Ricordo ancora lo stupore di scoprire, durante la mia prima vacanza studio in Inghilterra, che nelle famiglie britanniche la cena era alle sei del pomeriggio. Pur trovando quell’abitudine bizzarra, fu la svolta della mia prima vacanza “da sola”: con il coprifuoco alle nove, significava comunque avere a disposizione due abbondanti ore serali per andare a ciondolare al Pier, il molo allungato sulla Manica dove avrei avuto persino il tempo di dare il mio primo bacio a un delizioso olandesino. Lo shock fu qualche settimana dopo, rientrata in Italia, al mare con i miei e un gruppo di romani e napoletani, una ventina fra adulti e marmocchi che non si riusciva a mettere intorno a un tavolo prima delle dieci di sera: da cadere addormentati con la testa sul piatto.
Del resto, chi può dire quale sia esattamente l’ora giusta per cenare? Prendi i turisti nel centro di Roma, Milano, Napoli o Bologna. Siedono ai tavolini dei ristoranti davanti a carbonara e risotto, pizza e tagliatelle al ragù. Nel bel mezzo del pomeriggio, a un’ora che non è più pranzo e non è ancora cena. “Stranieri”, li apostrofiamo con lo snobismo che noi italiani abbiamo di fronte al modo di mangiare di tutto il resto del mondo. Aggiungendo, in sovrappiù, che in quei locali – quelli con il menu fotografico e i finti piatti in esposizione – non ci metteremmo mai piede.
Poi capita, però, che un po’ li invidiamo. Finito di cenare (sì, quella è evidentemente la loro cena) avranno ancora il tempo per un giro di shopping, una passeggiata all’imbrunire e, perché no, un drink prima di rientrare in hotel per la notte. Invece noi – milanesi e romani, napoletani e bolognesi – ci ostiniamo a prenotare il ristorante per le nove. Quarto d’ora accademico di ritardo, il tempo che ordiniamo e iniziamo a mangiare sono quasi le dieci. Praticamente impossibile alzarsi da tavola prima delle undici e mezza, la serata è finita e si torna a casa precisi precisi sulla digestione. Bruciandoci la possibilità di godere del dopocena, di una bevuta con gli amici o di sesso fatto bene, ché la panza piena indispone e ormai si è fatto tardi e domattina la sveglia suona presto. Le serate così concepite sono drammaticamente corte. Non c’è tempo per fare altro che stare seduti a tavola. Che può essere piacevole, per carità. Ma anche frustrante se, per dire, ti eri messa in tiro, con il tuo intappo migliore e i tuoi tacchi alti, e finisce che li sfoggi solo dall’ingresso del locale fino al tavolo, e ritorno.
Noi europei del Sud (italiani, francesi, greci, spagnoli, portoghesi) – al contrario dei nordici – abbiamo un’abitudine radicata di late dinner. Chi ne sa di antropologia direbbe che è usanza legata al clima, alle temperature, alle ore di luce che dilatano le giornate. E poi, diciamolo: cenare presto è da provinciali, da paesani che vanno a letto con le galline. Farlo tardi è ritenuto molto più cool ed è pratica comune in tutte le grandi città occidentali (ché in quelle asiatiche, invece, si mangia senza soluzione di continuità dall’alba a notte fonda).
La tendenza inversa arriva, però, proprio dalla Grande Mela. Lo riporta il New York Times, che, di recente, ha titolato: For New Yorkers, 6 p.m. is the new 8 p.m.: why are restaurants in the city filling up at hours that were once unfashionably early? Racconta di camerieri che, in caffetterie e brasserie, sollecitano ad alzarsi chi si è fermato per uno spuntino pomeridiano, perché hanno il tavolo prenotato per le cinque, ora in cui inizia il servizio della cena. Per capire la rivoluzione in atto, nelle Mille luci di New York, Jay McInerney (era il 1984) scriveva che le undici e quaranta (di notte) erano «un po’ troppo presto per l’Odeon», noto ristorante su West Broadway.
Sebbene la città che non dorme mai non sia l’America (a Los Angeles, e sulla costa occidentale in genere, si cena volentieri al calar del sole, spettacolari tramonti a far da quinta), il cambiamento è significativo e risulta automatico collegarlo a quanto accaduto durante e dopo la pandemia. Nel 2020 i locali di tutto il mondo hanno dovuto sottostare a regole e chiusure che hanno condizionato i clienti, costretti a fare slalom fra restrizioni e divieti. Soprattutto, i ristoratori hanno dovuto affrontare, e ancora stanno affrontando, carenza di personale e problemi economici che li hanno spinti, tra l’altro, a ridurre gli orari del servizio, oltre ad abbassare la saracinesca tra un turno e l’altro e comunque a spegnere i fuochi prima che sia notte fonda.
Non è detto che sia un male. Io stessa confesso di avere un pizzico di nostalgia (chi l’avrebbe mai detto) per quel momento del lockdown in cui, per sfruttare gli slot di aperture serali, si andava a bere l’aperitivo alle quattro e al ristorante alle sette. Certo, non è che in quel frangente si potesse approfittare più di tanto del ritrovato tempo libero postprandiale. Ma abbiamo avuto tutti ore e ore in più per guardare Netflix e Prime, sprofondati sul solito divano.
Vero è che siamo ancora agli albori di un trend che, come tutte le novità, convive con la tendenza opposta. Eater propone un parallelo proprio fra New York e Los Angeles e constata che sì, molti locali a Manhattan aprono i battenti nel tardo pomeriggio e chiudono prima di mezzanotte, ma resistono tanti altri che, alle quattro del mattino, servono insalate greche e bistecche, hot dog e New Jersey rippers, che dell’hot hot dog sono la versione con il würstel fritto. Mentre a Chinatown i ristoranti di dim sum sono aperti fino all’alba, ma frequentati quasi esclusivamente da avventori del quartiere, che con tutta probabilità vanno a mangiare al termine del turno in altre tavole calde o prima di iniziare il lavoro nei mercati.
Sia come sia, l’orario di cena sembra si stia anticipando anche dalle nostre parti. Invoglia a nuove abitudini l’evoluzione dell’offerta ristorativa, come conferma Alfredo Zini, presidente del Club delle imprese storiche milanesi, emanazione della Confcommercio cittadina, e lui stesso ristoratore: «È il mercato che lo domanda. Oggi chi investe fa una ristorazione diversa (le nuove aperture si discostano dai locali classici due-turni-e-stop, nda), operativa dalla mattina al dopocena». La richiesta coincide con il ritorno in città dei turisti. Ma, secondo Zini, piace anche ai milanesi. Quelli che, una volta, facevano l’happy hour, poi diventato apericena (blasfemia), oggi – se vogliono – possono scegliere soluzioni più dignitose dei sudaticci buffet serviti nei bar di ogni ordine e grado. Senza passare dal via, ovvero da casa. Si stacca dal lavoro e, dopo aver sciolto la cravatta, dato una ravviata ai capelli o un rapido ritocco al make up nel bagno dell’ufficio, si va per locali. L’intenzione primaria resta quella di bere e socializzare, ma sono sempre più numerosi i cocktail bar, i bistrot e le enoteche che, furbescamente, hanno sviluppato una carta di tutto rispetto: già che ti sei seduto, ti faccio venir voglia di ordinare anche da mangiare.
Succede da Dabass e dal fratello minore Il Nemico, lì di fronte. Ti fermi per un drink e finisce che ordini: da una parte, l’uovo poché con crema di risotto allo zafferano e guanciale (signature dish di chef Andrea Marrone), i tortellini in brodo di gallina o un lombatello alla brace; di là, una pizza alla pala con salsiccia e friarielli, una passatina di ceci o un baccalà mantecato. Stessa dinamica all’Osteria alla Concorrenza, che nasce come mescita di vini scelti e un po’ bottega, non ha cucina ma è capace di trattenerti al tavolo con salumi, formaggi, giardiniere, ortaggi freschi e conserve artigianali, “pane con cose buone sopra” e altre leccornie. Che sì, alla fine hai fatto cena, ma nella bella stagione hai finito che il cielo è ancora chiaro.
Del resto, che sia fuori o fra le pareti domestiche, la cena rappresenta lo stop quotidiano alla giornata lavorativa. Come osserva sempre sul New York Times Margot Finn, docente di Studi alimentari all’Università del Michigan, le sei del pomeriggio non coincidono necessariamente con il momento in cui hai fame, ma con quello in cui vuoi «essere da qualche altra parte», che non sia l’ufficio o la scrivania di casa. È così che l’offerta prolifera in zone frequentatissime dagli impiegati in libera uscita.
Restando a Milano, non si possono non citare i locali nei dintorni di cinema e teatri. Zini ricorda (e la sottoscritta pure) il Charleston e il Santa Lucia, dirimpetto a corso Vittorio Emanuele, un tempo la Broadway meneghina, ancora oggi frequentati fin dal tardo pomeriggio nella pausa-struscio dal Duomo a piazza San Babila. Si mangia presto all’Isola, per poi andare a vedere un concerto al Blue Note evitando la (dimenticabile) cena davanti al palco. Miro, l’osteria all’interno del cinema Anteo, accoglie i clienti dalle sei e mezza, il nuovo Dal Milanese al Teatro Arcimboldi dalle sette e, come racconta il patron Luca Guelfi, il turno pre-spettacolo è più affollato rispetto al post, in genere appannaggio delle compagnie come un dopolavoro. Se in questi contesti l’orario anticipato risponde a una precisa esigenza del pubblico, è anche vero che ai tavoli siedono molti avventori che non hanno in tasca alcun biglietto ma approfittano del piacere di varcare fra i primi la soglia del ristorante.
Indubbio vantaggio dell’early dinner può essere, tra l’altro, proprio la tranquillità: pochi i tavoli già occupati (a volte ancora nessuno), zero vociare, sbattere di bicchieri, spostare di sedie. Dettaglio da non sottovalutare: il bagno è pulitissimo, la carta igienica abbonda, gli asciugamani sono ordinatamente impilati accanto al lavandino, il portasapone ricolmo. In sala, i camerieri a inizio turno sono freschi, bendisposti e sorridenti. Dalla cucina i piatti arrivano uno dopo l’altro, senza tempi di attesa, velocizzando ulteriormente l’esperienza. Finalmente sì che ci si può godere il cibo, il vino, la compagnia.
Tutto considerato, questa idea di mangiare presto ci piace. Poi, sorge un dubbio: forse, il motivo è perché stiamo invecchiando? Il sospetto viene osservando gli universitari che frequentano molti dei locali citati: mentre la clientela cenante ordina spaghettino e filettino, loro sono al primo spritz. Al caffè di quelli, questi hanno scolato il terzo o il quarto drink, lo stomaco ancora orgogliosamente vuoto che riempiranno (forse) sul tardi, al baracchino dei panini. Ci sarebbe da riflettere su questo ennesimo aspetto del gap generazionale. Ma adesso non ho più tempo per dilungarmi in ragionamenti. Sono già le sei e mezza. E alle sette ho un tavolo prenotato per cena.