C’è chi lo ama, chi lo odia, chi lo ritiene divertente, chi crede che dia mal di testa compulsivo e pulsante; chi ride e chi si mette le mani nei capelli; chi, addirittura, non l’ha mai visto. Stiamo parlando di Everything Everywhere All At Once dei The Daniels, il film più dibattuto, polarizzante, e premiato dell’anno. Che ci ha regalato una Jamie Lee Curtis arcigna e irresistibile esattrice del fisco e che ci ha costretto a sopportare sequenze citazionistiche che Tarantino, al confronto, pare un conservatore dell’immaginario. In tutto questo Tutto, tutta questa confusione, però, un centro di gravità c’è, e ben permanente nella cultura occidentale attraverso i secoli e le tradizioni. Si tratta, immancabilmente, di qualcosa che si mangia. Più nello specifico, di un bagel. Perché, se metti Tutto su un bagel, il centro collassa, si apre il multiverso, e poi sono guai.
Ma, per cominciare dall’inizio: Everything Everywhere All At Once è la storia di Evelyn (Michelle Yeoh) e del complicato rapporto con la figlia Joy (Stephanie Hsu) in un momento cruciale delle vite di ognuna: la crisi, e la ristrutturazione che ne segue. Titolare di una lavanderia a gettoni che gestisce con l’indolente e pasticcione marito Waymond (Ke Huy Quan), Evelyn vorrebbe solamente ricominciare da capo, prendere scelte diverse, non ritrovarsi nel nodo di frustrazione che è la sua esistenza. Joy, invece, è afflitta dalla paura di ogni adolescente: deludere tutti, non essere chi la famiglia vorrebbe. Tanto più che si è innamorata di una ragazza, e nella cultura cinese, da cui la famiglia proviene, questo non è esattamente ben visto… ed è qui, all’incrocio delle paure e delle ansie del mondo, che arriva l’esplosione. Da qui che madre, padre e figlia dovranno cominciare per ritrovarsi, e ripartire dall’amore che li lega. Anche se ciò significasse esplorare tutte le possibili versioni di sé in una cifra di universi e sconfiggere un supercattivo, Jobu Tupaki, trasfigurazione guerresca di Joy e del suo casino adolescenziale. Ok, tutto bello. Ma che cosa c’entrano i bagel?
Ce lo spiega Jobu Tupaki stesso, nella scena-madre del film: «Ho messo tutto su un bagel. Tutto. Tutti i miei sogni e le mie speranze. Le mie vecchie pagelle, tutte le razze di cane, tutti gli annunci di Craigslist, sesamo, semi di papavero, sale. Ed è collassato su sé stesso. Perché, quando metti davvero tutto su un bagel, diventa questo (cioè, il multiverso, Nda): la verità. Nulla ha importanza». Il bagel ripieno di tutto, dunque, è una metafora: dell’essere pienah dei protagonisti, del loro collassare su sé stessi. Perché, se metti tutto su una superficie limitata di spazio, spiegano i registi in un’intervista a Vulture, potrebbe crearsi un buco nero, e l’universo ne verrebbe risucchiato, creando un accesso ad altri universi paralleli. È fisica un po’ pop, e per farsi un’idea più dettagliata bisognerebbe leggersi le teorie sul Realismo Modale di David K. Lewis, che propone l’esistenza reale del multiverso (cioè, degli universi paralleli). Vabbè, un’altra volta. Diciamo che, per fare la metafora, il bagel funziona. Ma perché proprio un bagel e non, che so, un bel filone di grano duro italiano, una pita mediorientale, o un panino bianco al vapore cinese?
Be’, perché, innanzitutto, il bagel è circolare, senza inizio né fine. Proprio la forma che un bell’infinito dovrebbe avere (per rimanere nella metafora). Poi, perché il bagel è un must-have nella dieta quotidiana degli americani, e la sua storia è la più americana che ci sia: parla di integrazione, contaminazione, e antiche tradizioni mutuate dal Vecchio Continente. Sulle origini, però, le opinioni sono diverse. La prima ipotesi, come sempre, è quella mitica. E vorrebbe che il bagel sia inventato nella Polonia del 1683 come omaggio al principe Jan Sobieski, che fermò l’avanzata dei Turchi su Vienna. La Storia, dall’altra parte, confuta questa diceria. E ci ricorda che – come sottolinea Maria Balinska nel suo volume The Bagel: The Surprising History of a Modest Bread – le panificazioni di forma circolare sono sempre state diffuse in tutta Europa, e oltre: dai taralli italiani alle girde di etnia uigura (Cina), e poi ancora in Polonia con gli obwarzanek, in Spagna con il roscón de Reyes e in Germania con i Pretzel.
Proprio da questi ultimi potrebbero essersi originati i bagel contemporanei, attraverso la commistione di tradizioni germaniche con quelle polacco-israelitiche degli ebrei di diaspora ashkenazita (stanziatisi, cioè, nell’Europa centro-settentrionale), che avrebbero attribuito al bagel un significato di buon auspicio, rendendolo quindi, in prima battuta, un pane di festa e di “occasione”. In seguito, sarà con questo gruppo sociale che il bagel sbarcherà nel Nuovo Mondo, spogliandosi progressivamente del suo mistero religioso, occidentalizzandosi e facendosi presto simbolo gastronomico della Grande Mela grazie alle sue numerose comunità ebraiche. Pronto a conquistare il cuore – e il palato – dei suoi abitanti. Meglio se a colazione, farcito salato con uova, salmone, bacon o formaggio. Soffice ma compatto, maneggevole, delizioso. Lo “scone americano” era arrivato, e non temeva rivalità con i corrispettivi di Mamma Inghilterra.
Ci piace quindi immaginare un bagel joint di New York, minuscolo, nel servizio rapidissimo, aromatizzato dalle briciole tostate del pane in preparazione (magari, selezionato da questa mappa interattiva). Seduti ai tavoli, o in strada, i Daniels. Amano i bagel, pensare che potrebbero diventare buchi neri li fa ridere – d’altronde, lo ammettono anche loro (sempre a Vulture): l’idea del bagel era una boutade, è diventata un film – e buttano giù, tra polvere, morsi e asfalto rovente, le prime pagine di sceneggiatura di Everything Everywhere All At Once. Ma non sarebbe abbastanza: perché c’è un ulteriore nesso che lega questo pane col buco a EEAAO. Il nesso sta proprio nel titolo del film: “everything”. Perché un bagel lo puoi ordinare condito sulla superficie con, per esempio, semi di sesamo, di papavero, o magari senza niente. Oppure, lo puoi chiedere con tutto: signore e signori, ecco a voi l’Everything Bagel.
Non fatevi ingannare, però. Il “bagel con tutto” non è radicale come la creazione di Jobu Tupaki. Non ci troverete i rimasugli di Craigslist, né le vecchie pagelle, né tristezza o depressione esistenziale (in effetti è molto, molto più probabile che uscirete dall’esperienza arricchiti, se non nello spirito, almeno nello stomaco). Non vedrete nemmeno ogni possibile spezia disponibile al supermercato, come nel video di Binging With Babish – se siete dei freak di video di cucina, scrollate il canale, moriteci dentro, poi tornate qui a ringraziarmi. Il vostro bagel vi si presenterà, al contrario, con un bel mix di semi e odori, per esempio pepe, paprika, insomma, ognuno poi ha la sua ricetta. E, se della paternità del primo bagel della Storia non si hanno notizie, così non è per l’Everything bagel, che vede i propri natali contesi tra Seth Godin (tra gli altri) e Joe Bastianich, che, al Washington Post, ha affermato di aver avuto l’intuizione di mettere “tutto” su un bagel in una felice coincidenza tra un episodio di fattanza e la mentalità del “Restaurant Man”. La leggenda continua.
Alla fine, però, questa è lana caprina. Quello che a noi interessa è che, ed Everything Everywhere All At Once lo dimostra con efficacia, la nascita del bagel precede quella del Tutto. E che una nuova religione potrebbe costruirsi facilmente attorno a questo lievitato sexy, elegante, misterioso. Basterebbe capire un cincinnino di più tutta quella roba del Realismo Modale, della possibilità concreta che mondi paralleli esistano, proprio qui, tutti qui, dappertutto, tutti insieme. Ma io non ho voglia di studiare. Vado a rivedere il film, sia mai che ci cavi qualche ragno, da quel buco di bagel, questa volta.