«Seppia cruda e tartare di pecora»: così ho risposto alla redattrice del mensile La Cucina Italiana che, durante l’ultimo congresso di cucina Identità Golose, chiedeva al pubblico l’abbinamento più stravagante provato nella vita. Le interviste volanti prendevano spunto dal tema della kermesse che recitava: «Non esiste innovazione senza disobbedienza». Lieta di aver visto, finalmente, il termine “innovazione” slegato dalla polverosa “tradizione”, appioppatagli troppo spesso negli ultimi anni, lo spunto si è rivelato piuttosto interessante: cosa significa, quando si parla di food and beverage, disobbedire? Per capirlo, durante il convegno ho assaggiato cose (e visto gente) che uscivano dagli schemi, sovvertendo leggi più o meno scritte.
Ho bevuto Casa Maria, rivisitazione del Bloody Mary firmata per Casa Marrazzo da Alfonso Califano (Cinquanta Spirito Italiano a Pagani, Salerno): sciroppo e acqua di pomodoro San Marzano, Tabasco (fin qui, tutto bene) e vodka alla provola (sbam!), ridistillata con il latticino affumicato tipico campano. Ho assaggiato pane, burro e zucchero, dove il “burro” era un gelato mantecato Carpigiani e lo “zucchero” due germogli Koppert Cress: Dushi Buttons, fiorellini dolci dall’aroma di menta, e Honny Cress, crescione dai sentori di miele. Ho visto l’allevatore di galline livornesi Paolo Parisi sgocciolare da un vaso gigantesco un uovo sodo marinato in una salamoia al vermouth Strucchi. E ho scoperto che esiste una mortadella con gli asparagi al posto dei pistacchi (Tony Scalioti per Molino Fagioli, sulla pizza preparata con SinTre, sfarinato di grano duro, tenero e segale).
Con la pizza, c’è chi ha stupito anche di più: Iginio Massari, salito sul palco per Molino Dallagiovanna insieme al digital strategist Riccardo Pirrone (e già qui “oh!” di meraviglia) portando in dote una “gourmet” al padellino con impasto al caffè. Ohibò, Maestro, che mi combina? «Di pizze gourmet, che poi sono focacce, se ne possono presentare almeno una decina, non solo curiose ma anche buone», afferma sicuro di sé il decano dei pasticcieri italiani. Che prosegue spiegandomi come l’acido del caffè si bilanci con la basicità del latticino, in questo caso la stracciatella che guarniva la pizza insieme ad alici e foglie di cappero.
A questo punto, la curiosità è tanta: cosa scatta nella testa di un professionista quando si inventa di abbinare, come propone ancora Massari, la massa di cacao con il prosciutto cotto o il salmone? Chi glielo dice che è una buona idea? «Il mestiere. Quello che ha chi si impegna a fondo, conosce le componenti aromatiche, le cotture, le preparazioni». Non ci si improvvisa trasgressori, sembra suggerire il Maestro. E bisogna verificare sul campo, perché può anche essere che la percezione del consumatore risulti meno positiva di quanto ci si aspettava. Può dipendere dai sapori, ma anche dalle consistenze, dalle temperature, da quel che avviene in bocca durante la masticazione.
Massari ricorda ancora con disgusto quella volta che ha assaggiato un sorbetto con tartufo bianco affettato «che sembrava una lumaca viva». L’errore, per chi cucina inseguendo a tutti i costi l’effetto-wow, è «non capire che quando facciamo da mangiare non dobbiamo pensare a quello che piace a noi». O a quello che non ci piace, aggiungo. Se un piatto nasce nella mente del cuoco, la verifica sul campo è sempre necessaria: «Faccio testare i nuovi prodotti ai miei collaboratori, che devono dare i loro pareri non a voce, ma scrivendoli su un pezzo di carta: così, non si influenzano l’uno con l’altro».
Il test sulla pizza al caffè deve aver funzionato se ha conquistato anche un “comune mortale” (nel senso di non addetto ai lavori) come Pirrone: «Sono rimasto piacevolmente stupito», conferma. «Non pensavo si potesse mettere qualunque liquido nell’impasto di una pizza e ho trovato divertente il retrogusto di quella di Massari, sembrava quasi integrale». La disamina di un non-foodie, ma esperto di comunicazione, si sposta sulla disobbedienza vincente in cucina come sui social, o per chi sui social cucina. «Uno che seguo e che trovo molto interessante è @marcoassaggia, che ha uno stile, soprattutto nell’impiattare ma anche nel vestire, decisamente disruptive».
Sbirciando il profilo Instagram dello “chef surrealista”, come si definisce il creator (vero nome Corradi) richiestissimo dal mondo del fashion, ci sentiamo di dire un po’ too much, tra banchetti allestiti su manichini, stoviglie d’argento, candelabri scintillanti, gelatine fluorescenti e ciuffi di panna a go-go. «Certo, il contenuto ci deve essere», riconosce Pirrone. Che resta comunque affascinato da tutto quanto esce dall’ortodossia. «Non penso che gli abbinamenti stravaganti siano strani, sono semplicemente nuovi. Si tratta di percorrere le strade che nessuno ha mai percorso prima». Come il “pasticcino” (in realtà un amuse bouche in forma di melina) alla bagna cauda gustato dallo stellato torinese Andrea Larossa: un piccolo boccone che gli è rimasto impresso.
Non c’è dubbio che, rispetto alla banalità del già visto, resti più in mente quel che non ti aspetti. Fra dimenticabili tentacoli di polpo bruciacchiati, baccalà mantecati e mollicci, aspiranti tataki (per buttare lì tre voci rintracciabili su ennemila menu omologati), ho ancora il ricordo indelebile del risotto alla barbabietola, Franciacorta e salsa di Parmigiano di Gualtiero Marchesi: era la fine del Millennio e quel rosa Barbie – oggi più che sdoganato – appariva come qualcosa di straordinario, in un mondo in cui il risotto era solo bianco o giallo. Del resto, sempre per parlare di piatti iconici del grande Marchesi, già nei primi anni Ottanta si era inventato quel Riso, oro e zafferano in cui il tocco rivoluzionario era una lamina di metallo inodore e insapore, quindi ininfluente ai fini dell’equilibrio del piatto, ma proprio per questo abbinamento geniale.
Sinceramente, in tanti anni di professione, ho memoria di pochi piatti. E uno è, appunto, quel seppia&pecora citato all’inizio. A cucinarlo (o non cucinarlo, dato che si trattava di crudo su crudo) qualche anno fa, Giuseppe Lo Iudice e Alessandro Miocchi di Retrobottega a Roma, una certezza per gli amanti della cucina contemporanea che gioca apertamente sull’accostare gli ingredienti fuori dalla loro comfort zone. «In giro c’è molto azzardo – conferma Lo Iudice – soprattutto dove non esiste un retaggio culturale limitante come il nostro [le polemiche sulla carbonara devono essere arrivate anche a Roma!, ndr]. In Italia i più cercano di rimanere sempre in quei paletti». Non così all’estero: se deve citare il posto dove ha provato gli ingredienti più assurdi, i match più improbabili, Lo Iudice nomina senza esitazione il Noma di René Rezdepi. Ma anche, visitato di recente, il Brat di Londra.
Le proposte bizzarre possono piacere o non piacere e, naturalmente, non sempre sono centrate: «A volte sembra quasi che certi piatti siano fatti con i quattro ingredienti che il cuoco si è ritrovato davanti per caso. Poi, certo, dipende anche dall’importanza di chi li propone». Se, sia mai, il celeberrimo chef Tal dei Tali (mettere un nome qualsiasi tristellato e/o in 50 Best) impiattasse insieme tre cose qualunque «che so: un copertone, una pinza e due bulloni», facilmente porterebbe comunque a casa elogi sperticati.
L’esempio è certamente estremo, ma serve a chiarire un punto: per rompere le regole, occorre seguire le regole. La creatività non può essere anarchica, deve essere guidata da un pensiero. «Sono convinto che non tutto sia stato scoperto e che ci sia la possibilità di fare ancora tanto». Ma per fare quel piatto che prima non c’era non basta il talento: «Occorre un ragionamento a 360°. Ci vogliono tanta esperienza e palato, combinati con pancia e istinto».
A volte è difficile dare un nome preciso a quel certo non-so-che, individuare il dettaglio che separa il coupe de theatre fine a sé stesso dal colpo genio destinato a diventare un classico. «Ci sono stranezze talmente entrate nel nostro ordine di idee da non sembrare più tali», conferma Eleonora Cozzella, giornalista, scrittrice e critica gastronomica. «L’esempio più classico è prosciutto e melone: oggi il piatto estivo per eccellenza, ma chi per primo ha messo insieme quella sapidità e quella dolcezza estreme, la secchezza dell’uno con la texture acquosa dell’altro, ha certo fatto un azzardo. Ma guai a non sperimentare».
L’irriverenza non è scevra da rischi. Può capitare di azzeccarla: Cozzella cita rognone e ricci di mare di Carlo Cracco, gusto fenico e iodato, mineralità e salmastro. Ma succede anche di accostare elementi che confliggono, e lì il cuoco deve avere onestà intellettuale e comprendere che innamorarsi troppo delle proprie idee può essere un boomerang. «Detto questo, preferisco un errore in una sperimentazione che nella rivisitazione di un classico. Se vai a toccare qualcosa che già c’è, o davvero la migliori o fai flop».
Tra pollice alzato e pollice verso, in ultima analisi spesso è la chimica a fare la differenza: «È provato che anche in cibi lontanissimi tra loro si possono trovare molecole che, in bocca, creano combinazioni perfette», riflette Cozzella. A supporto di questa teoria si può raccontare la strana storia di cioccolato e formaggio. La strada per il successo di questo matrimonio è stata irta di fallimenti: ci fu un fugace fidanzamento tra il cioccolato svizzero viola e il formaggio fresco spalmabile, ma non era poi tutta questa rivoluzione; entrarono in gioco i “choco cheese puffs”, ma non furono abbastanza buoni da leccarsi le dita; e le Sottilette al cioccolato dovettero accontentarsi di fare il pesce d’aprile, qualche anno fa, in un post Facebook diffuso dal noto brand.
Ma a furia di dài e dài, alla fine la formula giusta è stata trovata: Parmigiano e fondente. I bonbon siffatti sono una ricetta pubblicata sul sito del Consorzio del Parmigiano Reggiano e Lavoratti, l’azienda dolciaria ligure rilevata nel 2020 da Fabio Fazio, ne fa praline anche in versione al cioccolato bianco.
«Cioccolato e formaggio possono sembrare un abbinamento insolito, se non proprio sgradevole, finché non vi verranno in mente la combinazione cioccolato e latte (o panna) e la propensione delle note aromatiche di alcuni cioccolati di grande qualità – frutti a bacca speziati, frutta secca, caramello – a essere ottimi partner per il formaggio». Così scrive Niki Segnit ne La Grammatica dei sapori (Gribaudo) compendio pratico di combinazioni tra ingredienti tornata di recente in libreria con il sequel La Grammatica dei sapori. Altri sapori, principalmente a base vegetale.
Il meccanismo ideato dalla scrittrice londinese, con un passato nel marketing nel settore alimentare, è stato classificare gli alimenti presi in esame in famiglie sulla base del gusto, ordinandoli in una rosa – o ruota della fortuna – gourmand, in cui ogni sapore conduce al successivo. Per ogni ingrediente sono individuati i possibili match costruiti sulla principale delle caratteristiche organolettiche, il sapore appunto. La “campionessa in carica degli abbinamenti” (la lusinghiera definizione è di Yotam Ottolenghi) suggerisce per esempio di unire il miso bianco (il miso è una pasta fermentata di fagioli, umami) con la vaniglia in una inedita crema pasticcera. Ma anche caffè e finocchio, che lì per lì suona strambo, ma l’espresso corretto sambuca non è certo una novità, e in Grecia pare sia in voga il frappouzo, caffè freddo spumoso combinato con il liquore nazionale all’anice.
Sull’arte del food pairing hanno creato un network i belgi Peter Coucquyt, Bernard Lahousse e Johan Langenbick, dando vita all’omonimo sito (foodpairing.com) dedicato principalmente a professionisti, cuochi e mixologist. Il sito interattivo è organizzato in “foodpairing trees”, grafici ramificati che uniscono alimenti che condividono profili di sapore comuni a livello molecolare. Scopo: aiutare a ispirare nuove combinazioni. Il sistema è diventato anche libro con un titolo “artusiano”: L’arte e la scienza del foodpairing (edito in Italia da Slow Food). Sottotitolo: 10.000 combinazioni per reinventare il modo di abbinare i sapori in cucina. Nella presentazione si legge: «Non c’è un modo giusto o sbagliato di abbinare gli alimenti, ma c’è una base scientifica per capire quando gli accostamenti funzionano davvero». Combinando metodo scientifico e arte culinaria, Foodpairing analizza sapori e aromi, componenti odorose e gustative, descrivendo e accostando gli ingredienti in uno sterminato catalogo di coppie alimentari. Un Tinder gastronomico che promette al palato colpi di fulmine e relazioni durature.
Il lavoro di Foodpairing è citato anche da Charles Spence, professore di psicologia sperimentale a Oxford e autore di Gastrofisica. La nuova scienza del mangiare (Readrink), nel capitoletto dedicato a cibo e Big Data, dove facciamo la conoscenza di Chef Watson di IBM. «Si tratta di un supercomputer che conduce analisi algoritmiche su una banca dati contenente migliaia di ricette, incrociandola con un’altra banca dati che elenca i composti aromatici di migliaia di ingredienti, e con le scoperte fatte dagli psicologi sul modo in cui le persone reagiscono alle diverse combinazioni di ingredienti», scrive Spence. Il futuro è dunque la “gastronomia computazionale”, sono i piatti studiati a tavolino?
In attesa che i calcolatori prendano il posto delle brigate di cucina (cosa che, sia chiaro, non ci si augura), preferiamo credere che sia ancora l’esperienza del cuoco – abbia o meno nozioni di chimica – a fare la differenza e a mettere al riparo noi foodie da accrocchi letteralmente di dubbio gusto. Soprattutto – si spera! – da quelli fatti in nome di una presunta eccellenza dei singoli elementi di un piatto. Risotto alle fragole e Champagne: ho detto tutto, no?
Altro aspetto, che fa ben sperare in una disobbedienza costruttiva, è la naturale evoluzione della cucina. Oggi il professionista ha a disposizione non solo nuove tecniche e nuove conoscenze, ma anche la possibilità di crearsi un bagaglio culturale globale, apprendere e misurarsi con realtà le più diverse, sperimentare e contaminare.
Parlando ancora di pizza, settore sempre in gran fermento (gioco di parole d’obbligo), mi viene in mente quella con l’ananas, che tante polemiche ha sollevato negli ultimi tempi. Ebbene, io la amo smodatamente da quando ho assaggiato, a Milano o meglio, da Crosta, quella di Simone Lombardi: con coriandolo (altro ingrediente difficile), cipollotto e ventricina, salume piccante abruzzese-molisano. A ispirarla, il taco al pastor, specialità messicana – come la mamma del pizzaiolo.
Insomma, c’è differenza tra quattro robe buttate lì e un piatto ragionato. Che non sia troppo concettuale, però. Sul libro di Charles Spence è riportato il menu di un banchetto proto-futurista organizzato a Parigi, nel 1912, da Guillaume Apollinaire, con piatti come Lombata di vitello al sangue condita con tabacco e Insalata condita con olio e grappa. Piatti indubbiamente trasgressivi, poco ortodossi per quei tempi (e anche oggi a ben vedere). Ma da disobbedienza a dispetto è un attimo.