: se non ce l’hai è difficile che possiamo andare d’accordo. È la fame di arrivare che ti fa diventare numero uno: e quello cerco». Certo, la voglia di farcela non basta e gli errori sono in agguato. Il peggiore? «Non fare briefing tra sala e cucina. Chi prende le comande deve sapere cosa c’è in frigo, cosa spingere e cosa no. Si deve fare gioco di squadra. Invece spesso c’è un muro tra una e l’altra. Si rimpallano le colpe. Ma l’errore non sta mai da una parte sola. Il ristorante è sala E cucina».
Il momento più divertente? «Quando mi guardano fare il servizio in mezz’ora, buttare fuori da solo piatti per trenta commensali e pensano: questo non è umano». Il preferito? «La rivelazione (del locale rinnovato e del menu, Nda) quando fanno “wow!” con gli occhi».
Nei ristoranti sull’orlo di una crisi di nervi assistiamo allo svolgimento di favole moderne dove lo spaventevole orco si rivela gentile e, invece di papparsi bambini e ristoratori, alla fine sistema le cose per l’immancabile lieto fine, preludio di un futuro che – per i locali in gioco – ci si augura roseo. Il futuro di Cannavacciuolo, invece? «Ora c’ho fame, France’, vado a mangiare». Buon appetito, Antonino!