Gli anni tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei 2000 hanno portato una valanga di nuove tecnologie. L’estate del 1998, per esempio, mentre si giocavano i mondiali di calcio in Francia, mi lasciò in dote la prima Play Station, quella grigia con l’apertura circolare per i dischi, ma anche World Cup 98 e la sigla con la mascotte della competizione che volava nelle città d’oltralpe al suono di Tubthumping dei Chumbawamba. Mio padre me la fece trovare a casa dopo l’ultimo giorno di scuola. Qualche anno più tardi fu il periodo dei litigi e degli accordi con i miei per il cellulare: i compagni delle medie più fortunati avevano già ereditato dei lunghi Nokia con una piccola antenna, mentre io, solo rinunciando a una gita scolastica, ottenni il tanto agognato 3310 con l’italianissimo operatore Blu.
In quegli stessi anni fece irruzione in casa un nuovo elettrodomestico: il forno a microonde. Arrivato con l’ambizione di rivoluzionare la nostra cucina, dopo qualche esperimento iniziale venne relegato al ruolo di riscalda-scongela alimenti, utile tutt’al più a sciogliere barrette di cioccolato per velocizzare la preparazione di qualche torta. Quel forno a microonde, arrivato in casa quando facevo le medie, è rimasto accanto al frigorifero dei miei fino a pochi anni fa, quando all’improvviso, senza dare segni di obsolescenza programmata, ha semplicemente smesso di accendersi.
Nonostante la mole di tasti e un notevole apparato iconografico fatto di piccole illustrazioni che ritraevano alimenti e modalità di cottura, il suo utilizzo è stato sempre limitato a poche e semplici funzioni (se non credete a noi soli, non siamo gli unici a pensarla così). Devi scongelare il pollo? Iconcina dei fiocchi di neve e tot minuti a tot altra potenza. Devi riscaldarlo, questo pollo? Tasto Start e tot altri minuti a tot altra potenza. Per me, che già da qualche anno allenavo le dita alle combinazioni più complesse di freccette direzionali, X, triangolo, quadrato e cerchio del joystick Sony, sembrava tutto incredibilmente naturale. Più complesso per mia nonna che, abituata a scaldare la pasta della sera prima a bagnomaria, non riuscì mai a capire come scongelare un hamburger.
Ridotte le funzionalità, e di conseguenza il numero di comandi, il microonde è rimasto in cucina come quelle giovani promesse dello sport che sembrano destinate a un futuro da campioni e invece imboccano una carriera da onesti mestieranti, lasciando sempre il dubbio su che cosa “avrebbero davvero potuto fare”.
Sono passati decenni, la Play Station che mi venne regalata nel 1998 è archeologia tecnologica e il Nokia 3310 un oggetto di culto, simbolo dei bei tempi in cui se il cellulare cadeva non dovevi spendere un milione delle vecchie lire per sostituire lo schermo. I cellulari sono diventati smartphone, sono scomparse le tastiere e – come i meme non smettono ciclicamente di ricordarci – la loro funzione di telefono è diventata quasi minoritaria. Lo stesso vale per le consolle: iperrealismo, competizioni online, streaming. Se al me ottenne avessero detto che si poteva guadagnare facendo letteralmente quello che facevo tutti i pomeriggi di tutta l’estate del 1998, avrei pensato fosse uno scherzo, pensato appositamente per sabotare il mio futuro.
Eppure, in questa evoluzione tecnologica il microonde sembra rappresentare un baluardo negazionista, come il Chirocefalo del Lago di Pilato sul Monte Vettore reso (ancora più) immortale dalla canzone Fermo! degli Offlaga Disco Pax. Brevettato nel 1946 dalla Raytheon Company, azienda statunitense che si occupava dello sviluppo di magnetron per la produzione di radar, l’invenzione del microonde è l’ennesima storia di una scoperta per caso: l’ingegnere Percy Spencer stava lavorando nei pressi di un magnetron con una barretta di cioccolato in mano, e questa, con l’entrata in funzione dello strumento, iniziò a sciogliersi. Spencer capì subito la portata di quella scoperta, e come prova del nove tentò di cuocere prima dei popcorn (che uscirono alla perfezione), poi un uovo (che esplose). Solo due anni più tardi produsse il primo microonde per la commercializzazione (che però, essendo lui anglofono, si chiamava microwave): era alto poco meno di due metri, pesava circa 350 chili, aveva un sistema di raffreddamento ad acqua ed era molto più potente degli attuali “fornetti” che abbiamo in casa.
A partire dal decennio successivo, negli Stati Uniti, grazie anche a nuovi player che entrarono nel mercato rendendo l’elettrodomestico molto simile a quelli di oggi e all’abbattimento dei costi, il microonde ebbe un successo straordinario. Successo legato anche al boom dei surgelati che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, avevano invaso i supermercati statunitensi. In Italia, neanche a dirlo, fu sempre circondato da uno scetticismo che venne sdoganato solo negli anni Duemila. Vuoi perché noi italiani, quando entriamo in cucina, siamo parecchio restii alle innovazioni, vuoi per una serie di leggende metropolitane, poi smentite dalle evidenze scientifiche, legate al fatto che le onde magnetiche prodotte per cuocere i cibi possono essere nocive per la salute.
Nel tempo sono state aggiunte diverse funzioni – la possibilità di grigliare, di crispare, di cuocere come un forno ventilato – e oggi il microonde è quasi un sostituto più piccolo ed economico di un forno. Tutte queste piccole e apparentemente invisibili innovazioni apportate lo hanno fatto lentamente evolvere: come un pesce abissale rimane quasi mimetizzato nelle nostre cucine, mentre intorno a lui cambiano i device, le automobili, i tagli dei pantaloni, i programmi tv, le playlist.
Nel mondo che si muove intorno al microonde arrivano alla ribalta le estetiche vintage, nell’eterno ritorno e inseguimento delle mode; oppure, al contrario, alcuni elettrodomestici sembrano piombare da un futuro distopico: i tostapane e i frigoriferi riprendono le scocche tonde e colorate degli anni ‘60 o assumono le linee di monoliti d’acciaio. Non si può dire che il microonde non provi a cavalcare queste onde. Rimane però prigioniero della sua estetica dismessa ed essenziale: bianco, grigio o nero, lo sportello con il vetro leggermente opacizzato, le manopole o i comandi sulla destra, il tasto per l’apertura piatto e orizzontale.
Molti chef, o aspiranti tali, vi diranno che il microonde rovina i cibi o che, anche se non li rovina-rovina, distrugge la sacralità delle tradizioni in cucina – i gesti, i tempi, le attese. La verità è che se questo elettrodomestico non se n’è ancora andato (nonostante la competizione serrata dalle friggitrici ad aria) è perché continua a rispondere alla nostra necessità di fare le cose di fretta e anche in modo un po’ raffazzonato: perché è bello veder bollire l’acqua nel bricco di metallo; perché la pasta avanzata sarà sicuramente più buona riscaldata nel forno. Però la sera prima di andare a dormire, quando abbiamo voglia di una tisana dopo una giornata di lavoro di dieci ore, o la mattina, quando guardiamo i rigatoni freddi nel frigo alla fine una serata andata troppo lunga, il microonde è il nostro compagno più fidato. Un buddy che non ci giudica quando, in un mondo dopato dalla necessità di performare e di fare le cose al meglio delle nostre possibilità, vogliamo solo abbandonarci a un po’ di fredda fretta e sciatteria.