In ogni dispensa che si rispetti, c’è sempre una riserva pronta a entrare in campo quando il frigo è vuoto, il supermercato vicino casa è chiuso, e la voglia di cucinare è poca. Scadenze lontane, sapore rassicurante, facile aiuto per improvvisare piatti decenti: stiamo parlando del cibo in latta. Santificato tra le mura domestiche – le scatolette di tonno del pranzo dello studente le conosciamo tutti – ma vituperato alla luce del sole, il cibo in latta, come molte tra le vere rivoluzioni del mondo, affonda le radici in tempi di guerra. Nello specifico, lo zampino fu quello di Napoleone (no, non se ne parla nel film di Ridley Scott). Dopo di lui, il cibo in scatola navigò attraverso due secoli di storia, trasformandosi da mero strumento di conservazione del cibo a icona pop capace di far produrre espressioni contrarie: disgusto, venerazione (quest’ultima avviene, ultimamente, a mezzo TikTok).
Cominciamo dall’inizio: correva l’anno 1795. La Francia napoleonica era impegnata sul fronte italiano, tedesco e olandese. Nutrire le truppe era un problema annoso, soprattutto perché non erano ancora state sviluppate tecniche affidabili di conservazione del cibo. Fino all’Ottocento, infatti, il cibo si conservava sotto sale oppure tramite affumicatura, alcol, aceto o anche con grasso e zucchero; stratagemmi efficaci, ma a breve termine. Perciò, nel 1810 Napoleone lanciò una sorta di call to action, promettendo un premio di 12.000 franchi (mica bruscolini all’epoca) per chiunque avesse ideato un metodo sicuro e ripetibile per conservare il cibo per il suo esercito. Il guanto di sfida fu raccolto da Nicolas Appert, un inventore francese, che sviluppò un metodo per conservare e sterilizzare il cibo in vetro. Una volta cucinato, il cibo veniva posto in un barattolo e sigillato con un tappo. Il tutto veniva poi fatto bollire in acqua, così da garantire una chiusura ermetica ed eliminare ossigeno e microrganismi (se siete di quelli che passano i pomodori d’estate, sapete di che cosa stiamo parlando).
Dall’iniziale uso militare, il vetro fu pian piano sostituito con la latta, e il cibo in scatola fece la sua comparsa nei mercati, effettuando un cross over al popolare. Nel mentre, con gli albori della società industriale, anche la produzione di scatolette cominciò a standardizzarsi. In Italia è guidata dai Florio, “leoni di Sicilia” che dalle tonnare di Favignana e Formica cominciano a mettere il pesce sotto conserva di olio – ed è forse, anche una volta, il nostro nazionalismo gastronomico che ci fa associare le scatolette al tonno.
Cut al Novecento, anni Cinquanta, e le latte finiscono tra i ranghi degli oggetti di consumo di massa. Se ne servisse prova, basti pensare alle 32 Campbell’s Soup Cans di Andy Warhol (1962), tra le opere più iconiche della pop art. L’intento dell’artista fu quello di dipingere qualcosa di quotidiano che tutti potessero riconoscere, “qualcosa come una lattina di zuppa Campbell” gli suggerì la sua assistente, Muriel Latow. Così, la latta divenne opera d’arte e icona alimentare e di marketing, spingendo tante aziende a ideare design appositi per rendere il cibo in scatola facilmente riconoscibile e rafforzarne l’identità.
Democratiche, sicure, cool: ma quindi perché, almeno in Italia, guardiamo storto le scatolette delle meraviglie? Ricapitoliamo: latta non è sinonimo di scarsa qualità, anzi. Forse siamo talmente abituati a vedere le scatolette sui ripiani delle nostre credenze che le concepiamo come cibo “scontato”, facilmente accessibile, emergenziale, e, insomma, di secondo livello rispetto al ragù per maccheroni cotto cinque ore a fuoco lento con la carne del macellaio (chi prova a farne salire la reputazione c’è, beninteso). Scatoletta, ci dice il cervello, significa cibo povero, non lavorato. Il che è controintuitivo, se pensiamo che molto spesso lo scatolame riguarda i prodotti ittici, non esattamente i re del buon mercato.
Non siamo gli unici a provare questa avversione verso il cibo in scatola: gli inglesi, per esempio, non sono da meno, come dimostra una storia che collega le Hawaii, i Monty Python e le mail moleste. La SPAM (abbreviazione di spiced ham) è una carne in scatola nata nel 1937 in Minnesota, resa celebre, ancora una volta, da legami militareschi, in quanto venne usata per nutrire le truppe statunitensi durante la Seconda Guerra Mondiale. Ha l’aspetto di un polpettone un po’ anemico, non proprio invitante. Per intenderci, per quanto ingredienti e metodo di conservazione siano diversi (la SPAM è composta, sorprendentemente, da pochi ingredienti, sei), l’equivalente nostrano potrebbe essere la Simmenthal (non ce l’abbiamo con voi, Dirty). Con un altro cross over, la SPAM conquistò gli abitanti delle Hawaii, diventandone il piatto tipico.
Dall’altra parte dell’Atlantico, intanto, la SPAM, e l’ossessione dagli americani per essa, diventava letteralmente una barzelletta: nel 1970, i Monty Python pubblicarono una celebre gag in cui, in una locanda trasandata, una cameriera enuncia il menù a una coppia di clienti, ed è tutta a base di SPAM. La signora della coppia, visibilmente spazientita, cerca un piatto che non la contenga. Ma alle ennesime menzioni compulsive di SPAM da parte della cameriera, un gruppo di vichinghi seduto al ristorante (don’t ask) inizia a cantare “SPAM SPAM SPAM”. Da qui, credeteci o no, nasce il nome di spam per la posta indesiderata.
Non solo attacchi, però: a difendere la causa della latta arrivano personalità illustri. A tal proposito si era espresso circa un anno fa lo chef bi-stellato Raymond Blanc, del ristorante Le Manoir Aux Quat’Saisons nell’Oxfordshire (UK), che non solo ha ammesso di apprezzare il cibo in scatola, ma anche di utilizzarlo regolarmente nei suoi piatti. Lo stesso avviene nel ristorante Güeyu Mar, nel minuscolo paesino di Vega (Asturia), dove lo chef Abel Álvarez produce e vende scatolette oltre che utilizzarle in cucina.
Negli Stati Uniti, intanto, il 2023 è stato l’anno del tinned food e del pesce in scatola soprattutto, che ha spopolato tra i più giovani con la classica formula “everything old is new again”. Lo zampino? Quello di TikTok, naturalmente, che ha fatto diventare virale tonno in scatola & parenti (fegato di merluzzo, polpo, vongole e compagnia bella, ma perché no, anche una bella panopea), insieme alle ricette che li contengono (potete dirci che questo video di @daywithmei non vi ipnotizza, ma non vi crederemo). Non solo: l’autrice Anna Hazel ha dedicato un libro, Tin to Table, alle preparazioni a base di cibo in scatola, sottolineando come sia l’unico modo di garantire un buon rapporto tra qualità e convenienza; e mangiare il pesce in scatola è diventato così “in” che a Los Angeles, per esempio, c’è chi da compilato una mappa dei migliori posti per godersi una bella mangiata di scatolette. Se siete a New York, invece, non fatevi scappare lo Spanish Seafood Bar El Pingüino. Basta? Ma no: The Fantastic World of the Portuguese Sardine, istituzione-parco giochi del pesce in scatola portoghese, ha aperto il primo store fuori dal Portogallo e lo ha fatto a Times Square.
@daywithmei $1 vs. $25 Canned Sardines 🎣 Tinned Fish Talk 🐟 Beach Cliff Sardines in Soybean Oil 🐟 PYSCIS Sardine Royale 2018 in Olive Oil The point here isn’t to say expensive is always better. I wanted a direct comparison between how sardines are most commonly perceived in the US and an opposite extreme of quality control. For those skeptical how a tin could cost $25 look beyond the can itself. The oil alone is many times more expensive, catch methods, selection, and packing require more labor, and conditions for aging must be maintained. Just as wine can range from $3 to $30, sardines can too. Some affordable tins I like include Trader Joe’s sardines in olive oil for $1.69 or King Oscar brisling sardines in EVOO (AKA Tiny Tots) for $3. Note that taste is subjective and this is just one opinion. At the end of the day buy what YOU like. Browse sardines ranging from $3 to $30 at Rainbow Tomatoes Garden (where I got the PYSCIS tin). This small business not only has the largest selection of tinned fish, they also vet every single one of their 800+ products. #tinnedfish #cannedsardines #sardines
La moda, insomma, non manca: vedremo se, al di là degli hashtag social, il “momento” del pesce (e del cibo, vegetali compresi) in scatola si trasformerà in “movimento” di riscoperta, giungendo magari anche dalle nostre parti. Per chi fosse ancora dubbioso, consigliamo un’altra voce autorevole in materia, quella dello chef bi-stellato José Andrés. Abbandonatevi al piacere quasi primitivo di aprire una scatoletta di sardine messe a mano una a una nella scatola, e poi mettetele su una calda fetta di pane caldo e tostato, leggermente imburrato, seguendo il suo consiglio. Un po’ di pepe a chiudere, se gradite, et voilà lo spuntino perfetto. Come dargli torto.
Al di là dei trend, però, ci sono posti in cui le scatolette sono una certezza, immune al tempo e alle mode. Nel Vecchio Continente la fortezza è rappresentata dalla Penisola Iberica, che si erge a patria del cibo in latta. Acciughe, sardine, tonno, cozze, vongole, baccalà e non solo mare: anche olive, asparagi, paté vari e tanto altro ancora, spesso conservate insieme ad aromi e spezie e non solo in olio “liscio”. In Spagna la passione per le latte (o latas) è sfrenata, e la sua massima espressione si trova nel Nord del paese, in Galizia, dove si ammassano i produttori di pesce in scatola (altre zone prospere per le latas sono la Cantabria, con le acciughe, e la Catalogna, con il caviale). Per dare il polso di questa affezione, basti pensare a Lata, shop online latte-only che i suoi fondatori hanno creato con lo scopo di ricreare l’esperienza del “pacco di mamma” quando lontani da casa, pieno di prodotti deliziosi della propria regione d’origine.
A introdurre il know-how della conserva in latta in Spagna furono però i catalani, attraverso i legami anche imprenditoriali con la vicina Francia. Nell’Ottocento, le tecniche di conservazione vennero esportate soprattutto in Galizia, oggi considerata la capitale simbolica delle conserve marine, e fecero impazzire il palato degli spagnoli. Le ragioni di questo legame indissolubile con la latta risiedono nella pescosità della costa galiziana, dal Mar Cantabrico all’Oceano Atlantico, che rende la regione una fonte importante di prodotti ittici per tutta la Spagna e non solo. Un esempio? Si calcolano circa 3.000 bateas (piattaforme per l’allevamento di cozze) per una produzione di oltre 300.000 tonnellate di molluschi all’anno. Il principe della Galizia, comunque, rimane sempre il tonno (per approfondire sul posto, c’è anche un museo). Non altrettanto bene se la passa il Portogallo, dove un tempo la sola Porto contava 54 stabilimenti per l’inscatolamento del pesce, oggi ridotti a pochi (ma notevolissimi) nomi nobili.
Ma, tornando alla Spagna, se i produttori si concentrano prevalentemente al Nord i consumatori sono ovunque, e una città dove si fa un ampio uso della latta è Barcellona, complice anche la tradizione dei bar a tapas e il fatto che, be’, con un goccio di vermut il pesce in scatola ha proprio la morte sua. Per i gastronauti (e i curiosi dal pesce in scatola), ecco una breve guida dei migliori “bar a latas” di Barcellona, dove le scatolette dominano l’aperitivo e ti fanno continuare fino a cena.
Morro Fi, Avenida Diagonal 557
Morro Fi (in città ce ne sono cinque) ruota attorno al vermut: lo fanno loro, e lo fanno bene. E, per incentivare il bicchiere in più, nulla c’è di meglio che una bella scatoletta. Da non perdere le olive annodate nelle sardine, le acciughe del Cantabrico e le cozze. Lo sappiamo: piuttosto che mangiare le cozze in latta, i puristi dei frutti di mare ne sgranocchierebbero il guscio, ma da ex-puristi pentiti, vi invitiamo a farlo. Il sapore è integro e fresco, non c’è il romanticismo di sgusciare la cozza, certo, ma resta comunque gradevole al palato. Tra i cinque punti disponibili del Morro Fi, il più bello è su Carrer del Consell de Cent ma quello su Avenida Diagonal, anche se si trova dentro un centro commerciale, vanta un menù più ampio.
Lata Berna, Carrer del Torrent de les Flors 53
Disclaimer immediato: a Lata Berna il cibo in scatola si mangia ma non si vede. In questo localetto di Gracia non avrete quindi confezioni esposte, ma tapas buone rimpinzate di scatolette. A dire il vero, il bar nasce proprio con l’idea di servire tapas a base esclusiva di latas, anche se il concetto si è evoluto nel tempo. Da provare il toast alla sardina affumicata con mela acida, guacamole e pico de gallo, ma anche i torreznos, una sorta di pancetta fritta e croccante contrastata dalla scorza d’arancia. Consiglio meno banale di quel che sembra: il loro pan con tomate (la bruschetta catalana, protagonista costante delle tapas e orgoglio regionale) è delizioso.
Quimet & Quimet, Carrer del Poeta Cabanyes 25
Quimet è il diminutivo di Joaquim, e, dal primo proprietario fondatore, nel 1914, tutti i gestori, figli di gestori e futuri gestori si chiamano Quimet, cioè Joaquim. Oggi siamo alla quinta generazione, e tutte quante hanno contribuito a rendere Quimet & Quimet una gemma della città, must assoluto delle tapas a Barcellona. Le latte sono le protagoniste indiscusse: il locale è piccolino, le pareti sono costellate da scatolette colorate – insieme a una vastissima scelta di vini e liquori. Le tapas, manco da dire, sono squisite. Non fatevi dissuadere dalla coda che incontrerete all’ingresso: il locale contiene massimo una ventina di persone, tutte rigorosamente in piedi, addossate a la barra (il bancone) o lungo tutto il perimetro del bar. Il tempo di permanenza è di massimo un’ora per permettere a tutti di entrare. Il trucco del mestiere è andare durante la settimana a orari non di punta, così da trattenersi un po’ di più. Ma, parliamo di cibo: il menù di Quimet & Quimet è un foglietto piegato e plastificato, resiste al tempo e all’inflazione. Elencare i montaditos imperdibili è un’operazione difficile: vi diremo pertanto i nostri preferiti. Quello con fegato di baccalà e pomodoro è squisito: il fegato sembra tonno e ha una consistenza irresistibile. Poi, il montadito gamberi e peperone rosso, match made in heaven. A ultimo, salmone e filamenti di tuorlo dolce. ‘L’unico consiglio valido, però, è questo: sedetevi, provate pazientemente quelli che più vi attirano, ma ricordate di chiudere sempre con delle sfiziose tapas dolci, come nespole, cioccolato e advokaat, un liquore olandese cremoso e corroborante. Non si tirano fuori da una latta, ma fa anche lo stesso.