Il Ticino, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. E anche Cascina Caremma | Rolling Stone Italia
questa non è milano

Il Ticino, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. E anche Cascina Caremma

Quando scatta il weekend, per tutti è l'esodo via dalla città. In provincia di Milano c'è chi lo sa, ma che, seguendo il detto, ha lasciato che fossero i milanesi ad andare alla campagna. E che ha recuperato la tradizione delle storiche cascine lombarde

cascina caremma

Gli animali di Cascina Caremma

Foto: @cascinacaremma

Put Ticino on the map, ma non il quartiere che, all’ombra della Madonnina, abbraccia la Darsena. Parlo della pianura che fa tappeto attorno a Milano. Che a volta non si considera, forse, per la voglia che ha lo sguardo di salire verso le montagne, o di perdersi tra le linee dell’acqua del mare, di un lago, quando si pensa alla fuga. La città manca di grazia, si dice, porta a dividersi. Attorno a essa, però, ciò che le rimane ai confini può ancora farsi sincretico, unire ciò che è diviso: campi, colture, uomo; flora e fauna. Perché oltre le strade che corrono rapide ne arrivano di lente, di assolate o piene di bruma a seconda della stagione. Ci si perdono i “cittadini”, nel finesettimana. Vanno alla ricerca di qualcosa che forse manco sanno loro, ma spesso, per farlo, passano dalle parti di Cascina Caremma, a Besate.

cascina caremma

La facciata di Cascina Caremma. Foto: Elisa Teneggi

«Da noi di milanesi, di gente che sta a Milano, ne vengono tanti. Fanno il weekend spesso, si trovano in mezzo a una natura che quasi non si ricordavano. Li mettiamo davanti a una sorta di sfida, perché tutto quello che c’è qua rimane libero, polli compresi, per esempio. Lo vedi quello laggiù?» Gabriele Corti mi indica una casetta con le ruote, sopraelevata rispetto al livello del suolo. È in mezzo a uno spiazzo tra vari filari di vite. Oltre a noi, che siamo in Cascina Caremma nel Parco del Ticino, nella parte della provincia di Milano che spinge per diventare Piemonte, alcuni natanti guardano la stessa costruzione. Se la godono nella piscina esterna della Cascina. «Quello è il pollaio più fotografato d’Italia». E, se volessero, anche gli amici avicoli potrebbero unirsi al pool party.

 

 
 
 
 
 
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Sembra di perderla in città, questa meraviglia verso le cose. Corti è il fondatore di Caremma, e lo sa bene. Perché di solito, quando si parla di 120 ettari di terreno, te li sei trovati in mano. La passione te la fai venire per portare avanti le robe di famiglia. Lui, no. «Avevo dieci anni, il ricordo è quello di un pomodoro che mia nonna mi fece mangiare, l’avevano coltivato nella fioriera del paesino dove ero nato e cresciuto con la mia famiglia. Quel morso ha costruito un ponte tra terra e bocca, è arrivata un’emozione. È stato in quel momento che ho desiderato per la prima volta fare l’agricoltore, di stare a contatto con la terra e avere una mia azienda agricola. Solo che la mia non era una famiglia di contadini».

Manca dunque la cosa più importante: la terra. Ti davano del matto, vero, chiedo a Gabriele. Solo un matto potrebbe mettersi in testa di investire tutto in una giostra che, se va bene, inizia a diventare interessante solo dopo qualche giro. «Sì. Prima ho studiato Agraria all’università, ho fatto ricerca per un anno ma ho capito che non era il mio, che volevo letteralmente sporcarmi le mani. Così ho cominciato a fare il bracciante, lavoravo per un’azienda di tabacco di Vigevano». Sì, perché in Lomellina era di tradizione, usanza che oggi si è persa. «Da lì, sempre nella zona, ho cominciato a cercare aziende agricole in vendita. Che in realtà è strano trovare visto che di solito vanno per contatti, per sentito dire. Intanto avevo cominciato a lavorare in altre aziende agricole, a imparare». Siamo alla fine degli anni Ottanta, e Gabriele sta per trovare il suo colpo di fulmine: quello con Cascina Caremma, acquistata nel 1988.

cascina caremma

Foto: Michael Gardenia

Intanto passeggiamo come le galline della Cascina. Ce ne sono di livornesi, le uova sono bianche e si possono comprare nello spaccio aziendale. Non sono gli unici animali allevati (in stato semibrado). Ci sono maiali, o meglio, c’erano, ora a causa della peste suina sono in villeggiatura in tenute amiche e fuori dalla zona rossa di contagio. Ci sono bovini, Fassona piemontese per la precisione, e, anche se siamo in pianura, delle capre camosciate delle Alpi. Forse sono ingenua, quando chiedo a Gabriele se stiano bene da queste parti: e chi non ci dovrebbe stare, bene? In effetti assaggiamo il formaggio di Caremma – prodotto con il loro latte ma con l’appoggio di strutture amiche, prima fra tutte la vicina Cascine Orsine – e almeno noi, almeno per un attimo, bene ci stiamo proprio.

Di animali c’entrano anche le rane, in Caremma, anche se allevarle non accade ancora. Però si mangiano, da queste parti, nella pianura solcata dal fiume, e Gabriele, ché suonare gli piace eccome, in Cascina ci organizza da anni una sorta di festa di primavera, Prog & Frogs. In onore, appunto, delle rane (e della musica prog): «In sei o sette edizioni», mi dice con una (meritata) punta di fierezza, «abbiamo fatto passare da qui tutti i grandi reduci del prog italiano. Due o tre giorni di cibo e musica». Me lo racconta contento, anche se, deluso, un tantino lo è. Quando gli hanno fatto il nome di Rolling Stone Italia, non si aspettava di finire nella colonna dedicata al desco.

cascina caremma

Foto: Elisa Teneggi

Ma torniamo a quel 1988. Corti decide di fare il diavolo a quattro, e non solo, lo abbiamo detto, diventa il primo contadino della sua famiglia prossima, ma decide di farlo in biologico. «Siamo state tra le prime aziende in Lombardia a essere certificate bio, e la seconda in Italia per quanto riguarda il riso [la prima è, appunto, Cascine Orsine, ndr]. Siamo in una zona storica per la risicoltura italiana: subito il cereale era arrivato in Sicilia con gli arabi, ma si è dismesso abbastanza in fretta ed è stato recuperato secoli dopo da Ludovico il Moro, che l’ha introdotto attorno a Milano. Che è stata la prima zona d’Italia in cui si è coltivato, parliamo della fine del 1400».

«Comunque, dicevo, il biologico. Allora, essere biologico vuole dire tra le altre cose ruotare i prodotti, vuol dire collegare le proprie attività di trasformazione a quelle della terra, comprese quelle della cucina, che diventa dunque cucina agricola. Questa dimensione si lega anche a quella dell’essere un agriturismo. Siamo stati abbastanza all’avanguardia in generale sul piano nazionale, eravamo un agriturismo biologico prima che esistesse la definizione di agriturismo, nel senso che Regione Lombardia doveva ancora stilare la propria legge e i regolamenti per dire che cosa fosse nello specifico un agriturismo, quali caratteristiche dovesse avere. L’ho fatta io praticamente, certo eravamo a consultarci con tutti gli altri, ma come apripista nel campo eravamo un esempio autorevole. Quindi la Lombardia è stata l’ultima Regione a emanare il proprio regolamento relativo agli agriturismi [si parla del 2008, ndr], però l’ha scritto meglio degli altri, e poi gli altri sono tornati indietro e ci hanno copiato. Questo per dire che abbiamo sempre puntato a standard qualitativi altissimi, e che dentro questo computo, in Caremma, ci annoveriamo anche il fatto di avere una percentuale altissima di autosufficienza alimentare: l’80%. Alcuni colleghi arrivano al 40%, la maggior parte fa fatica a raggiungere il 20%».

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I vini di Cascina Caremma. Foto: Elisa Teneggi

Intanto, sulla pianura, che è ben aperta, le persone vanno e vengono. Passano soprattutto gli amici di Gabriele e della moglie, che sapendoli lì, appunto lontani ma a tiro di schioppo dalla città, li vanno a trovare spesso, soprattutto al weekend, quando si finisce a bere, mangiare, stare insieme le ore. «Ho pensato che fosse un business model: la scampagnata domenicale fuori porta, molto adatta alla fascia d’età in cui mi trovavo in quegli anni. Ora lo fanno tutti e sembra banale, una volta non lo era».

Come banale non era l’area benessere di Cascina Caremma, ricavata in quello che una volta era il cuore pulsante della tenuta: la stalla della mungitura. Gabriele ha studiato: «La cascina lombarda ruotava attorno alla mucca e al suo latte. Per questo, ed è vero ancora oggi, i mungitori erano gli operai più specializzati e meglio pagati. Basti pensare che dal latte ci ricavi anche il siero oltre ai formaggi, e il siero lo puoi usare per fare la ricotta, ma finisci ad averne così tanto che devi trovare altri utilizzi e allora lo impieghi per allevare i maiali. E intanto in tutto questo il letame sta concimando i tuoi campi, che ti serviranno anche per dare da mangiare agli animali. In Cascina tutto si tiene. È un cerchio governato dal sole».

 

 
 
 
 
 
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Nemmeno nella zona benessere la “coesione”, per non dire “circolarità”, manca. «Potremmo ordinare prodotti di ottime marche come fanno tutti, invece preferiamo andare da un produttore di cosmetici e dirgli: queste sono le mie erbe, la mia lavanda; mi ci fai, per esempio, una crema?»

C’è qualcosa di antico in questo, che Gabriele definisce “museale”. A tutti gli effetti, archeologia è quando decidono di piantare da zero una vigna in un territorio di certo non considerato vocato né dall’enologia, né dalla viticoltura. «Abbiamo trovato delle carte che ci dicevano che qui, tra Settecento e Ottocento, c’erano delle viti. Delle viti maritate, ovvero fatte abbarbicare attorno a piante da frutto così che l’una avesse il sostegno dell’altra, e che ci fossero incidentalmente più prodotti. Il vitigno coltivato era la Freisa [tipicamente associato al Piemonte, ndr], e così è questa che abbiamo piantato».

 

 
 
 
 
 
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La vinificazione avviene poi sempre in Caremma. La segue Pietro Corti, secondogenito di Gabriele. Quattro i vini prodotti, per un totale di circa 2.000 bottiglie. «Anche se io», dice Pietro, classe ’97, «vorrei fare sempre meno per concentrarmi di più sulla qualità. Non abbiamo bisogno di over-produrre». Freisant, Caremma, Mès e Mas, Rosèlin: un metodo ancestrale, il Freisant, un Rosato fermo (Rosèlin), due rossi fermi, una sola Freisa. Sono certificati, oltre che come prodotti del Parco del Ticino, anche dalla DeCco, attestazione attribuita da un Comune per riconoscere, promuovere e tutelare i prodotti agroalimentari e artigianali, locali e particolarmente caratteristici del proprio territorio. «Era stata un’idea del Veronelli. È una sorta di riconoscimento per quanto si fa per recuperare e mantenere vive le varianti locali del prodotto».

Mentre ne stappiamo una (di Freisant), in norcineria si stanno legando salami “cresponi”. «Praticamente», racconta Mario, norcino di Caremma da dieci anni, «dentro c’è anche carne di scrofa», non solo di maiale. «Così prendono un colore più rosso naturalmente, e un sapore più intenso».

 

 
 
 
 
 
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Salumi che, crespone o non crespone, ritroviamo poi nel menu del ristorante agricolo di Cascina Caremma, che parte dai prodotti della terra e si rende versatile per i vari momenti della giornata – «ma anche matrimoni e adii al nubilato», specifica Gabriele, e per chi vuole fermarsi a dormire, dieci camere di varia capienza.

È nel 2017 che arriva una controparte “gourmet” – «anche se a me non piace quella parola», sic Gabriele. È il ristorante Il Filo di Grano nella vicina Morimondo, lo zampino è quello di alcuni finanziamenti speciali messi a bando per il Giubileo del 2000. Si tratta di rimettere a posto e prendere in gestione un albergo attaccato all’abbazia del borgo. I Croci partecipano, vincono, lo fanno. E poi, nell’anno dell’Expo di Milano, lo scatto: si inizia a inserire una ristorazione prima più informale, poi più strutturata, anche perché nel frattempo tutti vogliono farsi la fuitina (o il team building) a portata di mano dalla città, nelle campagna da cui sembra che Milano non debba tornare mai più.

il filo di grano

Uno dei piatti del Filo di Grano. Foto: Michael Gardenia

Arriva un altro bando, lo vincono di nuovo. È fatta. Quello che non cambia è il legame del prodotto di Caremma con il piatto servito al cliente. Anche se, certo, ammette quasi a malincuore Gabriele, che però le dinamiche della gola le capisce: «Al Filo di Grano proponiamo anche piatti che contengono ingredienti che non sono strettamente del territorio, come per esempio il pesce di mare. Però lo scegliamo comunque ligure, la Liguria è da sempre il mare dei milanesi. Lo selezioniamo scrupolosamente per la qualità e cerchiamo di scegliere la strada più veloce».

il filo di grano

Tommaso (a sinistra) e Pietro (a destra) Corti. Foto: Michael Gardenia

E se Pietro segue di più la Cascina, Tommaso, suo fratello maggiore e classe ’95, si occupa maggiormente del Filo di Grano. Perché in fondo, ora che la terra c’è e il padre è un vulcano di idee, qualcuno gli dovrà tenere il passo. In cucina c’è invece Marco Caironi, la brigata è minimale e la divisione in stazioni non va di gran moda. Una sorta di gioco che si ritrova nelle proposte, disinvolte tra pomodori piastrati; Anguria, carpaccio di capasanta, gazpacho giallo e acetosella (l’anguria è salata, una hit); tagliolini su cui spuntano acciughe; e, immancabilmente, un Risotto Arborio (questa la varietà coltivata in Caremma) che “fa il limone”, tira l’acido senza riempire il fondo del piatto di strane sfere. Il che, se vi siete seduti al tavolo di un qualche fine dining di recente, è già un sospiro di sollievo.

il filo di grano

Mario Caironi. Foto: Michael Gardenia

Allora forse è perché nel novero di quei milanesi che vengono a curiosare nel weekend ci siamo anche noi; forse è perché questo Freisant corteggia proprio bene; ma la sensazione, quando arriva il momento del ritorno, è di essere riusciti a risentirla, quella meraviglia. La stessa che, nel 1988, ha portato Gabriele Corti a decidere che questa pianura scriteriata, ricca di storia e di segreti, sia qualcosa da proteggere. O meglio, per dirla una po’ alla Milano: Cascina Caremma, se non ci fosse, bisognerebbe inventarla.

Altre notizie su:  Agriturismo Cascina Caremma milano