I matrimoni sono la quintessenza dello stucchevole, o almeno così è per la sottoscritta. Ma mentre in Italia ci imbattiamo in questa forzatura continua che in primavera/estate raggiunge il suo picco massimo, provando la nostra resistenza psichica ad ogni WhatsApp che ci ricorda l’avvicinarsi del giorno fatidico, nella comunità bengalese di Roma le cose viaggiano su altri binari, sia per quanto riguarda le usanze che per quanto riguarda, ovviamente, l’aspetto gastronomico.
Chiariamo subito: il matrimonio vero e proprio si è svolto alcuni giorni prima della festa al ristorante. E qui ci si presenta l’occasione di dire alcune cose sulla costruzione dei matrimoni bengalesi, che prevedono tutta una serie di rituali codificati che coprono un arco temporale lungo anche settimane. Si comincia dai riti pre-matrimonio come l’ufficializzazione formale del fidanzamento e la negoziazione della dote, passando per l’abbandono da parte della sposa della casa in cui è cresciuta per dirigersi verso quella futura (il Bidaai, che traduce manco a farlo apposta con ‘addio’), nonché l’ingresso nella nuova (il Griha Pravesh, letteralmente ‘entrando in casa’), dove alla sposa vengono regalati bracciali bianchi e rossi in segno di benvenuto mentre lei cucina del riso alla nuova famiglia per ricambiare l’accoglienza. Nel mezzo, lo sposalizio con relativo scambio di anelli e di ghirlande in segno di amore reciproco, canti e preghiere, per concludere con la festa di ricevimento, il banchetto appunto, esteso a parenti e amici.
La prima cosa a spiazzare è la location: il ristorante in cui si svolge il matrimonio non è apertamente bengalese ma si dichiara cugino di secondo grado (forse per la volontà di aderire a una proposta più mainstream). L’insegna recita “Ristorante Indiano”, una faccenda che mi è capitata di riscontrare altre volte mangiando in ristoranti dichiaratamente indiani per poi scoprire invece che erano di proprietà di un bengalese e che proponevano in realtà cucina del Bangladesh.
Seconda bizzarria – ma poi a ripensarci nemmeno così bizzarra –, lo sposo si presenta in Lamborghini sgasando davanti al ristorante. Sceso dalla macchina la sua marcia viene arrestata all’ingresso del locale da tre donne, parenti della sposa, che gli bloccano l’entrata, da capo a capo, tenendo un lungo filo di fiori rossi finti. La scena – che sembra uscire da un classico del cinema comico d’altri temi, un Matrimonio all’italiana in salsa bengalese – vede lo sposo costretto a pagare per poter accedere alla sala, prima cinquanta euro, poi altri cinquanta e infine ancora altri cinquanta, con cui compra finalmente l’ingresso al suo matrimonio e delle forbici con cui tagliare il filo.
La sposa attende seduta su un divano, e sorride pazientemente a ogni invitato che arriva a fare le foto con lei. Le mani che stringono e abbracciano quelle degli invitati sono dipinte, secondo il Bridal Mehndi, ossia la pratica ornamentale in cui mani, avambracci, piedi e caviglie vengono decorati con l’henné. Nei motivi ricorrono fiori, animali, geometrie, nonché l’iniziale del nome dello sposo per creare la giusta intimità tra i due una volta soli, mentre lui inizia a cercare la propria iniziale sulla pelle di lei. Un’altra credenza popolare vuole anche che più il colore della pittura a henné sia rimasto vivo sulla pelle della sposa dal Bridal Mehndi al giorno del matrimonio, migliore sarà il rapporto di quest’ultima con la suocera (ennesima conferma che, gira che ti rigira, tutto il mondo è paese).
Prima di entrare nel vivo della festa facciamo un passo indietro ancora e vediamo un’altra usanza che generalmente si svolge dopo il Mehndi e prima della festa di matrimonio: «gli sposi sono seduti insieme a un banchetto nell’attesa che ogni ospite arrivi a imboccarli per poi spalmargli un po’ di curcuma sulla pelle. È il Gaye Holud». Questa curiosità me l’ha raccontata il regista romano Phaim Bhuiyan: le sensazioni di quella giornata mi hanno riportato alla mente il suo film autobiografico Bangla, che gli ha fatto aggiudicare un David di Donatello nel 2020. A Bangla è seguita una serie omonima su Netflix e un progetto incentrato proprio sulla cucina dal titolo Bangla Kitchen, disponibile su YouTube. Chi meglio di lui poteva raccontarmi qualcosa di più di questo un universo di profumi, colori e sapori?
Il Gaye Holud è un rituale che ha uno scopo benaugurale e purificante per i futuri sposi. Si svolge in un’atmosfera di gioia data sia dalla collettività del gesto di augurio che dalla predominanza del colore giallo presente nelle luci e nei tendaggi che ornano l’ambiente, mentre a terra vengono realizzare le decorazioni Alpana con pasta di riso macinata e colorata, un’arte prettamente femminile che si tramanda di generazione in generazione e simboleggia sia la vittoria della luce sulle tenebre, sia l’allontanamento dei demoni. Nel Gaye Holud viene poi offerto un dolce o un po’ di frutta agli sposi con l’augurio che anche la loro unione si riempia di dolcezza.
Ma torniamo al pranzo, dove è attesa la bellezza di cinquecento invitati. Non vanno immaginati tutti insieme, per tutto il pomeriggio: quello che va in scena è infatti un viavai continuo di gente che si alza, si siede, saluta, parla e mangia. Un pot-pourri coloratissimo di persone, con le donne nei loro sari che si confondono ai festoni, alle decorazioni e ai tendaggi rossi della sala.
Arrivati a tavola noto l’assenza di posate e mi diventa subito chiaro che si mangerà rigorosamente con le mani, «una cosa che dà proprio un sapore diverso al cibo», come ribadisce Phaim, una sorta di pratica di ampliamento della sensibilità gustativa. Mangiare con le mani permette inoltre di approcciare il cibo utilizzando un quarto senso, quello del tatto appunto, che sentendo consistenza e temperatura di ciò che si sta portando alla bocca ne dà un’esperienza a trecentosessanta gradi. Ovviamente, nei Paesi di religione musulmana si utilizza solo la mano destra perché la sinistra viene considerata impura.
A tavola – oltre a Tikiya Kebab, che niente hanno a che fare con il noto street food mediorientale ma sono delle tipiche polpette di manzo fritte –, Biryani di pollo e di manzo e altre pietanze che servono a smorzare la piccantezza delle portate principali, come un’insalata di cetrioli crudi tagliati a rondelle e un’insalata di verdure sempre crude tagliate finissime. Il piccante è un qualcosa di totalizzante nella cucina del Bangladesh, una presenza che scalda il cuore, anestetizza la bocca e infiamma l’esofago, un po’ come la ‘nduja nella cucina calabrese.
«Alla fine il Bangladesh è paragonabile al sud Italia e alla Calabria, penso ci sia una stretta correlazione. Oltre al peperoncino però c’è un ventaglio enorme di spezie: le più usate sono curcuma, cumino e paprika». Per quanto riguarda la portata principale, ossia il Biryani, oltre che di pollo e di manzo si può fare anche di montone, e in quel caso «agli sposi viene fatto il piatto più grande in cui è servito l’intero montone come se fosse una specie di porchetta». Il Biryani – parola che deriva dal persiano e significa ‘fritto, arrosto’ – è un piatto diffuso in tutta l’Asia del sud, e ogni Paese ha la su ricetta. Nella versione del Bangladesh gli viene aggiunta la parola Kacchi (‘crudo’) diventando così Kachichi Biryani: per preparare il tipico piatto delle feste tradizionali bengalesi bisogna inserire gli ingredienti insieme (riso, carne e spezie) dentro una pentola di argilla sigillata con un impasto di farina, da crudi. Solitamente riso e carne si cuociono separatamente per essere poi assemblati insieme, mentre nel caso del Kacchi si amalgamano in un’unica cottura al vapore cuocendosi in modo omogeno dopo essere disposti a strati uno sopra all’altro con il riso al vertice. Il Kacchi Biryani non è solo un piatto del menu delle feste, ma è Il Piatto per eccellenza dei grandi avvenimenti della cucina bangladese. Potremmo dire che un banchetto di matrimonio bengalese è incompleto senza Kacchi? Si, senza alcun tipo di pudore.
Accanto ai piatti è presente una caraffa di yogurt molto liquido, che all’inizio non capisco se sia una bevanda o un condimento dal sapore incomprensibile al mio palato. Chiedo a Phaim: «si tratta del Bhorani, quando l’ho bevuto anch’io pensavo fosse dolce invece è piccante, ci sono proprio dei pezzetti di peperoncino dentro. Può aiutare la digestione e fa bene, ma io appena ho fatto un sorso non me la sono più sentita. Diciamo che riproverò». A quanto pare non basta nemmeno un palato di seconda generazione per un sapore così intrinsecamente bengalese. Il menu che ci viene presentato è essenziale ma rappresenta quello tipico di una celebrazione, senza antipasti, primi o secondi: un mix di sapori che si assemblano in parallelo.
Sul tavolo ovviamente il vino è assente poiché l’Islam lo vieta e la maggior parte dei bengalesi è di religione musulmana, ma a fine pasto l’ebbrezza arriva dal Paan. Una foglia di Betel, pianta originaria del Sud-est asiatico nella quale viene inserita una simil noce moscata (la noce di Areca), a cui vengono poi aggiunte delle spezie e della calce. Non proprio una cosa da provare tutti i giorni, visto che – come riportato dall’American Chemical Society – pare che in grandi quantità sia cancerogena. In India per non farsi mancare proprio nulla l’hanno declinata in versione flambé, il Fire Paan, che si mette in bocca mentre le foglie sono ancora in fiamme.
Dulcis in fundo, perché pure nei matrimoni bengalesi la conclusione è affidata al dolce, mangiamo un riso cotto insieme a Ghee con spezie (cannella, cardamomo, chiodi di garofano, zafferano, curcuma) e frutta secca (uvetta e anacardi). Phaim aggiunge che a fine pasto possono essere serviti anche i Mishti, o il variegato di Mishti, «dolci generalmente fritti e poi congelati con una consistenza molto morbida. Sono molto simili tra di loro, lattiginosi e sciroppati con lo zucchero. In alternativa il Jalebi, girelle fritte in olio bollente e ricoperte di caramello».
Dopo un paio d’ore ero già a casa, una vera e propria sorpresa pensando a quei sequestri di persona che sono i matrimoni all’italiana. Forse la cosa che ho invidiato di più, e invidierò per sempre, alla cultura bengalese.