Li vedi in fila sui marciapiedi grigi, grigi pure loro, gli impiegati in libera (mica tanto) uscita per la pausa pranzo, dall’una alle due, non si può sgarrare, c’è il cartellino, l’agenda, la call. Li vedi in fila, quegli uomini incappottati o scravattati (d’estate, negli uffici sempre grigi, pare sia concesso), e quelle donne messimpiegate e impiuminate (d’inverno, rigorosamente in lungo). Mentre scrivo queste incrudelite righe, è l’una e diciassette, ed è dicembre, e giù per strada li vedo per davvero, e sono precisamente così, quegli uomini e quelle donne, come in quella serie di Ben Stiller – Scissione – solo che loro la scissione non la fanno mai, la pausa pranzo è un’estensione del grigiore impiegatizio. E li immagino parlare, farsi l’eterna domanda: “Dove andiamo oggi?”. È, quella, la domanda che, alle tredici in punto, nessuno (io) vorrebbe mai ricevere, e io principalmente per questo ho fatto di tutto per non diventarlo mai, l’impiegato della pausa pranzo coatta e contratta, e quando m’è disgraziatamente capitato mi son sempre disperato moltissimo, perché non ci si può abbrutire così.
Ecco, l’uscita dall’ufficio per la pausa pranzo è il rito più abbrutente nella storia dell’umanità attuale e generale; è la perdita della dignità personale e pubblica, la cosa che ci rende peggio dei polli (non allevati a terra ma al pc: c’è differenza?). Quando cominciai, nella lontana primissima redazione, provai l’una e l’altra cosa: o non mangiare mai, o uscire tutti i giorni. Con la seconda, presi tipo sette chili in sette giorni, a furia di panini, panozzi, panini, piadizze (giuro che esistono, o almeno esistevano). E allora ho smesso. Da quel momento: non mangiare mai; fingersi morti quando gli altri ti pongono la più crudele delle domande. Ne acquisti in dieta e dignità. (Poi, di fatto, ho sempre e solo lavorato da casa, e manco a casa mangio: sarà imprinting, sarà che sono rimasto troppo scottato dalle piadizze passate.)
La vera pausa pranzo esiste solo dove non esiste la pausa pranzo com’è ufficiosamente (nel senso di ufficio) intesa: esiste il pranzo, punto. E allora, se vivessi in quei luoghi forse reali forse mitologici, mangerei pure io. Sogno la provincia in cui gli uffici, i negozi, tutto resta chiuso per ore, e allora si va in trattoria, si mangia con calma e con gusto, le fettuccine o la ribollita?, la pancia di maiale o la trippa? So che questi posti esistono, forse sono pure la maggior parte, ma a vincere è sempre il modello metropolitano, le pause pranzo in batteria, le peregrinazioni buñueliane per trovare, in otto, il bar che ti accoglie, “però ho solo due tavolini un po’ lontani, vi va bene lo stesso?”; bar in cui ti rifilano meste cotolette di pollo (allevato nella terra dei fuochi), e sbiaditi salmoni (allevati in vasche di antrace), e molli cavolfiori beige (a Milano greige Armani) che hanno visto vapori migliori. Tutto sotto le microonde che afflosciano ancor di più.
Milano è la metropoli (seh, vabbè) con la pausa pranzo forse peggiore al mondo. Con il peggiore rapporto tra qualità (del cibo, della vita, degli uffici, di tutto) e prezzo, toast a dieci euro, bowl (qua le ciotole dell’insalata ora si chiamano così) a quindici e cinquanta, l’hamburger equivale il costo di un pasto completo in una trattoria di Reggio Emilia, se vuoi anche il bacon son dolori. Epperò tutti son disposti a tutto, “perché bisogna mangiare, tu scusa come fai?”. “Io preferisco vivere”, rispondo sempre, anzi ormai non rispondo manco più, le poche volte che non sono dentro casa a digiunare beatamente. Quei calcoli del tipo “o andiamo alle 12:40 così non becchiamo l’ondata dell’una (nota del boicottatore: gli impiegati che affollano i bar della pausa pranzo sono sempre gli altri), oppure rimandiamo alle 14:10 quando tutti sono al caffè”; ecco, quei calcoli lì mi fanno male al cervello e al cuore.
A Roma, parlando di (non) metropoli, è diverso. A Roma la pausa pranzo s’allunga e s’allarga a piacimento, ci si prende il tempo che serve per carbonara cicoria ripassata tiramisù quartino di vino caffè e ammazzacaffè (anche le ragazze: da milanese, ogni volta resto sconvolto). Però la mia è una Roma che non fa troppo testo, una Roma sempre un po’ turistica, un po’ Rai, quella dei ristoranti di Prati dove da Viale Mazzini trasmigrano tutti i televisivi, che notoriamente hanno un sacco di tempo, e anche stomaci forti. (L’ultima volta a Roma, dopo giorni di gricie e frittini, avevo urgente bisogno di un’insalata; il solito amico Rai mi ha portato in un posto di “cucina dal mondo”. Giuro.)
Fine delle mie (non) esperienze cittadine. E non ne ho mai avute, per fortuna, in mensa (solo qualcuna in Mondadori: e avrei sempre voluto chiedere la certificazione HACCP). No, c’è ancora il Grande Tema che manca, in fatto di pause pranzo e abbrutimento da cemento. La schiscetta. “Portati la schiscetta”, direte voi. Così, direte sempre voi, ti eviti i pellegrinaggi per l’isolato nella vana speranza di trovare un posto non affollato, o le telefonate imploranti alle undici di mattina per prenotare un tavolo nel nuovo bistrot (sempre gergo milanese) – per guadagnarci, due ore dopo e a carissimo prezzo, un piatto di mezze penne scotte. La schiscetta, dicevo, è l’altra cosa che ha ucciso la dignità dell’essere umano.
Le file di impiegati (più impiegate, diciamo impiegat*) con la schiscetta le vedi non alle tredici ma la mattina, il tupperware dentro le borsine di cerata marchiate Harrods, oppure quelle con stampati i gattini di schiena. Nei tupperware, solitamente, gli avanzi di cose immangiabili anche da appena cucinate (la sera prima, o anche due-tre sere prima), orribili pastocchi di farro e verdure, legnosissimi wannabe gulasch, broccoletti da riscaldare sempre al microonde (stavolta però dell’ufficio), e a impuzzare tutto il piano. Poi tutti insieme a commentare le rispettive schiscette, a spiegare l’organizzazione settimanale delle schiscette medesime, a parlare di cibo, ma sempre triste come quello che si vede ingollare in quel momento. Pensi che non vorresti mai cenare da quelle persone – anche perché le razioni sarebbero modestissime: bisogna lasciare gli avanzi per la schiscetta del giorno dopo, di tre giorni dopo.
Nell’epoca dei cuochi fighissimi, del food da tutte le parti (adesso pure qua, sui giornali di musica!), della venerazione delle stelle (le tre dei ristoranti, non più le cinque dei parlamentari: almeno questo abbrutimento l’abbiamo, forse, superato), la cosa che mi stupisce e mi distrugge è che la gente, a pranzo (no: nella pausa pranzo), sia disposta a mangiare malissimo. Perché la fame, perché il poco tempo, perché si fa così da sempre, e allora va tutto bene. L’indiscreto disgusto per gli impiegati in pausa pranzo è il capolavoro (parafrasato) che andrebbe aggiornato. Se no mi candido direttamente a scrivere un pitch (scusate) sull’argomento. Un anti-talent di cucina in cui vince chi riesce a non mangiare, in pausa pranzo, mettendosi nelle grigie file, coi grigi impiegati.