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L’aperitivo è morto, viva l’aperitivo

L’aperitivo piace a tutti, ma pochi sanno che era un’abitudine già nell’antichità greco-romana. Ci siamo seduti davanti a qualche bicchiere con Dom Carella, bartender extraordinaire, per due chiacchiere sul più bistrattato dei rituali de noantri.

Foto: Carico

Qualcuno dice che il segreto per un Negroni perfetto sia il riso da sushi. Il menù di Carico, a Milano, effettivamente non fornisce la possibilità di assaggiare questa variante “cremosa” di uno dei cocktail più diabolici. Forse, però, non ne abbiamo nemmeno bisogno. Perché la creatura multiforme nata sotto la direzione di Andrea Bassi, con lo chef Leonardo D’Ingeo e i cocktail di Dom Carella, bartender extraordinaire e a oggi consulente per varie realtà food & beverage internazionali – «in Italia vanno in crisi, a non sapere dove piazzare Carico sulle guide: è un bar, un bistrot, un ristorante?» ci dice –, si è moltiplicata, aggiungendosi una costola in più. Letteralmente: una stanza di fianco alla sala principale, intima e, se fossimo stati nella prima metà del secolo scorso, fumosa. Ospita un’esperienza mangia-e-bevi verticale sulle bevute che hanno fatto grande il concetto di “aperitivo all’italiana”. Perché, anche se la nuova impresa si chiama Negroni Room, dire che si limita al cocktail inventato del Conte viveur Camillo Negroni sarebbe decisamente inappropriato.

Si tratta, innanzitutto, di storia. Quella di un rito che affonda le radici nella cultura dell’antichità greco-romana e che spesso si ritrova, nell’anno 2023, vittima delle sofisticazioni imposte dalle logiche dell’industria, attenta al portafoglio più che alla qualità del bicchiere. L’aperitivo comincia con i vini ippocratici (o ippocrasso), «vini conciati, speziati e resi dolci dall’aggiunta di miele», ci spiega Carella, che prendono il nome proprio da Ippocrate, “padre” della medicina occidentale. Siamo nell’alveo della guarigione dunque, del rimedio ispirato dalle proprietà della natura. Assenzio, ruta, fiori di dittamo: le erbe sono alla base dei vini ippocratici, guaritori misteriosi, capaci di aprire lo stomaco e riequilibrare gli umori neghittosi. “Aperitivo”, Treccani docet, deriva dal latino aperitivus, “che apre le vie per l’eliminazione”, nello specifico gastriche e stomachiche. Per provarne un ippocrasso contemporaneo – anzi, “vino da meditazione” – rivolgersi a Garbata Spirits e al loro Conditum Paradoxum.

La Negroni Room di Carico

Verso l’età moderna, le osservazioni sull’ippocrasso si fanno più precise. Si diffonde la credenza che il merito dell’azione miracolosa sia da attribuire all’amaro, o meglio, che le erbe amare “rischiarino lo stomaco”, come vuole il detto popolare. «Quella italiana è una cultura contadina ed erboristica, nel doppio senso: siamo abituati a usare le erbe che crescono spontaneamente in natura per alimentarci, ma anche, all’occorrenza, per scopi farmaceutici». L’amaro, insomma, «può non piacere, ma in ogni caso fa bene», come scrive Massimo Montanari nel suo Amaro. Un gusto italiano (Laterza, 2023). «Il paradigma è semplice», continua Montanari, «l’amaro produce caldo, il caldo è buono per lo stomaco». Equazione su cui batte ancora il marketing contemporaneo nonostante l’avanzamento scientifico: «i concetti di fondo non sono cambiati: l’amaro è tonico, corroborante, digestivo… L’immagine dell’amaro e delle sue benefiche virtù continua a funzionare».

Chiedetelo a chi vi fa bere una Taneda, un Braulio, chi più ne ha, più ne metta: all’inizio della stirpe c’è sempre un farmacista, o un erborista. «Non è un caso», continua Carella, «che Cynar dichiarasse, negli Anni Sessanta: contro il logorio della vita moderna. O che la zia ti raccomandi di aprirti un po’ lo stomaco con un amaro prima del pranzo di famiglia. Il principio alla base è lo stesso».

Ma dove inizia, allora, l’aperitivo “a scopi ricreativi”? Secondo l’esperto di mixologia Fulvio Piccinino, intervistato da Vice, un antesignano dell’abitudine moderna era già contenuto nella “merenda sinoira”, ovvero lo spuntino che, tra un piattino e l’altro, si fa cena. Non troppo dissimile dalle abitudini di piccola cucina dei cocktail bar, che dài uno e dài l’altro, finiscono per riempir la pancia.

Il momento topico, però, quando nell’equazione entrano anche le bevande, è datato 1786. Siamo a Torino, e Antonio Benedetto Carpano, proprietario di una bottega di liquori, codifica il vermouth rosso, discendente diretto di quei vini ippocratici medicamentosi e “disciolto” lungo tutto il Mediterraneo (varianti locali di vermouth si trovano in Spagna, Francia e Grecia, per esempio). Un vino all’artemisia aromatizzato con vaniglia, caramello e zafferano che fece impazzire la corte dei Savoia, mischiando la sapienza che veniva dal popolo ai gusti cosmopoliti dell’aristocrazia. E il gioco fu fatto.

Sempre piemontese è l’altra rivoluzione dell’aperitivo all’italiana: il bitter Campari, messo a punto con ricetta segreta da Gaspare Campari in un piccolo caffè di Novara. Da lì alla Madonnina, però, il passo fu breve, e il Campari divenne il simbolo della Milano che sa trattarsi bene. Le scie delle due stelle – vermouth, Campari – non potevano che collidere. Ed è infatti proprio al Milano-Torino, la cui ricetta vorrebbe bitter e vermouth in parti uguali, che comincia il viaggio della Negroni Room di Carico. Servito in coppa piccola, sia per tradizione che per costume pregevolissimo, gloriosa mezza porzione. Il MiTo è la prima delle sette bevute della Room, ognuna servita con pairing gastronomico. Il tavolo è una stretta linea curva attorno a Carella, che miscela a vista e racconta le storie che sta servendo nel bicchiere. L’illuminazione è da club, sulle pareti la narrazione si amplifica con giochi di grafiche e luci. La musica incalza e si vuole solo un sorso in più, un boccone in più.

Allora anche noi procediamo innanzi, perché per arrivare al bicchierone di Negroni del Bar Basso – ma anche solo allo Sbagliato di Mirko Stocchetto – la strada è lunga. I nomi sbucano presto nel panorama nazionale, e Milano si fa capitale anche su questo fronte, ospitando, oltre a Campari, Fernet-Branca, Ramazzotti e Zucca. Bevute lisce, ma non perché l’arte del miscuglio non fosse ancora giunta alla ribalta. Di “cocktail” se ne parla già da inizio Ottocento: nel 1805 sul Balance and Repository di Houston compare la definizione “bevanda stimolante composto da superalcolici di vario tipo, zucchero, acqua e amari”. Sull’origine del nome (letteralmente coda di gallo), leggende sono state sprecate: forse era colorato come le code dei galli da combattimento? Forse alcuni nobili annoiati li mischiavano davvero con le penne posteriori dei re del pollaio?

Difficile dirlo. Quello che conta è che, giunti ai primi decenni del Novecento, la voglia di cambiamento, anche al bancone del bar, era alta. Il MiTo (nato attorno al 1860) si era già evoluto in Americano (basta aggiungere un po’ di soda, e il nome, si narra, fu per Primo Carnera), il Negroni rimaneva dietro l’angolo: bastò che un Conte annoiato incontrasse il bartender Fosco Scarselli in un bar di Firenze. La soda venne sostituita con il gin, et voilà.

Qui, però, l’aperitivo dovette aspettare fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale per continuare a crescere. Ed è dagli Anni Sessanta che comincia a vestire la sua connotazione – ancora contemporanea – di divertimento ed eccezionalità. Non solo Milano da Bere: tutto quello che è estero, o nuovo, è cool. E allora perché rimanere sui soliti amari quando si può osare, sperimentare? I paninari, a discapito del nome, non erano famosi per essere dei gourmand. Il giro di boa giunge negli Anni Novanta, quando l’imprenditore e bartender Vinicio Valdo inventa “l’aperitivo alla milanese”, ovvero qualche piattino di cibo lasciato in condivisione agli avventori senza sovrapprezzo rispetto alla bevuta. Un “la” che ci ha catapultato, girato il millennio, nella giungla degli happy hour.

Foto: Carico

Ce li ricordiamo tutti: valanghe di cibo, resse, cocktail internazionali annacquati con superalcolici di bassa categoria. Riprende Carella: «La pandemia del 2020 ha fatto cambiare i giochi. C’è stato un rallentamento, è tornata la voglia di porre attenzione alle piccole cose, senza contare che, naturalmente, ha impresso una frenata decisiva a quelle soluzioni che offrivano grandi quantità di cibo in condivisione. A livello di prodotto e di bevuta, oggi, c’è molta più volontà di scoprire, ripartendo dalla tradizione. “Vecchia scuola” si potrebbe chiamare, senza però che sia sinonimo di noia. La storia italiana ha delle basi solidissime in merito a ciò che siamo arrivati a chiamare aperitivo. La sfida oggi, anzi, la parte divertente, è modulare l’offerta su tutto il momento della sera, portando la tradizione nel futuro e unendola in modo virtuoso all’atto di mangiare».

Non una partita semplice. Perché «in Italia siamo molto legati alla nostra tradizione alimentare, allo stesso tempo fantastica e dispotica. All’estero, e nelle grandi città soprattutto, il concetto di “uscire a cena” è molto più fluido. Si cerca il posto dove stare tutta la notte, magari appena usciti dal lavoro, dove cominci a bere, poi ordini da mangiare, poi bevi ancora, e prima di andare a casa è tempo di un ultimo spuntino. La Negroni Room vuole essere un tempio per questo approccio, diciamo. Il menù è costruito con le logiche della degustazione, ma quello che vogliamo davvero vendere è il tempo. È metaforico, certo, anche se per un altro progetto, legati ai Martini, avevamo davvero messo un euro al minuto, per sessanta minuti. Perché? Perché è il tempo di assaggiare, di conoscere, di stare insieme in un modo diverso. La Room adesso ha otto posti, no? Noi ci saremmo aspettati tanti esploratori solitari. Invece è difficilissimo che non arrivino in gruppo. I bar in Italia, specie dopo il Covid, non sono più posti dove mischiarsi, e farsi sfidare. Noi cerchiamo di invertire un po’ la rotta. Ricordandoci, sempre, della tradizione».

Ciò che dice Carella si nota nell’Americano ruta e aneto, ma anche nei Negroni sbagliato con pesche e Negroni washed mirtilli, burro, mandorle e barbabietola (che, a discapito della descrizione, è ancora qualcosa che sta in un bicchiere, e che stuzzica decisamente le papille). In un’ora e mezza, Carella vorremmo portarcelo a casa. Non solo per mischiare drink, chiaro, ma anche come confidente. Perché quella di chi va a bere, o a mangiare, è un’abitudine strana: nella maggior parte dei casi non conosci chi ti sta servendo, eppure ti fidi. Non mangeremmo, forse, un piatto di pasta allungato da qualcuno per strada.

«Be’, d’altronde chi custodisce i segreti del mondo non sono certo i preti. Per me sono parrucchieri, cuochi e bartender. Si crea un fiducia quasi istantanea, fuori scala per le dinamiche della vita sociale. Allora anche tu, dall’altra parte del banco, devi dare qualcosa in cambio. Per me in parte significa formarsi, guardarsi intorno, essere curiosi. È sconfortante da dire, ma il livello della miscelazione non è altissimo, generalmente parlando. Questo perché spesso il bar non lavora con la stessa ossessione della cucina, sembra una cosa più facile. Per me invece il bar è cucina e lo deve essere, solo in una forma diversa. Allora sì che puoi portare quel tipo di strana fiducia verso chi ti serve al livello superiore, e superare lo scoglio vero nella ristorazione italiana: lo stigma per chi va a mangiare, o bere, da solo».

Servirebbe una liberazione della bevuta. E ripartire da quel mix di credenze e intuizione che ha caratterizzato da sempre il nostro rapporto con le erbe, e con l’amaricante. Trattarle, insomma, come medicine, cose che possono aprirci lo stomaco e indurci sensazioni inaspettate. Non psichedelia, però da impiegare sempre con rispetto. E, soprattutto, più per l’anima che per il corpo.

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