Ho mangiato un formaggio e ci ho trovato il gelato alla fragola. Non è il titolo di un pezzo “strano ma vero”, né il delirio di un assaggiatore Onaf partito per la tangente. È quello che è successo a chi scrive alle porte di Roma, nel laboratorio di Alchimista Lactis aka Andrea Cillo. Il quale, vedendomi ruminare per minuti buoni su un singolo morso di semi-stagionato, avrà pensato mi stesse venendo una sincope. Impressione che gli è stata poi confermata quando, spalancando gli occhi, lo informai delle scintille che stavano avvenendo sulle mie papille. Persa tra sensazioni antiche, avevo attivato un “palato del ricordo”, applicando al gusto quella che è, a tutti gli effetti, una figura retorica (metafora o similitudine, fate voi, non giudico).
Attorno a questi salti di spazio e tempo, nella gastronomia vige tutta una mitologia. Siamo tutti della scuola di Anton Ego, per cui celebriamo un piatto presi dal vortice del sentimento, o dai fantasmi della nonna che si assembrano addosso e ci riportano alla memoria quel momento dell’infanzia in cui assaggiammo quellacombinazione di pasta e magia. Eccetera, eccetera. Non può essere altrimenti: la cucina è, soprattutto, un atto ripetitivo, conscio, schematico, e che tende dunque a riproporsi nel tempo, facendoci essere nel giro di un morso quelli che non siamo più.
Lo sapeva Gualtiero Marchesi, primo tristellato Michelin italiano (correva il 1986), che quelle stesse stelle restituì nel 2008 e che, a partire dal 1977, (ri)fondò la ristorazione italiana. Lo sapeva, e per questo non si è mai associato alle schiere di “quelli che ricordano”, concependo invece la composizione del piatto – anzi no, attenzione, dei suoi piatti – come un’opera d’arte, da presentarsi senza modifiche né sbavature a ogni servizio. Ed è per questo che oggi, a sette anni dalla morte dello chef e a novantaquattresimo della nascita, in Terrazza Marchesi al Grand Hotel Tremezzo sul lago di Como (con brigata capitanata da Osvaldo Presazzi) i classici di Marchesi sono ancora proposti come se il tempo di Bonvesin de la Riva non si fosse mai esaurito.
«Si potrebbe chiamare il “palato assoluto” di Marchesi, riprendendo il concetto dell’orecchio assoluto in musica. Non è nient’altro che, alla fine, come Marchesi voleva che i suoi piatti fossero eseguiti, ed era naturalmente calibrato sul suo palato. Infatti gli spiaceva che nei suoi stessi ristoranti in giro per il mondo il sapore dei piatti fosse diverso da quelli che si portavano in tavola all’Albereta, per esempio. Diceva che erano diversamente buoni. Io ho lavorato al suo fianco per tanti, tanti anni. E mi sono trovato a sviluppare il suo palato, il che mi ha messo nella posizione di indirizzare la brigata del Tremezzo per restituire il gusto quello vero, quello corretto, che avrebbe voluto lui».
A parlare è Enrico Dandolo, CEO del Gruppo Gualtiero Marchesi nato informatico, diventato musicista e poi in un certo senso ironico, cuoco. «Eppure Terrazza Marchesi non è un museo, o meglio, non lo è ancora. È uno scrigno, certo. Vogliamo preservare un tesoro, perché le ricette di Marchesi lo sono, che fa parte della Storia italiana, gastronomica e non solo. Un giorno sarà ristorazione da museo, certo, come lo sarebbe andare a provare la cucina medievale oggi. Per ora, la cucina di Gualtiero Marchesi è ancora sinonimo di contemporaneità».
I vecchi amici sono sempre gli stessi, convenuti attorno a un tavolo per tornare a raccontarsi le storie di un tempo: Uovo all’uovo al caviale (guscio d’uovo svuotato e riempito della sua stessa materia dopo una cottura al vapore), Astice alla crema di peperoni, Achrome di branzino, Filetto alla Rossini; e poi Dripping di pesce, Riso oro e zafferano, Insalata di spaghetti al caviale (ma la carta di Terrazza Gualtieri continua). Siamo lontani dall’assoluto gualtieriano par excellence, mozzarella fresca bianca su un piatto bianco, da mangiare con le mani; come anche dalle “Quattro paste”, quattro formati diversi serviti senza sugo per lasciare spazio all’esperienza in purezza, obbligare il mangiante a concentrarsi una buona volta e a non trangugiare (curiosità: in fatto di pasta, Marchesi era del partito “liscio”, che lascia più separati i sapori della base e del condimento). Non è velleità né snobberia, bensì il distillato del pensiero culinario di Marchesi. Perché questo fece alla cucina italiana: adattando la lezione di Paul Bocuse e dei fratelli Troisgrois (presso cui lavorò brevemente), sottrasse, e sottraendo aprì spazio all’eleganza, che nella sua lezione si concretizzò in un misto di piacere estetico e provocazione. Fosse nato in Francia, l’avrebbero chiamata Nouvelle Cuisine.
«Marchesi diceva: non devono venire da me per abbuffarsi, ma per passare un momento senza pari. E infatti anche io, devo ammettere, mi son fatto più di una pizza dopo una cena da lui», continua Dandolo. Come a significare che, per accorgerci di ciò che abbiamo e diamo per scontato, lo si debba togliere dall’equazione. Un altro adagio marchesiano, d’altronde, recita: “la cucina francese tramonterà quando gli italiani si renderanno conto dell’abbondanza di risorse naturali nel paese”. Concetti quasi messianici, e che come tali sono stati e ancora sono interpretati dai professionisti dei fornelli. «Ma Marchesi non ha mai detto: copiatemi, fate come me. Anzi: a partire dal concetto che la cucina era arte, sottolineava sempre che era la sua cucina a essere arte. Un cuoco può essere un artista, ma non è detto che lo sia, anzi. C’era volontà di nobilitazione, certo, ma degli intenti alla base, non della professione a priori. Amava molto conversare e ricevere altri chef, che fossero suoi allievi o no. E, quando vedeva che cercavano di scimmiottarlo, o di trovare una direzione comoda nel solco che stava tracciando lui, diceva sempre che non era quello che voleva comunicare. Ho già tolto io tutto dal piatto, spiegava guardando gli impiattamenti da fame del fine dining, e io ricordo la copertina di un vecchio magazine, L’europeo, in cui Marchesi era stato scattato con in mano un piatto enorme e un singolo pisello al centro, con il titolo: “Ecco la mia cucina”. Ma continuando, diceva: io l’ho fatto per un motivo, perché prima era il contrario. Io ho uno scopo, loro invece?».
A volerle trovare un aggettivo ozioso, la cucina di Gualtiero Marchesi si potrebbe definire “filosofica”, operazione di maieutica per rendere l’uomo più tondo e obbligarlo a meravigliarsi, e dalla meraviglia far fiorire il pensiero. «È lo stesso con la musica. La musica ha tantissime regole così come la cucina, potremmo anche dire che gli strumenti di un’orchestra sono gli ingredienti di un piatto. Agiscono sulla stessa parte del cervello. Sono entrambe scienza e tecnica, e la scienza e la tecnica possono diventare arte ma, prima di tutto, formano l’individuo, lo rendono completo, più attento al mondo. È una questione di ritmo, di passo e composizione del menu, di armonizzazione. La cucina e la musica sono esperienza sinestetiche, e papà lo sapeva bene. Sono convinta che tutti dovrebbero ricevere un’istruzione musicale di alta categoria. Dovrebbe essere un diritto fondamentale».
Lei è Simona Marchesi, figlia di Gualtiero Marchesi, arpista e professoressa di musica. È sposata con Enrico Dandolo e insieme hanno tre figli, Guglielmo, Bartolomeo e Lucrezia Dandolo Marchesi. Non sono cuochi ma musicisti, al violino, violoncello e pianoforte rispettivamente. Guglielmo e Bartolomeo, insieme alla moglie del primo, Eugenia Ottaviano (violino) e Gregor Hrabar (viola) sono l’Alinde Quartett, che il 19 marzo ha accompagnato una cena in onore del compleanno del Maestro Marchesi (e dei dieci anni della Fondazione che porta il suo nome) alla Terrazza del Tremezzo. In scaletta, Spaghetti freddi al caviale, Dripping di pesce, Riso oro e zafferano, Achrome di branzino e Fondente al cioccolato con salsa di ribes rossi, inframmezzati da una selezione di brani eseguiti dal Quartetto. Mai, però, durante il servizio, perché «per papà era inconcepibile mangiare e ascoltare musica allo stesso tempo. Diceva che i sensi si otturano, e invece devono rimanere liberi di percepire tutto interamente. Stessa cosa valeva per il vino, che in più bisognava bere da solo, religiosamente».
Famosamente, i legami tra la cucina di Marchesi e l’arte non si esauriscono nell’ideale, ma danno forma alla sostanza stessa dei piatti (e degli impiattamenti). L’Achrome di branzino fu ispirata all’opera omonima di Piero Manzoni (e al salmone all’acetosella dei Troisgros), privazione di colore e creste eseguite in caolino su tela. Il Dripping di pesce, nelle sue quattro salse e molti colori («l’unica volta in cui Marchesi contravvenne alla sua regola di non usare più di una salsa per piatto», sottolinea Dandolo), omaggio alla tecnica di ugual nome di Jackson Pollock. Il Filetto alla Rossini, per quanto non di marchesiana paternità, reinterpretato in onore del Gioachino compositore. Ma anche l’Atto unico di pesce, concepito nella forma di un’opera divisa, appunto, in atti come quella lirica o teatrale.
«C’era una cosa che diceva Johann Sebastian Bach e che Marchesi condivideva. Va più o meno così, “non importa chi suonerà la mia partitura, perché l’ho scritta per essere perfetta”. Lo stesso valeva per i piatti di Marchesi, che si vedeva come compositore, di sicuro non come un cuoco. Da qui ci ricolleghiamo a quanto dicevamo prima, ovvero che tutti, dopo che “c’era stato” Gualtiero Marchesi, pensavano di dover cucinare come lui, nello spirito ma anche nella sostanza. Riso e oro e il Raviolo aperto sono i suoi piatti più copiati. Pensare che anche Riso e oro era nato dalla logica dello straniamento e della sottrazione: avevano proposto a Marchesi di usare la foglia d’oro e lui, per sottrarle il valore, la preziosità, la mise su un risotto, effimero per definizione». Oggi, precisa Dandolo, «se mi accorgo che un ristorante propone un piatto assimilabile in omaggio a Marchesi, mi trovo costretto a chiedere gentilmente, ma per vie ufficiali, di toglierlo. Pensa che abbiamo svolto più prove di processo con vari avvocati, nel caso si dovesse andare per vie legali su questioni di copyright se qualcuno copiasse un piatto di Marchesi. La legislazione è meno precisa per la cucina che per altre arti, ma in tutte le simulazioni avrebbe vinto Marchesi».
Un piglio intransigente, che riflette però, e ancora una volta, il pensiero del Maestro, campione della ristrettezza ragionata non solo nel piatto ma anche sul menu. «Avrebbe voluto che ogni carta avesse tre, quattro proposte, non di più. Così si sarebbe stati certi che ogni piatto sarebbe stato eccezionale. Invece troppi ristoranti vogliono fare tutto. Lui credeva che, se si sapeva fare bene una cosa, tanto valeva fare solo quella. Ed era conseguente a questo pensiero: il suo piatto preferito erano i ravioli alla zucca, ma non in generale, quelli di una specifica trattoria di Parma. Ne ordinava tre piatti e non si sognava mai di chiedere la ricetta, perché lui non avrebbe saputo replicarli. L’incontro doveva avvenire in quel luogo, in quel momento».
Non per nulla era altresì convinto che “ognuno è quello che ha visto e che ha potuto fare”, riconoscendo dunque all’esperienza un ruolo di preminenza nell’eterna dialettica tra vita attiva e contemplativa. «Aveva appetito, Marchesi, appetito del fare. Stargli dietro intellettualmente era davvero difficile. Gli sarebbe servita una stanza dei giochi, anzi no, tutto un parco». Un esempio? Visto che partiva sempre dal piatto, a livello visivo, e mai dall’impiattamento, be’, il Maestro avrebbe potuto comprare 160, 200 piatti nuovi con nonchalance, usarli per una singola creazione, e metterli in cantina una volta che questa fosse decaduta dal menu. Da questa proattività derivò anche quello che Dandolo definisce «forse l’unico passo falso della sua carriera», ovvero la firma con McDonald’s per realizzare due panini signature. «Fu attratto dai numeri: all’epoca il fast food aveva circa 400 ristoranti in tutta Italia, così il suo ragionamento fu: meglio cercare di far arrivare il mio messaggio ai giovani in questo modo che aspettare che arrivino nei miei ristoranti. Propose panini di qualità, con verdure e ingredienti selezionati. Furono bocciati, lui si impuntò e saltò tutto. Ma d’altronde Marchesi non si metteva nelle cose per i soldi, infatti non li ha mai davvero fatti».
La vicenda apre uno spiraglio interessante: ma Marchesi, Maestro dei Maestri, pietra miliare da cui ancora la cucina fa fatica a staccarsi; portatore di un messaggio filo-antropico e di bellezza; ma ci pensava mai, che spesso proprio questa bellezza, per suo concetto o costo, rimane for the happy few? Per Dandolo, «Marchesi era categorico: chi ha fame mangi pane e salame, che è fantastico, non i miei piatti. Sapeva naturalmente di proporre un’esperienza fuori dalle regole per quanto non sregolata. Era la rivoluzione, era conscio del suo prezzo e di non essere per tutti, o da tutti i giorni. Perché non è facile stupire con la semplicità, che è ben diversa dalla banalità. Voleva lasciare un segno, ed è esattamente quello che è successo. Allo stesso tempo, Marchesi era anche quello arrivava all’apice della felicità quando poteva addentare una mozzarella di bufala fresca con le mani, o, facendo due buchi precisi sul guscio di un uovo, berselo così, a crudo». Ed è vero che l’Insalata di spaghetti al caviale è ancora uno dei piatti migliori che si possa sperare di mangiare: stupid good. Tanto scontato, spaghetto con aria di recupero unito allo strafare del caviale, da diventare il re del lusso.
Perciò no, la cucina di Gualtiero Marchesi non parla di memoria, né, a prospettiva ribaltata, ha mai avuto bisogno di farsi ricordare. Perché è semplice e proibita come un uovo bevuto a crudo. Perché ci ha riportato alla mente, in ultima analisi, la lezione più importante: “fatti non fummo a viver come bruti”, persino quando si tratta di mangiare spaghetti freddi. E ora, che arrivi un nuovo re.