«Ognuno dà il significato che vuole alla parola successo». Lucida, onesta, è con questa frase che Alexander Agethle ci accoglie nel suo maso Hofkäserei Englhorn. Siamo in alta Val Venosta, a Clusio, pezzo di terra affusolato fatto di valli alpine e meleti che dall’Alto Adige ci porta in Svizzera, con ultimo avamposto il campanile sommerso di Curon.
Sì, perché per Alexander il successo non si misura in dimensioni, quantità, profitti. Ma in benessere mentale, rispetto del territorio, felicità personale, familiare e animale. Potrebbero affibbiargli la definizione di contadino moderno, ma forse sarebbe più appropriato definirlo atipico. Per costruirsi la sua attività ha dovuto distruggere quella che i suoi genitori e la sua famiglia portavano avanti da decenni e decenni, tradendo inizialmente la fiducia del padre e trovando una serie di dure opposizioni da parte dei colleghi.
Ci vuole testardaggine e grande fiducia in sé stessi per rimettere tutto in gioco, ma Alex è una di quelle persone che, quando ha un’idea, la porta avanti con forza, anche e soprattutto grazie al sostegno della moglie Sonja. Lui è senza mezzi termini, vuole andare dritto al sodo e farci assaggiare i suoi formaggi. Lei invece lo sgrida, perché nell’entusiasmo non ha notato che ci ha preparato del pane (infornato proprio da lei con la loro farina) e del succo. L’equilibrio, in fondo, è tutto, nei gusti come nella vita.
Ma facciamo un passo indietro. Il maso Englhorn appartiene alla famiglia Agethle da oltre 200 anni. Su un lato del maso scorre il Rio Metz, un immissario dell’Adige. Deciso e sicuro, è un suono bianco costante. Qualcuno potrebbe perderci la testa in questo incedere infinito che annulla il silenzio, ma per altri – ed è il caso della famiglia Agethle – questo suono è casa, un reminder quasi meditativo del fatto che la natura prosegue sempre il suo corso al di là di ogni possibile intervento umano.
All’interno del maso, sulle pareti, i campanacci vinti dal padre allevatore tra concorsi e mostre. Là dove vent’anni fa Alex ha iniziato a produrre formaggio, ora fermenta la birra artigianale di suo figlio. Il nuovo laboratorio è stato spostato in una struttura adiacente (una ex latteria sociale oramai in disuso) che Axel è riuscito ad acquistare grazie al crowdfunding. Il caseificio usa il finanziamento dal basso anche per la vendita dei propri formaggi: attraverso un processo di prevendita permettono agli investitori (oltre 180) di assicurarsi una fornitura di formaggi per gli anni a seguire attraverso l’acquisto di appositi buoni, qui chiamati Englhörner (“di Englhorn”).
«Mio padre era deluso perché pensava di aver sbagliato tutto ciò che aveva fatto nella sua vita», ammette Alex ripercorrendo la propria storia. Che, come tutte quelle che si rispettino, comincia con una fuga: dal suo paese prima verso la città, Firenze, dove studia Scienze agrarie, e poi in giro per il mondo. Arriva fino a Los Angeles, a Palm Springs, dove si ritrova a vivere da un amico che di lavoro fa il chirurgo plastico per le star di Hollywood. Si prende cura dei suoi cavalli e, così per non farsi mancare quel pizzico di follia tutta americana, anche a un lupo. Nel mezzo viaggi, ricerche, esplorazioni (spesso sulle Alpi e negli alpeggi, per cui continua a ribadirci il suo grande amore).
Tutto è abbastanza, a un certo punto, per sentire la mancanza di casa e tornarci con l’idea che le cose possono essere cambiate con gli occhi di chi ha visto, studiato, imparato. Vendute le amate mucche da competizione di famiglia, Alex decide che la sua vita contadina deve ripartire dalla propria terra, in tutto e per tutto, e investe così in vacche di razza bruna (la Parda alpina altresì detta bruna originale Svizzera, di cui per scelta non taglierà le corna), specie in via d’estinzione tipica della Val Venosta scomparsa dai pascoli negli ultimi 50 anni. Tutto bene direte; e invece, l’inizio dell’avventura di Alex è piuttosto disastroso. Altro che Hollywood.
«Ho chiamato un mio professore dell’Università e gli ho chiesto perché c’era un problema con questa razza. E lui mi ha spiegato che, essendo oramai scomparsa dal territorio, avrei dovuto aspettare la nascita dei vitelli per avere di nuovo delle bestie autoctone e adatte a queste terre». La produzione di latte, rispetto al padre, scende così da 90-100 quintali ai 50 di oggi. Come contraltare, le spese stellari sostenute del padre per l’acquisto di frumento (importato da varie parti del mondo visto l’abbandono della produzione in zona) crollano, sostituite da un approccio alimentare basato su fieno ed erba locale. «Le mucche non devono essere dei nostri competitor sul cereale. Il frumento è per l’uomo, non per l’animale», spiega. «E parlo di locale e non di biologico, o sostenibilità, perché sono termini oramai troppo ampi in cui vale tutto e niente. Sono abusati».
Alex, per queste ragioni, nelle sue terre coltiva farro monococco, farro dicocco, avena nuda e frumento di montagna. «Abbiamo un piccolo mulino e con questi cereali facciamo il pane per la nostra famiglia. Il resto lo vendiamo a un panificio qui vicino. Ma la cosa fondamentale è la paglia, per noi una grane risorsa. Con paglia e letame facciamo il compost, il fertilizzante organico migliore che ci sia». E aggiunge: «Il lavoro principale di un agricoltore è mantenere o migliorare la condizione della terra. Così ho delle piante più sane, un foraggio di qualità e, di conseguenza, un latte di qualità».
Sonja ci fa sedere a un tavolo fuori dal laboratorio. Ci offre del succo fatto in casa. Rimprovera nuovamente Alex per averci fatto assaggiare i loro formaggi senza il pane. Ne fa portare ancora, di formaggi. I prodotti del caseificio da sempre sono solo tre («questa società vive di novità, ma quando i clienti mi chiedono se farò qualcosa di nuovo rispondo che preferisco fare qualcosa di buono»), tutti prodotti a latte crudo, e prendono i nomi dalle cime delle montagne che ci circondano.
C’è l’Arunda, a pasta molle; il Tella, a pasta semidura; e il Rims, lo stagionato. E forse qui la pace tra padre e figlio arriva, perché là dove il Signor Agethle vinceva campanacci, Alex si è aggiudicato varie onorificenze tra cui una serie di Italian Cheese Award e il World Cheese Award nel 2010 con l’Arunda. «Ma ora i premi non mi interessano più. All’inizio servono per farti conoscere, poi perdono di valore», ammette. Noi assaporiamo, lui ci spiega un’altra parte fondamentale della sua filosofia agricola: «Tutto qui funziona a cicli, che dobbiamo chiudere affinché non ci siano sprechi. Questa è la cosa che conta davvero per me».
Le mucche di Alex, poco più di una decina, oggi non ci sono. A fine giugno hanno lasciato la loro stalla a stabulazione libera («non me la sentivo di tenerle legate») direzione alpeggio, dove staranno fino ai primi di settembre. Poi dal loro latte, nella malga, verrà prodotto formaggio duro. Bella vita la loro, là sulle montagne a far villeggiatura. Oltre a essere una questione di tradizione, e di variazione nella loro alimentazione (lassù si compone di una varietà di erbe aromatiche e nutrienti), l’idea di affidarsi agli alpeggi è anche una questione di salute mentale. «Non posso fare questo lavoro 12 mesi all’anno. E nemmeno voglio», ammette con un sorriso Alex. «Voglio potermi riposare, viaggiare, godermi la famiglia. L’alpeggio mi permette questo. Penso che l’attenzione al nostro benessere mentale sia più importante di quanto produciamo e degli introiti che portiamo a casa».
«Tu sei un pazzo» è una frase che Alexander ripete spesso mentre ci racconta la sua storia e ci mostra il suo laboratorio, la sua stalla, la sua casa. «Tu sei pazzo» è la frase che gli hanno ripetuto i genitori, i colleghi, gli altri lavoratori con cui si è interfacciato, ma anche Maximilian Eller, il casaro che da 20 anni è al suo fianco nella produzione («ci sentivamo quand’ero in California. Ci eravamo promessi che al mio ritorno avremmo iniziato a lavorare assieme»). Questo perché quando si vuole cambiare qualcosa di così radicato nella nostra cultura si è considerati folli, o come dice Alex, pazzi. Ma per fortuna è proprio grazie alla pazzia (ma anche la voglia, l’incoscienza, l’allegria, per citare) che possiamo trovare una risposta alternativa a quei sistemi di produzione intensivi, e spesso nocivi, che sembrano ancora essere l’unica realtà di oggi.
E chissà che in alpeggio non ci sia posto anche per noi.