Se vi dicessero che potete prendere un vino perfettamente (o quasi) pronto per il mercato, ficcarlo sotto al mare, lasciarcelo per qualche mese o anno, e poi metterlo in commercio una volta terminato questo processo di “affinamento” – invecchiamento, riposo e sviluppo del profilo organolettico –, la prima cosa che vi verrebbe da fare sarebbe mettere la mano sul portafoglio con fare protettivo. Che cos’è, l’ennesima sciccheria gastrofighetta per alzare il conto al ristorante?
Magari sembra, e i presupposti ci sono tutti. Soprattutto perché, negli ultimi quattro-cinque anni, affinare il vino in mare è diventato improvvisamente più trendy. C’entrano la (ri)scoperta del consumo di lusso post-pandemico, una serie di investimenti piazzati nel posto giusto, e il cambiamento climatico. E anche, forse soprattutto, una fascinazione che non accenna a esaurirsi per le profondità piene di mostri e di storie.
È proprio dalle storie – anzi, dalla lore – che comincia l’avventura contemporanea dei vini affinati in mare. Procede dal basso verso l’alto, e parla di diversi ritrovamenti del tutto fortuiti di bottiglie del tutto fortunosamente (davvero?) conservatesi per decenni, o più di un secolo, e giunte ai giorni nostri “cantinate” a svariati metri di profondità. Curiosamente, e come se la preziosità non fosse sufficiente, questi ritrovamenti hanno per lo più interessato partite di Champagne. È il caso del gruppo di bottiglie di Heidsieck & Co Monopole Goût Americain, datate 1907 e rinvenute nel 1998 nello scheletro della nave svedese Jönköping, affondata da sottomarini tedeschi nel 1916 (siamo nel Mar Baltico).
L’episodio più conosciuto è però probabilmente un altro, avvenuto nel 2010 con dinamiche simili: un gruppo di sommozzatori impegnati in immersioni nell’arcipelago di Åland (siamo ancora nel Baltico) rinvenne 145 bottiglie di Champagne nel relitto di una nave affondata nel 1852, a circa 49 metri di profondità. Tutte le bottiglie erano intatte e sigillate, ma le etichette, sfaldate dall’acqua, erano illeggibili. Aprendo le bottiglie ed esaminandone i sigilli impressi sui tappi, però, fu possibile risalire alla maison Juglar, scomparsa nel 1829 a seguito dell’acquisizione da parte di un competitor maggiore; e a Veuve Clicquot (di queste componevano il totale 47 bottiglie; una di queste fu venduta all’asta per 15.000 dollari).
Champagne supernova? Non solo: a essere recuperate dagli abissi sono state anche bottiglie di birra. Sempre al Nord, al largo della Scozia per la precisione, in corrispondenza del punto di affondamento del mercantile Wallachia, inabissatosi nel 1895. Centoventisei anni dopo, le birre non hanno retto la prova del tempo e delle correnti: all’apertura, il contenuto delle bottiglie era apparentemente imbevibile. I lieviti con cui la birra era stata prodotta, però, si erano conservati, fornendoci informazioni sui procedimenti birrai di più di un secolo fa e rendendo possibile replicare le birre ritrovate.
Esito diverso per il vino: il Guardian riporta che, all’assaggio del carico di Åland, lo Champagne era risultato del tutto eccezionale, anzi, addirittura più interessante di molti prodotti “maturati” a terra in tempi più recenti. Tanto che Dominique Demarville, chef de cave Veuve Clicquot al momento dell’assaggio, si spinse a dire che si trattava di uno degli Champagne migliori del mondo. Note degustative? Frutta matura, tartufo, miele. Detta così, effettivamente non sembra male.
La buona notizia per tutti noi, a questo punto, è che qui si parla appunto di storie fondative. Ma, a differenza delle navi su cui furono ritrovate, il presente del vino sommerso è tutt’altro che affidato ai posteri. Secondo dati riportati da Wired, nel 2021 in tutto il mondo si sono prodotte circa 100.000 bottiglie di vino affinato in mare. Nell’anno seguente, il numero era quattro volte maggiore (e l’Italia staccò più di un quarto del totale, circa 150.000). Il dato per il 2023 parla invece di 700.000/800.000 unità. Oltre al Belpaese, tra i produttori troviamo Francia, Grecia, Spagna (che parrebbe voler ospitare a Cartagena la cantina subacquea più grande del mondo), Cile, Sudafrica, Croazia, Australia tra gli altri – tutti luoghi, insomma, dove è già presente una consolidata tradizione vitivinicola. Negli Stati Uniti, invece, dei vini affinati in mare è consentita la vendita ma non la produzione, per ragioni “igieniche”.
Arrivando dalle nostre parti, i progetti all’attivo si trovano in Liguria, Emilia-Romagna, Sicilia, Campania (dove recentemente si è inaugurata l’avventura napoletana di Megaride cantina sottomarine, che aspira a diventare la maggiore nel paese, con una capienza di 90.000 bottiglie), Sardegna (Akènta Sub con il suo Vermentino), Salento. Cominciano però anche gli esperimenti di cantine lacustri, posizionate su alcuni degli specchi d’acqua dolce della penisola. Una capillarizzazione territoriale che parla non solo di un mercato in espansione e già votato all’export, ma anche di uno dei principi che stanno guidando l’espansione dell’affinamento subacqueo dei vini: diventare una strategia di prossimità, così da tagliare i costi e le emissioni di trasporto. Non sempre, infatti, ogni cantina può permettersi di affinare il proprio vino (per un’emersione di parla di costi attorno ai 12.000 euro), e allora altre mettono a disposizione le proprie strutture. Ci arriveremo.
A questo punto, la domanda sorge: che cosa ha mai reso quello bottiglie di vecchissimo Champagne così speciali? E per quale motivo siamo convinti di poter replicare quei risultati in un ambiente controllato, in altre parole manovrando il fattore-tempo legato alle immersioni? I vantaggi dell’affinamento in mare dovrebbero derivare da una combinazione di fattori: temperatura dell’ambiente suppergiù costante tutto l’anno, notevole spazio a disposizione, pressione esterna regolabile meglio che sulla terraferma (ogni 10 metri di profondità circa essa sale di 1 bar), assenza di luce e condizioni atmosferiche potenzialmente avverse. Inoltre, il movimento delle correnti sottomarine effettuerebbe una sorta di remuage continuo e naturale, ottimo per, appunto, lo Champagne ma non disdegnato nemmeno da altri tipi di vino. Chissà che cosa ne penserebbe la dama Clicquot, che proprio la tavola da “rotazione” inventò.
Una precisazione: qui siamo nel regno della scienza, e infatti scientificamente il progetto di cantina sottomarina Orygini, legato alla Sicilia e al territorio etneo, ha avviato una ricerca con l’Università di Catania per paragonare stessi vini affinati in modi diversi (in mare, sulla terra), così da tracciare le proprietà organolettiche di entrambi e “capire”, finalmente, che diamine faccia al vino l’acqua del mare. Il punto è proprio questo: al di là dei bar, del termometro, delle correnti, non sappiamo davvero che cosa il mare faccia al succo di Bacco. Né perché agisca in modi diversi su diversi tipi di vino. Né, tantomeno, perché abbia effetti diversi su diverse bottiglie di una stessa partita. Semplicemente, lo fa.
È qui che subentra un vizio tutto umano, quello del fare poesia, ancora prima di aver levato le ceralacche e sfilato il tappo. E di poesia (e molto altro) abbiamo parlato con Gianluca Grilli, fondatore di Tenuta del Paguro, realtà ravennate specializzata nell’affinamento del vino in mare. Il Paguro si contende bonariamente il primato di “primo sommergitore” d’Italia con il ligure Piero Lugano della cantina Bisson, peraltro capostipite dello spumante nella propria regione.
«L’idea di Tenuta del Paguro è stata mia, è nata come un’ispirazione artistica. Era il 2007, e con Tonino Guerra stavamo svolgendo un progetto legato al territorio della Romagna, al lavoro dei contadini, a cui lui era molto legato. In questo contesto lui ripeteva sempre che i sapori erano importanti, gli odori erano importanti. Anche quello era un modo per raccontare e unire il territorio. E così dai racconti degli odori tirava fuori delle storie incredibili, come quella delle piattaforme marine, sommerse e non. La più famosa la conosciamo forse tutti, si tratta dell’Isola della Rose. Poi c’era questa proprio qui al largo della costa, estrattiva, si chiamava Paguro. A un certo punto trivellano dentro un giacimento ad alta pressione, salta per aria e il Paguro va giù, trenta metri sott’acqua».
Il vino diventa così il modo per unire storia, geografica, e sapore di un luogo, dalle navigazioni dell’impero bizantino all’industria petrolchimica stabilita sulla costa adriatica. «Poi c’è se vuoi la fascinazione per i racconti di navi che si inabissano, spariscono sul fondo del mare. Un’altra cosa particolare: i romani avevano l’abitudine di far macerare il vino nell’acqua del mare, che è salata e aiuta a non farlo andare a male. Per me insomma è tutto nato dall’umanesimo, se vogliamo. Poi arriva la scienza, la pratica, l’esperienza».
Decine di metri sotto la superficie, incastrati attraverso i resti del Paguro, i vini di Gianluca ormai ne sanno qualcosa. «Con Bisson abbiamo iniziato insieme, parliamo del 2009-2010. Che poi, che fatica cominciare, è tutto un gioco di concessioni. Il mare è dello Stato, ne dà in concessione una parte alle Regioni, che a loro volta ne danno una parte ai Comuni… Sono stato anche fortunato, per cominciare mi sono legato a un amico che già faceva vino, cominciare da zero con i vigneti avrebbe richiesto incredibilmente più tempo. Ti dirò che quasi più che la produzione, per un prodotto così conta sviluppare la giusta rete di vendita, di distribuzione. Quindi noi abbiamo fatto letteratura, io e Bisson, ma le sfide sono dopo».
Una su cui si sta concentrando adesso? «Vorrei implementare ancora più tecnologia nel processo di immersione. Avere tutta una serie di casse intelligenti che comunichino con la superficie in tempo reale e in modo più efficiente. La cosa davvero importante però è fare crescere il prodotto che facciamo, noi al Paguro ma anche gli altri, bisogna fare gruppo. Alla fine lavoriamo tutti una stessa terra. Ecco, a me piacerebbe essere chiamato contadino, sai».
Oggi, Tenuta del Paguro fa circa 5.000 bottiglie all’anno (divise su sette etichette: Sangiovese, Sangiovese Riserva, Sangiovese rosato, Merlot, Albana, Cabernet, uno spumante), e ogni immersione dura un anno. Una volta emerse, la direzione è soprattutto a filo diretto con il consumatore o B2B. Sulle enoteche è più difficile, dice Gianluca, ma ci stanno lavorando.
«Ho smacchinato un po’ sull’Ostrea, il nostro primo rosé. Vorrei fosse servito sul ghiaccio, come faceva Brigitte Bardot, alla Saint-Tropez. Ma anche da provincia italiana, dài. Inoltre, lo mettiamo in commercio per la prima volta in doppia versione, affinato in mare e non. Così, per qualsiasi scetticismo sul processo, si potrà giudicare da soli».
À propos, il momento arriva. Si ispeziona la bottiglia, la si vede ricoperta di coralli, ci si chiede se è davvero ciò per cui si è pagato (le bottiglie di Tenuta del Paguro escono al cliente tra i 120 e i 260 euro). Chi scrive era scettica, forse parzialmente lo è ancora. Dalla terraferma, la corsa agli abissi pare la replica di ciò che sta avvenendo da tempo con la viticoltura eroica: affrettarsi a occupare un posto nello schema prima che sia troppo tardi – e anche troppo caldo o climaticamente instabile sulle pianure e sulle colline. «Oltre gli scettici ci sono gli increduli: quelli che ti chiedono se davvero il tappo di ceralacca basterà a far sì che il vino non si annacqui con l’acqua del mare. Io rispondo a tutto con precisione, ma alla fine che ci vuoi fare, le persone le convinci solo andando all’assaggio».
E dunque, tornando al punto di partenza, e cioè che dell’affinamento in mare forse ci piace proprio, o soprattutto, il fatto che non sia del tutto controllabile (poeticissimo, no?): chiedo a Gianluca se c’è stata quella volta in cui ha aperto la bottiglia ed è rimasto davvero stupito da ciò che era venuto fuori?
«Sì, in negativo. Avevamo fatto un esperimento, un cento mesi sui lieviti a cinquanta metri di profondità. Vado ad aprire la bottiglia e non c’è niente da fare, è proprio sbagliata. La lascio lì, non ci dormivo. Dopo un paio di mesi mi chiama il mio socio e mi fa cadere dalla sedia: mi dice che ha riassaggiato il vino, ed è una cosa spettacolare. Era vero. Aveva fatto tutto da solo, perché è un corpo vivo. Un’altra cosa che mi ha stupito, ma che non riguarda le bottiglie, è la capacità di cioè che facciamo di integrarsi con l’ecosistema. Mi spiego: le nostre non sono zone da ostriche, da ricci, e invece quando tiriamo su le casse li troviamo abbarbicati sul metallo. Anche questa è una cosa viva».
La risposta di Gianluca alla nostra domanda di partenza è facile da intuire: no, non si affina vino in mare per marketing, anche se forse, e anche dopo aver chiacchierato con lui, rimango mi convinco che la “vera” ragione sia oltre ciò che si vede. Che vada oltre la superficie, e parli appunto di noi più che del vino, in realtà.
Alla fine la assaggio, la sua Albana, che arriva con il nome di Squilla Mantis, vendemmia 2016. È, a tutti gli effetti, un ottimo vino, che sia per il mare o per abilità enologica. In questo gatto di Schrödinger, forse preferisco non vederci chiaro, e sognare insieme a Gianluca di piattaforme sommerse, ventimila leghe sotto i mari.
Lui di sicuro ne fa sognare agli altri. Nel 2015 ha fondato la Jamin Underwater Wines, con sede a Portofino, tra i cui soci si annovera Antonello Maietta, alla guida di AIS Italia per tre mandati. Il nome dell’azienda deriva dal ligure giaminare, lavorare sodo. Nei fatti è quello che fanno per i vini degli altri, occupandosi del loro affinamento in mare.
Mi hanno sempre detto che mi ero messo in testa una stupidata, per non dire altro, conclude Gianluca. Il mercato, e ancora una volta il tempo, per ora gli hanno dato ragione: in fondo al mare potrebbe trovarsi la direzione di (almeno) un certo vino di domani, a maggior ragione se i primi studi avviati ne dimostreranno l’unicità. Ora anche io vado a immergermi. Torno su più fina di prima, e vediamo che cosa ne è stato di questi sogni di passato, proiettati nel futuro.