«Questo è un Paese pazzesco, un luogo in cui, ne sono certo, un contadino mangia sicuramente meglio del Primo Ministro e forse pure del Papa. Qui c’è una cultura incredibile del cibo e una ricchezza unica degli ingredienti». Non ha dubbi Giorgio Locatelli, uno splendido quasi sessantenne, come direbbe Nanni. Dal chiuso della cucina della sua Locanda Locatelli, nel cuore di Londra, non lontano dalla vertigine verde di Hyde Park, ripensa al suo ultimo viaggio in Italia, appena concluso. Una lunga storia d’amore e brasciole, soprattutto «a Bari, eravamo a casa di questi due concorrenti di Home Restaurant, due fratelli. Inaspettato, uno fa il parrucchiere, l’altro commercia sistemi di isolamento. Mangio questo piccolo pezzo di carne con la salsa di pomodoro e dentro ci trovo tutta la mia vita. C’erano mia mamma e mia nonna, c’era l’odore della casa in cui vivevo da bambino. C’era tutta l’Italia. Ed era bellissimo».
Lo stomaco conosce ragioni che la ragione… «Eh già. Sono tornato estasiato dall’Italia e dalla Puglia soprattutto, e ho preso una decisione irrevocabile: gli spaghetti all’assassina li metto nel menu. Sarà complesso, perché ci vogliono venti minuti per farli, e servirà tempo per farli capire agli inglesi, ma sono troppo buoni». Che poi ricette come queste sono quasi un manifesto della cucina povera, del recupero, di un’Italia fragile e orgogliosa, con tanti casini ma anche tanta voglia di crescere. «Sono molto ottimista per lo stato di salute del nostro Paese, non parlo ovviamente di politica ma di cucina. Nel mio settore negli ultimi vent’anni c’è stata una clamorosa rivoluzione, un netto cambiamento. In meglio. Il food italiano prima era quasi completamente in mano agli emigrati, lo dico con il massimo rispetto. Erano posti in cui magari si mangiava anche bene ma che restavano molto artigianali e non riuscivano a fare il salto. Nascevano quasi per caso. Magari perché la moglie del proprietario faceva bene da mangiare o perché i camerieri avevano messo su un gruzzoletto ed erano riusciti ad aprire un loro posto. Era tutto molto centrato sul servizio, con il concetto del dinner and dance che spopolava. Oggi no, oggi la cucina italiana domina nel mondo, si vede nei risultati economici ma soprattutto nella percezione complessiva. Quando nel 2002 nacque la Locanda Locatelli eravamo uno dei pochissimi ristoranti italiani di livello. Negli alberghi a cinque stelle il must era il ristorante del luogo e poi quello francese, perché quella cucina veniva considerata best in class. Oggi non c’è hotel top che non abbia un grande ristorante italiano dentro, e questo credo che faccia bene all’immagine dell’intero Paese. Mangiare italiano è diventato mainstream, anzi proprio di moda. Lo chef è diventato il centro di tutto. Ora dobbiamo mantenere questo stato di grazia e, semmai, combattere il nostro classico tradizionalismo».
Siamo conservatori? «A volte sì. Soprattutto siamo diffidenti. Ti faccio un esempio. Qui a Londra adesso molti giovani inglesi hanno aperto ristoranti veloci a base di pasta. La pasta in questo momento è cool, c’è la coda fuori per mangiare lì, si va veloce, in venticinque minuti mangi – bene – e poi ti mandano affanculo. Alla gente piace. La formula funziona, ha cambiato il ritmo della ristorazione. Molti miei colleghi però sono spaventati, vedono questa come una rivoluzione pericolosa. Io invece non la penso così. Il cibo italiano deve anche saper prendere altre strade. Bisogna sapersi evolvere dal concetto classico: antipasto, primo, secondo e dolce. Senza paura».
Che poi è il solito tema, quello di un Paese meraviglioso ma un po’ conservatore, pieno di talento individuale ma che fatica a fare squadra. «Esatto. In Italia dovremmo far passare l’invidia. Avremmo risolto l’80% dei problemi. Saremmo uno dei Paesi più belli del mondo. Da noi appena vedono qualcuno che va bene rosicano. Io sono cresciuto in Italia fino ai vent’anni e ho avuto la fortuna di viaggiare, di allargare la mia visione che all’inizio era ovviamente quella di un bravo ragazzo della provincia di Varese. Mi sta sulle scatole quest’idea che si debba sempre trovare un problema, un colpevole. Ma goditela, invece. L’altro giorno ero a Identità Golose e uno comincia a parlare male di Bottura. Ma come cazzo si fa a prendersela con Bottura? Ti rendi conto?».
Un peccato, perché dal punto di vista della varietà e della qualità siamo unici al mondo. O no? «Ma certo, però spesso non siamo capaci di comunicarlo, di dare valore al nostro patrimonio. Se vai in America è tutto strafigo ma uguale, da East a West. Da noi è l’esatto contrario. Da Varano a Comabbio passano cinque chilometri, ma si guardano in culo per qualsiasi dettaglio, che ne so: “Il basilico nel minestrone lo mettiamo o no?”. Il campanilismo e tutte queste sfumature sono la nostra forza, ma possono diventare anche un limite. E poi i settori turismo e food restano sottovalutati. Spesso si buttano soldi in promozioni inutili, invece di promuovere la vera regionalità e interagire col mondo. Ma soprattutto dobbiamo alzare il livello. Non devono soltanto arrivare i bus. Lo dico con assoluto rispetto per il turismo di massa, che ha enorme dignità, però dobbiamo pensare anche a come attrarre i milionari. La Grande Bellezza deve anche parlare alle Grandi Ricchezze. Non è classismo, ma logica».
Be’, il Chiantishire e in tempi recenti la Puglia e molti altri borghi italiani stanno crescendo anche in questa direzione. «Certo, ma bisogna insistere e farlo bene, curando i dettagli. Pensa ai B&B. Devono essere perfetti, non devono diventare magazzini in cui smaltire tutti i mobili che non si usano più. La credenza della nonna lasciala perdere. Questi B&B devono avere sapore e non sempre sono così. Sono fondamentali, rappresentano l’Italia agli occhi del mondo, esattamente come gli hotel a cinque stelle. Anzi, ancora di più perché lì vanno soprattutto i turisti curiosi, quelli che vogliono impastarsi con la vera cultura e i costumi del nostro Paese».
A proposito, tu sei ormai impastato, uso la tua espressione, con l’Inghilterra, tifi per l’Arsenal (tra l’altro mi sembra un’ottima scelta) e immagino che sarai stato influenzato dal Britpop e dalla scena inglese. «Be’, adesso sì. Anche se è una lunga storia. All’inizio a casa mia, a Vergiate, non si sentiva nemmeno la radio: da bambino io avevo al massimo il mangiadischi, mentre i miei amici gli stereo e gli LP. Insomma, partivo decisamente indietro nel rapporto con la musica».
Adesso invece alle tue spalle c’è un bel poster di Bob Marley… «Eh già. Londra e mia moglie Plaxy mi hanno cambiato. Io conoscevo Crosby Stills Nash & Young, un po’ di musica 70s e 80s. Mi piaceva ovviamente il primo Vasco. Lei era super introdotta. Era amica di tutti, a casa sua giravano personaggi di ogni tipo, se facevano tardi andavano a dormire nella stanza degli ospiti. Abbiamo cominciato a frequentare un botto di gente. Gli Specials, Paul Simonon, il bassista dei Clash che ancora oggi frequentiamo ogni giovedì sera. A me continua a piacere qualche italiano, tipo Capossela o Franco 126, mi piacciono i testi e Plaxy mi prende per il culo». E perché? «Dice che noi italiani siamo top per moda, cucina e design ma nel rock siamo zero. Perché non riusciamo a non parlare anche nella canzoni della mamma e di quello che mangiamo. In effetti, non ha tutti i torti…». Col Britpop come siamo messi? Oasis o Blur? «Liam è un amico, un gran tipo. Damon invece l’ho conosciuto grazie a The Good, The Bad and The Queen, la superband in cui Paul suonava il basso. Abbiamo pure fatto un video insieme, un cazzeggio divertente in cui tutti facciamo una colazione all’italiana».
E i concerti? Hai un’aria sufficientemente rock… «Ah sì, Run-DMC o anche Beastie Boys, la Brixton Academy, il mio amico Leo, negli anni in cui lavoravo al Savoy. Un tipo buffo, che aveva sempre fame. Io cucinavo per lui e lui mi portava in giro ai concerti. Il pavimento che sale, il flow, tutti rasati con le Dr. Martens, la Fred Perry, io unico capellone. Bellissimo. Nulla ti porta a evocare momenti come la musica, soprattutto quella dal vivo. Nulla ha quella precisione evocativa lì: forse soltanto il cibo, in effetti».
Per me la cacio e pepe, o le melanzane alla parmigiana che faceva mia madre. «Perché sei romano. Per noi al nord il piatto resta sempre il risotto. Io ancora oggi potrei campare mangiando sempre riso, da qui all’eternità, cucinato in tutti i modi, anche solo col parmigiano. Negli anni ’60 e ’70 la pasta al nord non si mangiava, anzi, io ero fortunato perché ogni martedì mia nonna faceva gli spaghetti. Era proprio un evento. Io invitavo gli amichetti a casa. Per molti di loro era la prima volta. Adesso il riso lo puoi mangiare in mille modi, si adatta a tutto, è un piatto del nord ma che a sud sanno fare da dio. Patate e cozze, per restare in Puglia. Anni fa un risotto di mare, col mestolo, strabuono. Non era la mia cup of tea, ma comunque delizioso».
E ancora un prodotto che collega l’Europa all’Oriente. «Certo, ieri sera Plaxy ha preparato un curry di cavolfiore col basmati saltato in padella. La verità è che tra me e il riso c’è qualcosa di primitivo che supera la razionalità e mi scava forte dentro, fino alla radice». Ma è vero che lei ti ha conquistato in cucina? «Decise di cucinare la prima sera per me e fu un discreto disastro. Io ho mangiato tutto per non fare figure, ma quella roba faceva proprio schifo. Adesso si cucina insieme, si progetta. E poi abbiamo passato il grande spavento di Margherita, che è vegana e soffre di gravi allergie. Anzi, mi devo ricordare di far sparire subito le noci e di cambiare i cucchiai, che domani torna».
Questa è una storia delicata e immagino molto emozionante per te. Non so se hai voglia di parlarne. «Assolutamente sì. All’inizio è stato terribile. La cosa peggiore era pensare che la mia passione e tutto quello che facevo nella vita potesse far star male e addirittura uccidere mia figlia. I primi dieci anni sono stati complicatissimi. Mi sentivo inadeguato. Poi abbiamo imparato i meccanismi e la sua esperienza ha rappresentato uno stimolo anche professionale. Oggi siamo in grado di accogliere clienti affetti da gravi allergie». Un’emozione forte, immagino. «Più di quello che si possa immaginare o descrivere. Da noi adesso possono venire persone che per via delle proprie difficoltà alimentari non sono mai state al ristorante. La gioia quando vedi un bambino la prima volta a cena fuori non ha prezzo. La felicità nel poter stare con gli altri e sentirsi sicuro non si può raccontare. Capisci il valore della convivialità, l’emozione che provano, abituati a considerare il cibo come un nemico pericoloso».
Cosa insegni ai tuoi ragazzi in cucina e a quelli con cui ti confronti, dai concorrenti di MasterChef in giù? «Che bisogna saper imparare. Essere curiosi. Lo chef bravo lo vedi dalla motivazione. Nei colloqui mi colpisce gente meno qualificata ma che ha voglia. Mi piace quel senso di rivincita, perché qualcosa magari nella vita non è andato bene. Poi la formazione al ristorante deve essere permanente. I nostri cambiano reparto ogni tre mesi, in un anno e mezzo devono saper fare tutto: starter, primi, secondi, carne, pesce, pasticceria e pane. Questo ovviamente ha un costo, di training, perché hai sempre quattro persone che sono lì a imparare, ma alla lunga questa strategia funziona. A Natale, già prima di fare MasterChef, mi arrivano quattro o cinquecento messaggi di ringraziamento. Gente che lavora in tutto il mondo. Un grande chef si giudica anche dall’impronta che lascia, dagli allievi che forma. Pensa a Gordon Ramsay, uno che ha prodotto diciassette stelle Michelin. È fondamentale, una volta gli chef erano chiusi in cucina, non sapevano comunicare, custodivano gelosamente ricette segrete come se fosse chissà quale mistero. Quel tempo è finito».
Anche i concorrenti di MasterChef crescono di livello ogni anno? «Bruno Barbieri, che ha fatto dodici edizioni, dice che oggi siamo su un altro pianeta. Il lockdown ha cambiato molto il rapporto dei giovani con la cucina. Mi piacciono questi ragazzi perché sono poco legati alla tradizione. Leggono e si informano di più. A MasterChef per arrivare a dieci concorrenti adesso è un casino. Il primo anno il livello era più basso ed era più semplice buttarli fuori, adesso servono ore di discussione. E la cosa che più mi piace è che qui la gente non viene come al Grande Fratello, dove se sei te stesso e piaci diventi automaticamente famoso. Da noi il focus non è diventare famosi, ma il vero amore per la cucina, la possibilità di costruirsi una vera carriera dopo».
La sostanza, insomma. Per Giorgio Locatelli l’estetica fine a sé stessa non ha alcun significato. «Decorare un risotto per una pura ragione visiva resta una delle cose più ridicole che si possano fare». Il valore di tutto è invece l’esperienza, la sorpresa. Viaggi inaspettati, sapori d’infanzia che ritornano, telefonate di vecchi allievi che arrivano da tutto il mondo e rendono orgogliosi. E quella madeleine. Una manciata di parmigiano sopra a un piatto di riso.
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Foto & concept: Sha Ribeiro
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Direzione artistica: Gabriele Bassetto
Fashion editor: Francesca Piovano
Talent personal stylist: Valeria Forleo
Grooming: Maddalena Brando per Making Beauty
Photographer assistant: Greta Vanzi
Backstage video operator: Federico Terradico
Special thanks to: Pasticceria Marchesi 1824
Fondata nel 1824, la Pasticceria Marchesi in Via Santa Maria alla Porta non è solo una delle più antiche di Milano, ma anche uno dei suoi simboli. Nei primi del Novecento il proprietario, Angelo Marchesi, inizia a servire caffè, bevande e cocktail all’ora dell’aperitivo – oltre a dolci appena sfornati, torte, biscotti e dolciumi – sancendo un cambiamento destinato a definire di lì in avanti le abitudini di milanesi e turisti. Pasticceria, caffè, luogo di ritrovo, tappa obbligata, icona meneghina: da qualsiasi parte la si guardi, lei – all’interno di quel meraviglioso palazzo Settecentesco, con i suoi arredi del secolo scorso, i suoi soffitti a cassettoni, i suoi specchi antichi e le sue lampade in stile art déco – ricambia sempre l’occhiata. E sarà perché è un po’ languida, sarà perché è un po’ piaciona, sarà perché è un po’ tentatrice, tu finisci per cascarci puntualmente.