Galeotto fu un toast tristellato, e il mondo del giornalismo food milanese – ma non solo – si scatenò. La storia presenta come spesso accade due litiganti: da un lato Margo Schächter, collaboratrice de La Cucina Italiana, Marie Claire, Vanity Fair; dall’altro Valerio Visentin, volto (mascherato) de Il Corriere della Sera. Molto in breve: Schächter viene invitata a un evento del Consorzio Formaggi dalla Svizzera; dopodiché pubblica un articolo contenente un chiaro rimando a tale Consorzio; uno sconosciuto passante dei social l’accusa d’essere produttrice di marchette; la risposta è una foto su Instagram in cui la nostra ironizza sulla critica. Stacco, Visintin intercetta la foto e fa partire un’invettiva contro Schächter e tutto ciò che a suo dire rappresenta, ossia «i giornalisti-sandwich. Ogni spazio a nostra disposizione è concesso al miglior offerente. Oggi i formaggi della Svizzera. Domani un marchio di pasta, un’acqua minerale, un ristorante, un resort con piscina».
Come in ogni litigio che si rispetti, ci sono tifoserie e schieramenti: i pro-Margo (che accusa Visintin di diffamazione e spiega la sua versione dei fatti in ben due post – testo e video – su Instagram) e i pro-Valerio, decisamente meno rumorosi non solo per un fatto numerico (leggi: meno follower) ma anche di narrazione (leggi: la vittima qui è lei). Al di là di chi abbia torto o ragione, la vicenda – già triste di per sé – fotografa con una precisione chirurgica lo stato pietoso in cui versa un settore ormai regno di brand, di uffici stampa e di giornalisti al loro pieno servizio.
Un balletto che si ripete da anni, dove chiunque è (o è stato) connivente e che recita più o meno così: giornalisti sottopagati che per poter provare ristoranti devono elemosinare pranzi e cene gratis da parte dei brand o degli uffici stampa; brand o uffici stampa ben felici di assicurarsi pubblicità (quasi) gratuita e che a loro volta fanno fioccare inviti; giornalisti che parlano entusiasticamente pure di posti orrendi per non inimicarsi il brand o l’ufficio stampa e non mettere a repentaglio le prossime uscite. Ad avvalorare la tesi basta l’esperienza empirica: se esci con un gruppo di giornalisti food e chiedi se sono stati nel nuovo posto che ha da poco aperto, la domanda che ti viene rivolta è sempre la stessa, «no, chi lo segue?».
Pochissimi escono paganti a proprie spese, tutti mangiano (a sbafo) benissimo ovunque. A leggere le recensioni dei locali, Milano parrebbe la città del buon cibo: allora perché quando vado io nei medesimi posti torno puntualmente a casa pensando solo «mai più»? Nelle rare occasioni durante le quali salta fuori l’argomento, una modesta compagine afferma che «se mangio male, non ne parlo», e la mia domanda a quel punto non cambia: per quale motivo? Per quale motivo se vediamo un film, una serie tv, un concerto, uno spettacolo teatrale (gratuito o meno) possiamo – anzi, dobbiamo – esprimere liberamente la nostra opinione – positiva o negativa che sia –, ma quando parliamo di ristoranti le stroncature non sono ammesse? Possibile che ogni puttanata ingerita sia deliziosa?
Un sistema malato alla base – oltre ad avvalorare un mio vecchio adagio: i ristoranti dove si mangia bene non hanno bisogno di un ufficio stampa – non fa che generare del marcio e cullare i ristoratori in un’illusione, ossia di essere dei geni immuni ai giudizi non lusinghieri. Giusto qualche giorno fa ho dovuto segnalare e bloccare su Instagram il proprietario di un locale bolognese che da un mese non si dava pace: non potevo sostenere d’aver mangiato male nel suo ristorante, ero una mentecatta che doveva pubblicamente scusarsi e fare atto di penitenza per aver contestato l’eccessiva sapidità dei piatti che mi erano stati serviti. Da qui il sangue alla testa, messaggi di dubbio gusto a ogni ora del giorno, telefonate a colleghi milanesi miei conoscenti con la richiesta d’intercedere per convincermi a cancellare l’articolo: «Marianna, ci sta che tu abbia mangiato male, però dai, non scriverlo». Ancora una volta: perché?
Perché per me che oso criticare un ristorante, ci sono almeno dieci giornalisti a cui è stata pagata una trasferta e una cena che l’elogiano: come potrebbero non fare altrimenti, alla luce dell’investimento per tremila battute su La Cucina Italiana? Il risultato è una pletora di ristoratori e di marchi convinti che quella sia la normalità, che l’addizione giornalista più ufficio stampa dia sempre un esito positivo, che basti un evento dove uno Chef stellato cucina un toast con il tuo formaggio per avere un articolo che cita comunque il brand urlando al miracolo (nota a margine: Niko Romito non ha inventato proprio nulla; noi cultori del toast lo sappiamo, che quello migliore non va nel tostapane, bensì in forno – con buona pace del pancarré con l’accento acuto).
Margo Schächter non ha fatto nulla che non si sia già visto in mille differenti occasioni, e Valerio Visintin s’è appigliato al gancio sbagliato per sparare a zero su di lei e su ciò «che potremmo battezzare “markettismo”». Che lei fosse ironica e che lui non abbia colto lo humour sottile che stava dietro la didascalia della foto mi pare secondario; la cosa che forse più m’ha impressionata è una manciata di righe contenute nel post in cui la stessa Margo spiega lo spiacevole episodio – e che mi confermano il punto di non ritorno dove il sistema nella sua interezza s’è incagliato.
«Il toast era molto buono e mi ha fatto venire un’idea. Avrei potuto fare copia e incolla del comunicato, scrivere quel genere di articoli inutili che non legge mai nessuno, a parte lo sponsor di turno. Invece ho scritto un pezzo sul toast deludendo i formaggi, perché l’articolo parlava d’altro. Ho fatto felice la testata con una pioggia di click». Che è un po’ come quando ti trovi a dover spiegare una battuta, e la battuta poi non fa più ridere: se dovessi spiegare tutto quello che c’è di sbagliato in queste tre frasi, forse non farebbero più piangere.