Rolling Stone Italia
007

Federico Umberto D’Amato – La spia che mangiava

È stato la spia che ha tessuto le trame delle stragi di Stato del secondo Dopoguerra ma anche un finissimo gastronomo, nonché primo critico culinario de 'L'Espresso’: ritratto dell’agente segreto che rimane il più grande mistero della politica e della cucina italiane

Il 23 luglio 1981 il prefetto di Polizia Federico Umberto D’Amato, ex capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale (cioè di quelli che furono di fatto i servizi segreti politici italiani, prima che fossero sciolti e riformati), rispondeva così al ministro dell’Interno Rognoni, che gli aveva contestato il fatto di essere comparso nell’elenco, appena scoperto, degli iscritti alla loggia massonica sovversiva denominata P2: «operando in modo autonomo e personale, ho preso contatto e ho sviluppato rapporti in tutti i settori e con ogni persona che ritenevo utile […]. Se le mie frequentazioni dovessero essere interpretate come una scelta […] potrei essere considerato, caso per caso, fiancheggiatore di Autonomia Operaia o del terrorismo palestinese, agente del servizio americano o sovietico, emissario di questo o di quel partito politico».

Tre anni prima Federico Godio, fondatore, con Carlo Caracciolo, Lio Rubini e Giorgio Lindo della Guida d’Italia. 1500 ristoranti e trattorie, 500 alberghi e pensioni, noti e meno noti, iniziava così la sua prefazione alla prima edizione della stessa: «vogliamo batterci contro le salse pesanti e indigeste, le presentazioni ingannatrici, i cibi precotti e stracotti, le preparazioni alambiccate, i trucchi del cattivo mestiere, la routine livellante, la mancanza di fantasia. Con questo non rinneghiamo nulla del buon passato, della “cucina della nonna”, delle cucine regionali, scrigni che contengono autentici tesori. […] Ci siamo imbattuti in qualche ristorantino di provincia […] ove abbiamo trovato sapori sconosciuti e dimenticati che il genio popolare […] ha saputo inventare con i più umili ingredienti».

Il primo estratto – elogio dell’inganno per ragion di Stato – è un’autoapologia della più potente spia della storia della nostra Repubblica; il secondo – accorata difesa della genuinità, per motivi di gusto – è il manifesto poetico del primo critico culinario de L’Espresso.

L’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura dopo l’attentato del 12 dicembre 1969; Foto: Wikimedia Commons/Pubblico dominio

Perché accostiamo qui questi due testi, che sembrano presentare visioni del mondo opposte – infiltrarsi e origliare, per poi eventualmente depistare; contro esplorare e mangiare, per poi appassionatamente raccontare – e non paiono avere granché in comune, a parte il nome di battesimo dei rispettivi autori e l’evidente alta considerazione che essi avevano della propria capacità di discernimento, che fosse tra gruppi sovversivi e uffici pubblici o tra cibo pretenzioso e cibo sostanzioso?

Il fatto è che D’Amato e Godio sono la stessa persona; della quale D’Amato era il cognome del padre, napoletano e poliziotto e Godio quello della madre, piemontese e operaia. Federico Umberto – capace, al contempo, di ispirare a Giancarlo De Cataldo il personaggio del Vecchio in Romanzo Criminale e a Gianfranco Vissani la definizione di suo mentore – adoperava il primo nella sua vita quotidiana da servitore di Stato e Doppio Stato, il secondo per firmare le sue scorribande editoriali gastronomiche.

A 27 anni dalla morte FUDA resta ancora, perfino al netto della crescita del consenso elettorale dei Cinque Stelle all’indomani della loro prima legislatura e all’affermazione delle basi per pinsa surgelate (o della pinsa in sé), il più grande mistero della politica e della cucina italiane, sapientemente amalgamate tra loro. Quel che è certo è che in entrambi i ruoli più importanti delle sue molteplici vite FUDA (o Umbertone, come lo chiamavano gli amici per via della sua complessione: aveva infatti il fisico che avrebbe avuto James Bond se fosse stato attratto dalla buona tavola almeno quanto dalle belle donne; o Zaff, come lo chiamavano in codice, secondo le ricostruzioni dei giudizi, gli organizzatori della strage di Bologna, a causa del suo debole per lo zafferano), è stato un discreto innovatore.

Come spia concepì e realizzò l’idea di una polizia parallela moderna (moderna in senso almeno post-fascista), capace di pesare notevolmente sullo scenario politico italiano e internazionale, entro e ben oltre i confini cronologici dell’epoca della guerra fredda e di quella del suo pensionamento (che avvenne, solo ufficialmente, nel 1984). Negli anni d’oro dell’Uar FUDA architettò la più machiavellica e capillare opera di raccolta e filtraggio di informazioni del nostro Dopoguerra, di cui gran parte delle finalità restano e resteranno per sempre oscure. Su temi che vanno dalla strage di piazza della Loggia al golpe Borghese, dall’omicidio Calvi ai fascicoli Sifar, la rete fudiana non influenzò solo la percezione delle notizie da parte dei media e, di conseguenza, dell’opinione pubblica. Questo sarebbe stato, tutto sommato, poca cosa per uno che a venticinque anni, nel ’44, era stato reclutato dagli Alleati per entrare in possesso dell’archivio segreto dell’Ovra, vale a dire l’antenata fascistissima dell’Uar, nel territorio della Repubblica di Salò; e che di lì a poco avrebbe aiutato i servizi americani a smembrare il controspionaggio nazista a Roma.

Un momento dell’attentato a piazza della Loggia il 28 maggio 1974; foto: Wikimedia Commons/Pubblico dominio

La concezione dell’intelligence di FUDA confuse le idee, in quei casi e molti altri, anche e soprattutto l’operato della magistratura; e, a volte, come abbiamo visto per la P2, anche quello delle stesse strutture istituzionali e politiche da cui dipendeva. I bene informati, ma mai quanto lui, ne hanno detto: «Sapeva quasi tutto di tutti; e, quello che non sapeva, tutti pensavano che lo sapesse». Nulla sfuggiva al Grande Fascicolatore, tra una vodka (di cui era un consumatore fin dalle prime ore del mattino) e una Philip Morris (di cui era fumatore seriale): partiti e sindacati, redazioni e logge, neo-fascisti come Stefano Delle Chiaje e neo-ministri dell’Interno come il cinquantunenne Giorgio Napolitano («Anche lui ebbe diritto alla sua brava scheda», come dichiarò in una storica intervista. E riuscì a fare tutto questo mantenendosi su un tale livello di prestigio, sul piano internazionale, da vedersi intitolare la sala più prestigiosa del quartier generale della Nato a Bruxelles; e di potere, sul fronte interno, da non suscitare mai particolare interesse da parte di stampa e tribunali, almeno fino alla postuma inclusione, da parte della procura felsinea, tra i quattro mandanti, organizzatori o finanziatori della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, insieme a Licio Gelli, Umberto Ortolani e Mario Tedeschi.

La stazione di Bologna dopo l’attentato del 2 agosto 1980; foto: Wikimedia Commons/Pubblico dominio​

Come foodie ante litteram Umbertone portò sulla scena gastronomica nostrana quella che oggi si direbbe la dimensione dello storytelling. Prima dell’avvento della sua Guida d’Italia, frutto del lavoro di una fitta organizzazione di gourmet erranti che si dividevano il territorio nazionale (vi ricorda qualcosa?), le guide culinarie in lingua italiana erano limitate ai pur illustrissimi monologhi della cantina di Luigi Veronelli e all’edizione locale della Michelin, fatta perlopiù di simboli e punteggi. Quella di FUDA era dunque, oltre che la proposta di un tipo di narrazione della cucina italiana che andasse a discapito dello schematismo più freddo e distaccato delle pubblicazioni analoghe a vocazione internazionale, una forma primordiale di resistenza della cucina popolare davanti al tribunale, che presto sarebbe stato istituito, della ristorazione di moda. FUDA aveva compreso che la sua expertise in fatto di ricerche e dissimulazioni sarebbe stata adattissima anche a formare degli uomini (inizialmente anonimi; poi sempre più noti, come Edoardo Raspelli) in grado di infiltrarsi nelle cucine venete o pugliesi, allo scopo di raccogliere e, in questo caso, divulgare al grande pubblico informazioni sui luoghi, i costumi, i piccoli e grandi personaggi del cibo: elementi per lui importanti almeno quanto (se non di più) dei segreti che i suoi informatori potevano carpire di ricette e sapori.

È proprio in questo che consiste il vero, grande enigma FUDA, più sconcertante di quello, questione ancora aperta, del perché potrebbe aver partecipato attivamente al più grave atto terroristico della storia repubblicana (spoiler: gli indizi, in quel caso, sembrano dirci: per 850.000 dollari). Era come se gli sforzi che, per tutta una carriera da superpoliziotto, aveva profuso nel nascondere la verità, da gourmet li utilizzasse, invece, per mostrarla. Perché lo fa? Perché, dopo essere entrato e uscito con estrema facilità da ambienti come il partito comunista e la massoneria deviata, a sessant’anni suonati, quest’uomo decide di restare nella gastronomia per il resto dei suoi anni, un po’ come quando gli agenti sovietici nella serie The Americans non vogliono – o non riescono – più ad abbandonare la loro copertura?

In altre parole: siamo ancora una volta davanti a un diabolico Grande Fascicolatore, che mente sapendo di mentuccia; o un ultimo, rassicurante Umbertone, ha voluto in qualche modo riscattarsi da una vita di mistificazioni, seppure con la coscienza grottescamente sporca tanto di sangue quanto di sugo? Non lo sapremo mai. Del resto chiedersi se possano esistere critici oggettivi o perlomeno sinceri è vano almeno porsi il problema dell’esistenza di spie intellettualmente oneste.

Un biografo di FUDA, Giacomo Pacini, nel volume La spia intoccabile, spiega come anche l’interesse per la ristorazione del nostro fosse stato, almeno in parte, funzionale alla sua professione primaria, citando il caso dei numerosi incontri che il direttore dell’Uar intrattenne con funzionari d’ambasciata sovietica (ritenuti agenti del Kgb dai suoi acerrimi nemici dei servizi militari del Sid) nell’ottima trattoria Papà Giovanni di via dei Sediari a Roma, che non a caso nella Guida d’Italia ha il massimo dei voti.

Gli scontri armati a Milano nel 1977; Foto: Wikimedia Commons/Pubblico dominio​

Il Mozart del dossieraggio, del resto, aveva già avuto occasione di argomentare sul suo specifico – e, per una volta, poco ambiguo – punto di vista a riguardo: «Ogni buon agente segreto, insieme al cifrario o al mini-registratore, ha sempre un taccuino con i buoni indirizzi di forchette nel suo Paese e all’estero. Questi ristoranti sono convenzionalmente una specie di campo neutro, dove si parla liberamente, senza timore di registrazioni clandestine o di altri trucchi e dove i camerieri hanno una sorta di nulla osta di sicurezza».

Il libro da cui è tratto questo brano è un evento del tutto speciale nella produzione letteraria di FUDA. Infatti, a partire dal titolo e in maniera relativamente pacifica, sembrano coesistervi i due mondi di cui fu, per così dire, l’eroe. Menu e dossier. Ricordi e divagazioni di un poliziotto gastronomo fu pubblicato nel 1984 da Rizzoli in almeno quattromila copie base, ma oggi è rarissimo, di fatto rastrellato e parrebbe disponibile, nel Servizio bibliotecario nazionale, solo nella Biblioteca centrale di Firenze.

Qui il FUDA spia fresca di pensione e il FUDA gastronomo ormai avviato restituiscono un bestiario dei nomi noti del panorama italiano visti dalla prospettiva di un commensale. È il corrispettivo antropologico-alimentare della fatica di Gianni De Michelis intitolata Dove andiamo a ballare questa sera? Guida a 250 discoteche italiane (1988, altra rarità). Con una differenza sostanziale: mentre De Michelis è serissimo, minuzioso e il più tecnico possibile nel descrivere le balere e le discoteche che seleziona per i suoi lettori; FUDA è sagace e lapidario. Dove De Michelis somiglia a un viveur prestato alla politica, Umbertone, nel narrare colazioni con Giulio Andreotti e birre con Adriano Sofri, sembra una Lina Sotis rubata alla strategia della tensione.

L’autore di queste singolari memorie dedica tre parole a Carmelo Bene (p. 115): «Ama i soufflé». Roberto Benigni ne merita il doppio: «Ma a che servono le posate?». Tra le righe si alternano spesso il ragazzo nato a Marsiglia e cresciuto a Parigi e il napoletano a Roma. La «gentilhommerie partenopea» è, in effetti, il migliore complimento che FUDA riesca a produrre: l’attribuisce al giornalista palermitano e direttore editoriale delle Grandi Opere della Rizzoli Roberto Ciuni, anch’egli membro della P2 (p. 120).

Forse FUDA è un personaggio così complesso che è più facile avvicinarsi alla sua comprensione non cogliendolo nel momento della possibile sintesi tra identità multiple, ma isolando e mettendo a confronto proprio i suoi contrasti. Cosa che possiamo fare grazie a due straordinari contributi video che, per fortuna, sono disponibili, rispettivamente, su YouTube e RaiPlay.

Si tratta di due clip opposte in tutto e per tutto. La prima è tratta da un documentario dedicato dalla BBC all’Operazione Gladio, trasmesso per la prima volta nel 1992. Grazie a FUDA la produzione britannica si conclude con una delle interviste televisive più inquietanti di sempre. Dovete sapere che il nostro ebbe una terza passione ancora più sinistra di quella per le piste anarchiche o per l’acquavite di prima mattina: gli automi umanoidi meccanici d’epoca sette-ottocentesca, che collezionava in quantità, soprattutto se di origine francese, perché evidentemente gli ricordavano l’infanzia.

Qui FUDA è più raffinato e funesto che mai. Appare con accanto uno degli esemplari più significativi della sua raccolta: il giocoliere, «Le jongleur», pronuncia compiaciuto. Nelle piccole mani di latta la creatura malefica tiene due cappelli a punta e li muove facendo apparire, una volta nel cappello a destra e una volta in quello a sinistra, un piccolo oggetto non meglio identificato. FUDA spiega come per lui questo automa rappresenti perfettamente la politica. Mentre ci comunica questo c’è un momento in cui l’automa, come soddisfatto per la prestazione, si volta verso il suo padrone, cercandone l’approvazione; e a noi viene – automaticamente – la pelle d’oca.

Se il FUDA della BBC è artefattissimo e si esibisce in metafore concentriche e analogie carpiate, nella puntata del 1987 che la rubrica La poltrona scomoda di Mixer Cultura gli dedicò su Rai 2, Umbertone sembra invero un’altra persona.

Il tema del dibattito, annunciato dal conduttore Arnaldo Bagnasco, è nientemeno che: «La pastasciutta va abolita?». Come da tradizione, il punto di vista dell’ospite d’onore – il cui sottopancia recita soltanto “Giornalista gastronomico” e che è chiaramente in favore della pastasciutta – viene bersagliato da quelli degli altri convenuti, un vero plotone di esecuzione, tra cui: Edoardo Raspelli (già fuggito dalla Guida d’Italia di FUDA in polemica con i suoi favoritismi nei confronti di un ristoratore membro della P2); lo scrittore Folco Portinari, che cerca di psicanalizzare i critici culinari, criticandone a sua volta la smania di valutare gli altri, dopo essere stati valutati a scuola; il produttore cinematografico Leo Pescarolo, che sostiene che gli estensori delle guide abbiano l’aria di «un giovanotto alle prime esperienze con le donne»; l’insigne filologo, critico letterario, storico, antropologo e gastronomo Piero Camporesi, fresco dell’introduzione all’edizione einaudiana dell’Artusi, che afferma che gli italiani, per stare meglio, sembrino aver bisogno di essere sovraesposti a delle meraviglie d’Italia spesso inesistenti; Gualtiero Marchesi in persona, reduce dalle prime tre stelle Michelin italiane, che aggredisce la cucina casalinga e regionale (quanto FUDA, come sappiamo, ha di più caro) e annuncia l’apocalisse: la cucina come arte è morta ed è iniziata la stagione della cucina come scienza.

Eppure FUDA non batte ciglio. Sta interpretando la sua versione più signorile e napoletana di sempre. Questo deve sembrargli il processo che non avrà mai in vita, solo che lo accusano di aver controllato male le bozze di recensioni che descrivono un’osteria che si trova su una superstrada come se fosse immersa nel verde; non di aver ostacolato indagini cruciali o co-organizzato stragi epocali. La cosa gli va più che bene. La strategia della tensione sembra ormai messa da parte, in favore di una tattica del relax. Li lascia argomentare, arrovellarsi, inveire, quasi sempre in silenzio. Tutt’al più si inserisce con pezzi di bravura del tipo: «Mi sono sempre servito dell’arte del bel mangiare soprattutto per gratificare me stesso. Una delle cose più piacevoli che possa offrire la vita, insieme a qualche altra. Poi perché la tavola, non soltanto in materia di spionaggio, ma anche in materia di diplomazia, di politica, di pubbliche relazioni, rappresenta uno degli elementi essenziali del rapporto umano».

La sua vita precedente ormai è presentata quale un mestiere come un altro, che questo nonno pacioso è stato costretto a fare per sbarcare il lunario, non essendo ancora stato inventato, nei suoi anni verdi, lo sbocco lavorativo del food blogger.

Alla fine, un attimo prima dei titoli di coda, Bagnasco gli domanda se si è mai pentito di qualcosa. L’attesa è quanto mai trepidante. Potrebbe un essere finalmente giunto un momento-verità. FUDA apre la bocca in stato di grazia, forte di un magistero recitativo degno di Pierfrancesco Favino che non riesce a uscire dal personaggio di Che Guevara nella versione italiana di Call My Agent. La sua risposta è: «[Mi sono pentito] di aver scelto questa carriera, che è una delle strade più piacevoli che si possano percorrere, in una fase tanto avanzata della mia vita».

Ma noi sappiamo che in cuor suo stava ripentendo una delle sue massime più citate, senza bisogno di citarla: «un vero spione deve sempre tenere un piede dentro la legalità e tre fuori, ma non si fa mai beccare».

Iscriviti