Documentari (Funghi fantastici, Magic Medicine), saggi (L’ordine nascosto di Merlin Sheldrake, la ristampa di Funghetti di Silvio Pagani, un alias del ricercatore Giorgio Samorini che allo studio e alla divulgazione degli psichedelici dedica la sua carriera), podcast (Illuminismo psichedelico). Ma anche guide online, guru e musicisti (solo in Italia possiamo pensare a Mace e Gianpace) che condividono informazioni, tecniche e pratiche. Mai come in questi ultimi anni c’è stata un’importante attenzione attorno agli psichedelici e in particolare ai funghi allucinogeni e alla loro oramai celebre molecola, la psilocibina.
L’interesse attorno alla psilocibina, la molecola contenuta in oltre 150 specie di funghi appartenenti ai generi Psilocybe, Panaeolus e Copelandia, Inocybe, Pluteus, Gymnopilus, Pholiotina (non immaginatevi per forza ecosistemi tropicali, alcuni di questi si trovano anche nei nostri boschi), non è di certo recente – pensiamo al saggio reportage di Robert Gordon Wasson pubblicato nel 1957 sulla rivista Life, agli studi di Hoffman (lo scopritore dell’LSD) del 1958 o alle auto-sperimentazioni di Timothy Leary nel 1960 – ma negli ultimi anni, e grazie al rinnovato interesse scientifico attorno alle possibilità mediche degli psichedelici, ha raggiunto livelli mai raggiunti in passato. A tutti gli effetti la psilocibina è diventata la molecola d’onore del Rinascimento psichedelico, termine con cui si fa riferimento alla riscoperta, da parte della comunità medico-scientifica, del potenziale terapeutico delle sostanze psichedeliche dopo quasi quarant’anni di silenzio accademico.
Con oltre 200 trial differenti nel mondo, oggi la capacità terapeutica della psilocibina sta venendo testata in quasi tutti i disturbi psichiatrici: depressione, anoressia, dipendenze, PTSD, disturbo ossessivo-compulsivo, dolore cronico, bipolarismo. E con risultati più che promettenti, soprattutto per quanto riguarda depressione e dipendenze da alcool e fumo. Ma perché proprio la psilocibina e non, per esempio, il più famigerato LSD? La risposta sta nell’accettazione culturale della psilocibina, considerata dall’ambiente accademico (che ha bisogno di raccogliere fondi per portare avanti le proprie ricerche) meno problematica dell’acido lisergico, il quale si porta dietro tutta una serie di criticità legate ai movimenti controculturali di fine Anni ’60 che portarono al suo divieto nel 1967. Ma c’è anche una motivazione pratica: la psilocibina è più semplice da gestire in ambito terapeutico avendo una durata inferiore rispetto all’LSD (6 contro 8 ore). Stiamo infatti parlando di una sostanza, che, al pari dell’LSD e degli altri psichedelici, non provoca dipendenza, non arreca danni ai neuroni e – soprattutto – non è tossica come raccontato in quarant’anni di disinformazione.
Nelle parole di Tommaso Barba, ricercatore dell’Imperial Collage di Londra, che abbiamo raggiunto per un’intervista nei mesi scorsi, una terapia con la psilocibina «può essere concettualizzata come un intervento chirurgico nella psiche di una persona». Questa la loro preparazione. Le terapie con psilocibina (qui invece se volete sapere come funziona con l’LSD) avvengono in clinica, in una stanza preparata appositamente per l’occasione (set) in modo da aiutare il paziente a rilassarsi sentendosi a proprio agio (setting). Il paziente viene così seguito da due terapeuti – solitamente un uomo e una donna – in modo da essere supportato durante il viaggio. Restando sdraiato sul letto, con una mascherina sugli occhi e con in cuffia una playlist (spesso di musica classica) pensata per seguire l’evoluzione del trip (ascesa, peak, atterraggio), il paziente ha così la possibilità di andare a ritrovare e risolvere dei groppi emotivi importanti, immergendosi nel proprio inconscio e andando a rivivere e riaffrontare ricordi drammatici. Il già citato Giorgio Samorini (che abbiamo incontrato per la pubblicazione del suo lavoro Terapie psichedeliche), sotto l’alias Silvio Pagani scrive in Funghetti (esempio perfetto di nuovo interesse mediatico sul tempo: stampato da Nautilus nel 1993, il saggio è stato ristampata nel 2021 da AnimaMundi): «I funghetti predispongono l’individuo a una dimensione più veritiera, più diretta nell’approccio con l’esterno e, soprattutto, con sé stessi. L’individuo abituato all’osservazione su sé stesso e all’autocritica, riuscirà meglio a sopportare lo “svestimento” dei propri comportamenti e dei propri atteggiamenti (in altre parole il dissolvimento dell’Io) imposto dalla dimensione psilocibinica».
Ecco cosa accade al nostro cervello durante l’assunzione di psilocibina. Lo stato psichedelico allenta il funzionamento del Default Mode Network (DMN), una serie di aree celebrali che regola il nostro senso di sé; si crea così un senso di coscienza molto flessibile e aperto. Con l’assunzione della molecola, la neuroplasticità del cervello viene stimolata garantendo al cervello una maggiore capacità di cambiare e adattarsi alle situazioni circostanti. Gli psicoterapeuti possono così aiutare il paziente a indirizzare questo cervello iperplastico verso un cambiamento della narrazione disfunzionale dei pazienti. È questa azione a rendere la psilocibina molto adatta a trattare depressioni e dipendenze, andando a rompere circoli viziosi di pensiero rimuginante favorendo nuove connessioni sinaptiche. Non è però la molecola in sé a creare il cambiamento, ma il container terapeutico che si crea attorno a questo stato di neuroplasticità. Il contesto terapeutico positivo – nonché l’intenzione del paziente – è quindi fondamentale. Affinché lo psichedelico faccia il proprio lavoro è necessario quindi un atteggiamento attivo e propositivo da parte del paziente.
Le prospettive sono quindi estremamente interessanti, soprattutto pensando che questi studi sono molto recenti e – solo ora – stanno ricevendo i primi e importanti finanziamenti per la ricerca. Il mercato degli psichedelici oggi è valuto circa tre miliardi di dollari, ma le previsioni prevedono che la cifra verrà quasi triplicata in 5 anni. Stiamo ancora parlando di cifre ridotte per l’industria, ma che raccontano di un interesse crescente verso questi ritrovati strumenti di cura. Essendo la psilocibina – come la maggior parte degli altri psichedelici – una molecola presente in natura, non è disponibile per il brevetto. Questo, per il momento, è ciò che rende poco appetibile gli psichedelici per le case farmaceutiche. Il rischio reale però è che l’industria farmaceutica cerchi vie alternative a questi brevetti, andando a sintetizzare nuove molecole con delle piccole modifiche rispetto a quelle che si trovano in natura, svuotandole dal loro naturale valore psichedelico (e contro-culturale). Un caso esplicativo è ciò che è successo durante il governo Trump, dove, da una variazione dalla molecola della ketamina, si è ottenuta l’esketamina (come ben racconta Agnese Codignola in un saggio presente nell’antologia La scommessa psichedelica), un farmaco su cui alcune lobby americane avevano grandi interessi commerciali e che non sembra portare agli stessi risultati della ketamina.
A livello legislativo invece sono arrivate le prime vittorie per la psilocibina. Nel 2024, l’Oregon diventerà il primo stato in cui sarà possibile utilizzare la psilocibina sia per trattamenti psicologici che per il benessere personale di soggetti sani. Denver è stata la prima città a depenalizzarla, mentre il Colorado ne ha legalizzato il possesso. Anche in Australia la molecola – insieme all’MDMA – potrà essere utilizzata per trattare alcune condizioni specifiche. In Italia, a oggi, la psilocibina è inserita nella tabella 1 delle sostanze stupefacenti: ne è quindi vietata sia la vendita che la detenzione.
Le celebri porte della percezione raccontate da Aldous Huxley – che potrebbero garantirci un salto in avanti nella terapia, nell’auto-cura e nel benessere personale – stanno per essere aperte. Siamo pronti a varcarne la soglia?