Qualche giorno fa un mio amico che vive a Providence (Boston) mi ha mandato un audio per chiedermi come cucinare il tacchino: «Sono rimasto solo perché Cristina è andata dai suoi in Florida per il Thanksgiving e quasi quasi ne inforno uno anch’io. Ma come lo faccio? Mi ricordo che una volta l’ho mangiato da te». No, quella era una faraona. Ma comunque: «Fallo con il tartufo», gli ho risposto, «soprattutto se è selvatico. Se è allevato, pallido e insipido, riempilo come lo riempiono loro con pane, castagne, burro, sedano, erbe e prepara tutti quei side dolciastri, tipo patate dolci con lo zucchero, marshmallow, marmellata, mac and cheese e torta di zucca». Ha concluso, credo più per pigrizia che per gusto, dicendo: «OK OK, niente, tanto non mi piace neanche il tacchino, non sa di niente».
Noi non mangiamo il tacchino abitualmente e non festeggiamo il giorno del Ringraziamento. Ma non festeggiavamo neanche Halloween e non mangiavamo hamburger, fino a poco tempo fa. Non avevamo idea di cosa significasse Black Angus, dicevamo grigliata o rosticciata invece di barbecue e nessuno andava in giro per strada con mezzo litro di caffè in un bicchiere di carta. E ancora meno aspettavamo con ansia il Black Friday, che cade subito dopo il Ringraziamento. Siamo la periferia dell’impero, dove le cose arrivano sempre un po’ dopo, e chi le vede arrivare spesso non sa da dove arrivano né perché, così o le accoglie tutte acriticamente o si spaventa. Quindi, in previsione dei prossimi anni, quando invece di un timido audio faremo una lunga video chiamata per prepararlo insieme, il tacchino, vediamo da dove arriva, chi l’ha portato e come si cucinava quando lo si cucinava bene. Spoiler: con il tartufo.
Il tacchino, l’animale, arriva in effetti dall’America, del Sud però. L’usanza di mangiarlo invece si stabilisce paradossalmente prima da noi, nel vecchio mondo, che negli Stati Uniti, per poi tornare di nuovo di là dall’Atlantico, e in questo doppio giro si sono create curiose confusioni tassonomiche, geografiche e linguistiche. Il tacchino è uno dei prodotti che arriva in Europa dopo la scoperta del Nuovo Mondo, dell’America o, come lo chiamavano allora, dell’India Orientale (ricordiamo che Colombo è morto convinto che quella fosse l’India). E infatti in Portogallo ancora lo chiamano Peru, in Francia e in Turchia Pollo d’India. Gli inglesi invece lo chiamano Turkey, ma solo perché lo confondevano con un’altra specie di grossa gallina che gli arrivava dall’Africa passando dalle mani di commercianti turchi. Ma no, quella era la faraona.
Nonostante non avessero ben capito che cosa fosse, gli inglesi si innamorarono presto del tacchino, e già nel ‘500 cominciarono a mangiarlo regolarmente. In Inghilterra è tuttora un’usanza natalizia. Una delle analogie più famose della filosofia moderna è di un filosofo e logico inglese, e riguarda proprio un tacchino. Nel libro I problemi della filosofia (1912), Bertrand Russell racconta la disavventura del tacchino induttivista, che a novembre venne comprato al mercato da un allevatore. Arrivò all’allevamento, passò la notte impaurito nel buio e la mattina dopo alle nove si spaventò ancora di più quando l’allevatore si avvicinò al recinto. Viene per portarmi via di nuovo? Per uccidermi?, pensò l’animale. Invece l’allevatore gli portò da mangiare. E così fece le mattine successive. Finché, superata la diffidenza iniziale, il tacchino, da buon induttivista appunto, si abituò a fare colazione alle nove. Poi, il giorno della vigilia di Natale, sempre alle nove, l’allevatore arrivò al recinto, il tacchino gli andò incontro contento e quello lo sgozzò per cucinarlo. Questa storia serviva a Russell per spiegare come noi siamo portati a confondere l’abitudine con la necessità. Ci abituiamo facilmente a una cosa e cominciamo a credere che sia necessaria e che dovrà essere così per sempre solo perché è stata così da che ci ricordiamo. Funziona anche per le tradizioni culinarie, che prendiamo erroneamente per indelebili segni identitari, quando sono solo abitudini più o meno inveterate. Ma torniamo alla alterne vicende storiche del tacchino.
Il giorno del Ringraziamento si comincia a festeggiare all’inizio del ‘600, quindi parecchio tempo dopo l’assimilazione del tacchino nella dieta degli inglesi — dando loro un altro motivo per farli essere ancor più sprezzanti verso i grezzi, o almeno poco originali, americani. E si comincia a festeggiare, secondo la versione tradizionale, perché i Padri Pellegrini erano in seria difficoltà con il raccolto e l’allevamento, e vennero aiutati dai nativi americani che insegnarono loro a coltivar meglio il grano e a sfruttare meglio i tacchini. Pare che nei cortili degli aztechi il tacchino ci fosse da più di mille anni e fosse diventato così centrale per la loro cultura da assurgere a manifestazione (una delle varie) del dio ingannatore delle tentazioni Tezcatlipoca. Il legame tra il tacchino e l’inganno (vedi la storia di Russell) e la confusione (vedi i suoi diversi nomi) deve essere una cosa molto più grande di noi… A ogni modo, durante il Thanksgiving Day si ringrazia per il raccolto e per l’aiuto, e si mangiano pannocchie e tacchino. Ma non al tartufo.
Per scoprire la ricetta del tacchino al tartufo dobbiamo fare un salto di duecento anni, rimanendo sempre in America, per la precisione a Hartfort, in Connecticut, nel 1794. In una bella giornata d’ottobre, due uomini robusti e ricchi vanno a caccia a cavallo. Su un cavallo il signor King, un appassionato cacciatore americano che diceva di provare un forte rimorso a ogni uccisione. Sull’altro Jean Anthelme Brillat-Savarin, giurista francese scappato da Parigi perché troppo ricco per passare illeso i mesi del Terrore. Prima uccidono qualche pernice e sei scoiattoli grigi, poi capitano in mezzo a uno stormo di tacchini selvatici. Solo in America si trovavano i tacchini selvatici — annota Brillat-Savarin —, più prelibati di quelli europei tenuti in cattività. I tacchini subito si alzano in volo e il signor King spara al primo che vede scappare e corre a recuperarlo. Brillat-Savarin, meno reattivo ma più fortunato, spara all’ultimo, il più pigro, che si muove troppo tardi e subito cade stecchito. Sembrava finita in pareggio. E invece il tacchino di King non si trova da nessuna parte. Arrivano anche i cani in aiuto, ma invano. Niente potrà mai dimostrare che il signor King avesse mancato il bersaglio insinuando poi una fuga del tacchino, se non l’espressione torva e sommessa che tenne per tutto il viaggio di ritorno.
Dopo la caccia, Brillat-Savarin aveva fretta di tornare in città con il suo tacchino, ma si trovò a dover ascoltare una lunga lode dell’economia del Nuovo Mondo: «Qui», disse King, «le imposte sono minime e dopo averle pagate possiamo dormire tra due guanciali. Il Congresso asseconda fortemente le nostre industrie nascenti; negozianti sono sempre in giro per sbarazzarci di ciò che vogliamo vendere; io ho denaro liquido per molto tempo perché ho venduto poco fa, al prezzo di ventiquattro dollari al barile, la farina che per solito vendo a otto. Tutto ci proviene dalla libertà che abbiamo conquistata e basata su buone leggi». In tutto questo, l’unica cosa a cui riusciva a pensare Brillat-Savarin era se ad Hartford sarebbe riuscito a trovare tutti gli ingredienti che che gli servivano per valorizzare al meglio quel prelibatissimo tacchino selvatico.
Una ventina d’anni dopo quella battuta di caccia, nell’introduzione alla Fisiologia del Gusto o Meditazioni di gastronomia trascendente, l’opera con cui di fatto nascono la gastrosofia e la riflessione sul buon gusto, Brillat-Savarin scriverà che «il destino delle nazioni dipende dal modo in cui si nutrono». Dal modo, appunto, più che dalle materie prime. Dal modo, dalla costante attenzione, dall’attenta preparazione, dall’incessante esercizio del gusto, dalla graduale e infinita ricerca del piacere. Una volta tornato ad Hartford, le ali di pernice furono servite al cartoccio e gli scoiattoli grigi con salsa al Madeira. Quanto al tacchino, che era l’unica vivanda arrostita: l’aspetto era bellissimo, il profumo allettante e il sapore squisito, tanto che fino a che non fu consumato del tutto non si udiva altro intorno alla tavola che «Very good! Exceedingly good! Oh! Dear sir, what a glorious bit!».
Finita la rivoluzione francese, Brillat-Savarin tornò a Parigi, dove qualche anno dopo fu calcolato che si consumavano circa 36.000 tacchini l’anno. Nessuno selvatico, tutti cucinati come si deve. «Io ho qualche motivo per credere», scriveva, «che dai primi di novembre alla fine di febbraio si consumino a Parigi trecento tacchini con i tartufi al giorno: in tutto trentaseimila tacchini. Il prezzo ordinario di ogni tacchino così preparato è di almeno venti franchi: totale, settecentoventimila franchi: che è un bel giro di denaro». Le tradizioni nascono o si acquisiscono più per il giro di denaro che per altro. E allo stesso modo i nomi alle cose vengono spesso dati più per il giro di denaro che per altro. Non è una novità.
A questo punto della storia, i tacchini erano talmente tanti e così diffusi in tutto il mondo, che si cominciò a ringraziare direttamente loro, dando vita a una nuova tradizione, quella di salvarli prima che arrivassero sulla tavola. Biden pochi giorni fa ne ha graziati due che, dopo essere arrivati alla casa bianca a bordo di una Cadillac, hanno trascorso il weekend in un hotel di lusso. Ma pare sia stato Lincoln a cominciare, salvando un tacchino il giorno del Ringraziamento su richiesta di suo figlio. Da lì in avanti, della lunga schiera di presidenti americani, citiamo solo J. F. Kennedy, che tre giorni prima di essere assassinato risparmiò la vita a un tacchino dicendo: «Sarà il nostro regalo del Ringraziamento». A conferma che avevano ragione gli aztechi e che non si diventa una millenaria manifestazione del dio ingannatore per niente.
Insomma, se fra qualche anno capiterà anche a noi di cedere al potere sovrumano del tacchino e ci troveremo così a cucinarlo ogni quarto giovedì di novembre, sarebbe il caso di non cadere preda di un ingenuo stupore. Quando è arrivato il tacchino in Europa sono arrivate anche le patate e i pomodori e altri prodotti che noi abbiamo fatto nostri e portato a massimo splendore. “Non è una tradizione che mi appartiene” è un’affermazione logicamente debole, storicamente imprecisa e piuttosto dannosa per l’evoluzione del gusto. “Non ho nessuna intenzione di accompagnare il tacchino con i marshmallow, preferisco di gran lunga farcirlo con salsicce di Lione (ricetta di Brillat-Savarin) e accompagnarlo col tartufo” è invece un’affermazione molto giusta. Non c’è ragione per resistere a cose che sono già successe né per sprecare energie disdegnando un futuro che non smetterà di avvicinarsi solo perché lo vediamo arrivare. Saremo anche la periferia dell’Impero, ma almeno abbiamo i tartufi.