È stato uno dei film più amati di Cannes 2023, così tanto che ha scalzato nella corsa all’Oscar per la Francia il premiatissimo Anatomia di una caduta (su cui c’erano dei tecnicismi regolamentari, più che un effettivo ostruzionismo, a onor del vero). La Passion de Dodin Bouffant, in italiano Il gusto delle cose, è arrivato finalmente al cinema. Siamo nella Francia di fine Ottocento, e la storia è quella del rapporto tra un importante magistrato (Dodin Bouffant, interpretato da Benoît Magimel) ritiratosi dalla professione ed Eugénie (Juliette Binoche), sua chef sopraffina. Bouffant è un gourmand, un intellettuale del gusto che eleva il processo della preparazione di una pietanza e la successiva somministrazione a un’esperienza di profonda riflessione nei confronti della vita stessa, scomposta nei diversi ingredienti che si fondono, creando emozioni, ricordi, evocando eventi storici e ragionando sulla funzione politica e sociale del cibo.
Il gusto delle cose è diretto da Trần Anh Hùng, regista franco-vietnamita, vincitore di una mostra del cinema di Venezia nel 1995 con Cyclo. E che, a causa di una serie di vicissitudini produttive attorno a un film che affossò la sua carriera quando era all’apice del successo, ha raccolto fino a ora meno di quanto avrebbe meritato. Ma questa è un’altra storia, che sicuramente evoca sapori poco piacevoli a Trần. Il presente, già da un anno, è un ritorno in grande stile, per ragioni che lui stesso ha raccontato quando l’abbiamo incontrato al San Sebastian Film Festival, dove il film era inserito nella sezione Culinary Zinema. Non poteva esserci posto migliore per vedere questo film, nella terra con la più alta concentrazione di stelle Michelin, che annovera la buona tavola tra i diritti inalienabili dell’essere umano.
Trần ha tratto il film da un romanzo di Marcel Rouff, La vie et la passion de Dodin-Bouffant, gourmet. Nella sua interpretazione, però, la figura centrale della vita dell’eroe eponimo diventa Eugénie, la quale, si capisce ben presto, del protagonista è anche amante. Un rapporto d’amore che nasce dalla comune passione per il cibo ma che la scavalca, unisce corpo e intelletto e finisce a consumarsi tra la cucina e la camera da letto. È un film raffinato, Il gusto delle cose: nella messa in scena, nei tempi che si prende nel raccontare, nella recitazione dei suoi due magnifici interpreti. Ma, soprattutto, nel cibo che porta in tavola.
E questo è importante, soprattutto nel momento storico in cui tutti si sentono cuochi sopraffini o esperti della tavola perché assidui consumatori di stagioni di MasterChef e Quattro ristoranti, oppure perché una volta gli è venuta una frittata. Ecco: un film come questo aiuta a rimettere la cultura del cibo nella giusta prospettiva. Cucinare è un’arte in senso medievale, non uno show, né tantomeno un reel di TikTok. Necessita tempo, studio, riflessione, tanta pratica. Come ne ha bisogno anche la ricetta apparentemente più banale, come l’omelette con uova di carpa – piatto che oggi associamo alla tradizione gastronomica orientale, specie thai e giapponese, ma che Eugénie prepara in scioltezza per Dodin aggiungendo un ingrediente fondamentale, l’amore. E dire che Tran non è neanche un particolare appassionato.
«Mi piace mangiare bene», raccontava da San Sebastian, «ma non sono particolarmente esperto di gastronomia. Sono fortunato perché mia moglie cucina molto bene, ma per esempio non sapevo che il festival avesse una sezione dedicata esclusivamente a cinema e cibo. Quando mi hanno invitato sono tornato con la memoria a quando ero venuto qui con il mio primo film, Il profumo della papaya verde, e i ricordi sono in effetti tutti legati al cibo meraviglioso che mangiai all’epoca».
Era destino che, prima o poi, facesse un film sul cibo. «Ho cercato per vent’anni una storia che avesse a che fare con il cibo. È strano, la maggior parte dei registi insegue il racconto dell’arte, dei pittori, degli scrittori, dei musicisti. Io invece volevo trovare qualcosa che avesse a che fare con i sensi. Negli anni mi sono imbattuto in alcuni romanzi, ma per una ragione o per l’altra le cose non sono mai andate in porto, finché non ho incontrato il romanzo di Rouff. A dire il vero non avevo trovato la storia particolarmente interessante, ma c’era dell’altro, la passione per il cibo da una parte e qualcosa di non detto, che era la storia tra loro, dall’altra. Questi elementi mi hanno permesso di scrivere la sceneggiatura ispirandomi al romanzo molto liberamente. E di raccontare, in una sorta di prequel, un rapporto praticamente matrimoniale, radicato da anni ma ancora romantico e passionale. Qualcosa che, in fondo, al cinema non si vede spesso. E ho cercato di non renderlo noioso».
Difficile ritrovarsi annoiati, in un film che viene contrappuntato da altissimi momenti di cinema e cucina. La scena iniziale è un gioiello di regia, ma anche di cucina. Un trionfo di tecniche apparentemente antiche, ma che sono in realtà ancora oggi alla base della maggior parte dei piatti della cucina francese, e non solo. C’è una grande spiritualità nel modo in cui viene rappresentato il lavoro di Eugénie, e poi anche di Dodin quando finalmente può dimostrarle il suo amore cucinando per lei. Quando la chef attraversa uno dei suoi periodi di malessere fisico, l’innamorato la cura nella maniera più semplice, un buon brodo caldo. Ma non quello di dado con le stelline (o le letterine, io mangio ancora quelle), bensì un brodo chiarificato che «guadagna in colore quello che perde in sapore». Perché anche una cosa così banale può diventare opera d’arte.
È uno degli elementi più affascinanti de Il gusto delle cose, su cui Trần ha lavorato a lungo. «Durante la scrittura ho avuto come consulente Patrick Rambourg, uno storico della gastronomia e della cucina. Abbiamo lavorato insieme perché volevo ci fosse accuratezza nei menu, dovevano essere tutti piatti esistenti nel periodo in cui è ambientato il film. Nel momento delle riprese mi sono invece avvalso della collaborazione di Pierre Gagnaire, uno dei più grandi chef di Francia [complessivamente tredici stelle Michelin in carriera, ndr], che ha deciso di sostituire alcuni dei piatti perché non ne conosceva la procedura di preparazione. Ha cucinato per me tutti i piatti che vedete nel film, di modo che potessi rendermi conto di come girare e montare le scene delle realizzazioni, durante le quali Pierre aveva delegato il suo più stretto collaboratore, che ha lavorato con lui per quarant’anni, come consulente sul set. È stato un processo lungo e complesso, ma volevo che tutto fosse perfetto e reale».
È stato lui a dirigere i movimenti di Juliette Binoche e Benoît Magimel che «hanno in effetti cucinato tutto, ma costantemente istruiti». Quel duo è stata una sfida nella sfida. Juliette e Benoît sono stati una coppia, hanno anche una figlia, ma dopo la separazione non avevano più lavorato insieme. «Ammetto che ero un po’ preoccupato all’inizio, ma parliamo di due attori magnifici e incredibilmente professionali. Sin dal primo giorno di riprese si è creata un’atmosfera fantastica tra loro, si sono calati nei personaggi completamente, sono stato molto fortunato». Merito probabilmente anche del catering, visto che Il gusto delle cose ha potuto godere di quelli che potrebbero essere stati i migliori cestini della storia del cinema. «Spesso, nelle scene in cui c’è del cibo in scena, tutto viene cucinato precedentemente e poi messo in frigo in attesa di allestire il set. Qui tutto è cucinato in tempo reale, e niente di quello che è stato preparato è stato buttato. Lo mangiavamo tutti insieme durante la pausa».
Per dire: parliamo del Biascica francese che ha potuto godersi delle Uova Mimosa con ostriche e caviale, tanto per citare una delle molte leccornie che si vedono nel film. E di cui dissertano, filosofeggiando, Dodin Bouffant e i suoi amici, dotti commensali che al desco dissezionano costolette d’agnello e umana natura, il tutto attraverso l’analisi di solidi e liquidi. «L’uomo è l’unico animale che beve quando non ha sete», dice uno di loro. «Il vino è il lato intellettuale del pasto, la carne e le verdure quello materiale», ribatte il padrone di casa.
E ha ragione, e non serve nemmeno scadere nella banalità dell’in vino veritas, che tanto banale alla fine non è e che dobbiamo a Zenobio, filosofo sofista da cui tanto ci sarebbe da imparare. Loro poi lo dicono bevendo Pouligny-Montrachet, bianco di Borgogna da Chardonnay, vera e propria poesia. O, passando al rosso, Clos Vougeot, sempre Borgogna, vitigno che risale addirittura al 1109. E sì, conoscono un racconto inestimabile anche su questo nettare. Perché anche la Storia si può gustare in un sorso. Grazie ai componenti di questo dotto consesso scopriamo com’è nato il Vol-au-vent, opera di Marie-Antoine Carême. Chi sarà mai costui, direte voi.
Fondamentalmente, per semplificare, uno dei pionieri della cucina francese, su cui questo cuoco leggendario scrisse, guarda un po’, anche un testo dall’inequivocabile titolo L’Art de la Cuisine Française. Si è tutti uguali a tavola, quando si mangia la stessa pietanza. Che si sia re, cardinali, ladri (quelli onesti, non i due precedenti), commercialisti, attori, operai. È la democrazia del gusto, le ostriche si mangiano a 6 euro l’una per chi si può permettere il lusso, e a 40 centesimi con un bicchiere di bianco insieme a un pescatore sulla banchina malfamata di un porto. Su chi sia più felice è questione filosofica sulla quale si dibatte da secoli.
Il gusto delle cose si fa così compendio del legame indissolubile che c’è tra mente, palato, stomaco e rivoluzione. Perché cucinare, o anche comporre un menu, è un atto politico, come lo è ogni gesto artistico. Lo dimostra Dodin Bouffant quando, a un certo punto, deve scegliere come soddisfare la gola, e dunque fondamentalmente l’ego, di un capo di stato. Sceglie la Pot-Au-Feu, piatto della tradizione contadina, di quelli che vengono considerati poveri ma richiedono dedizione rara, circa sette ore di preparazione tra brodo, cottura della carne e delle verdure di accompagnamento e relative salse. È un gesto sovversivo, nel senso più stretto del termine. Perché sfama colui che spesso affama il popolo proprio con il poco cibo che il popolo riesce a non farsi sottrarre.
Un capolavoro d’equilibrio culinario e diplomatico, semplicissimo e ricco. Come questo film, che allo spirito fa proprio bene. Da Il gusto delle cose si esce sazi sotto ogni punto di vista, arricchiti culturalmente e spiritualmente. È un film romantico, e come tutte le storie d’amore inevitabilmente doloroso. Ma come un piatto a cui si è dedicato tempo e cura, ne va assaporato ogni boccone.