C’era una volta un’epoca, in cui a scrivere le recensioni dei ristoranti erano solo critici gastronomici e giornalisti di settore. Nei ristoranti capitavi per caso, li conoscevi di fama, ci arrivavi per passaparola o grazie al trafiletto trovato su qualche rivista, quotidiano o apposita guida, immancabilmente ficcata nelle tasche posteriori dei sedili dell’auto di famiglia.
Mia sorella – fortunella della Generazione Z – non ha mai dovuto consultare questi ingombranti volumi: appartiene all’era delle recensioni online, di Google e Tripadvisor, dell’opinione espressa da chiunque su qualunque argomento. Che poi è la stessa che ha trasformato il cibo in food, gli chef in popstar e qualsiasi diavoleria in un trend gastronomico irrinunciabile. Sta di fatto che se si fa ristorazione, di questi tempi, bisogna avere spalle larghe ed essere pronti a ricevere critiche positive e non da chicchessia. E così sia. A questo punto però andrebbe forse riconsiderato il detto ormai divenuto assioma secondo il quale «Il cliente ha sempre ragione», slogan coniato agli inizi del XX secolo (da Harry Gordon Selfridge, fondatore dei grandi magazzini Selfridges di Londra) oggi più che mai in grado di generare mostri.
Il cliente può avere ragione o torto assoluto. Il cliente può essere educato o maleducato, ragionevole o irragionevole. Il cliente può anche essere uno stronzo fatto e finito, a dirla tutta. Cosa accadrebbe dunque se, con la stessa facilità con cui un cliente incarognito stronca un ristorante, un ristoratore stremato si mettesse a dare pagelle ad alcuni dei propri ospiti? «Ne ho visti tanti negli anni, ormai li riconosco in un batter d’occhio», sostiene Luca Scanni di Pavé – meta di culto per gli adepti della colazione e della pasticceria – riferendosi a coloro che entrano in un locale con una sola, fondamentale, missione: distruggerlo. Segni particolari? Lo sguardo inquisitorio con cui compiono una radiografia del posto appena entrati e la spasmodica ricerca del pelo nella brio… ehm, nell’uovo.
View this post on Instagram
A far più girare le balle ai ristoratori pare essere un altro irritante e frequente comportamento: il no-show, ossia la mancata disdetta di una prenotazione. C’è chi se ne sbatte e quando viene chiamato per sapere dove si sia cacciato ammette candidamente di essersi scordato, ma anche chi avanza dubbie scuse, del tipo che «il treno è in ritardo o, peggio, il volo è stato cancellato, come se non ci fosse nulla di strano nel non presentarsi e la nostra insistenza nel chiedere la conferma del tavolo fosse quasi una violazione alla loro privacy», dice Pietro Caroli di Trippa, la madre di tutte le trattorie, che ha riportato in voga il quinto quarto. Che poi, per alcuni si tratta di una seccatura gestibile, ma per altri può rappresentare una perdita rilevante, come per Motelombroso – locale di design ai confini della città in cui sicuramente non si arriva per caso – o per Bür – raffinato ristorante d’alta cucina – in cui «capita piuttosto raramente, però considera che noi abbiamo solo sette tavoli per un massimo di venti coperti», spiega Carlotta Perilli.
View this post on Instagram
Ad andare a braccetto al no-show è l’abitudine che hanno molti tavoli di presentarsi più o meno numerosi di quanto previsto. «Può non sembrare un problema quando ci si presenta in sei avendo riservato per quattro, ma per la cucina – dato che la cena è a menu fisso – è complicato gestire la preparazione di portate aggiuntive», racconta Rocco Galasso di Enoteca Naturale, regno dei vini naturali dotato di un accogliente giardino. A creare disguidi è anche la situazione inversa, aggiunge Caroli: «Avevo prenotati per lo stesso turno tre tavoli da quattro e un tavolo da tre, nel quale è proprio impossibile stare in quattro; il tavolo da tre per tutto il pomeriggio ha sperato ci fossero modifiche di prenotazione da parte di altri, in modo tale da poter portare un amico in più. Purtroppo però non è accaduto e non ho potuto soddisfare la richiesta. Il tavolo da tre si è presentato per primo, seguito da quelli che avrebbero dovuto essere i tre tavoli da quattro, ognuno con una persona in meno per motivi diversi. Capita, ci mancherebbe, ma sapendo anche solo di una di queste defezioni per tempo, saremmo riusciti ad accontentare il tavolo da tre».
La questione toilette rimane, ahinoi, critica. Al di là delle immancabili pisciate fuori dal vaso, il meccanismo piuttosto elementare che porta a ritrovarli in condizioni spesso pietose a fine turno è il seguente: tutto rimane pulito e ordinato fino a quando non arriva il primo criminale che lancia il segnale in grado di scatenare l’inferno. «Il grande classico è la salvietta buttata sopra anziché all’interno del bidoncino dell’immondizia: ne basta una per poi ritrovarne una montagna a fine serata», prosegue Caroli. «Una volta abbiamo trovato il rubinetto aperto, un mucchio di fazzoletti che intasava il lavandino e il bagno completamente allagato: palesemente una carognata», aggiunge Scanni.
I furti? Magari non all’ordine del giorno ma pur sempre una realtà. «Ci sono rimasta malissimo perché per un evento avevo portato la mia collezione di posaceneri vintage, fighissimi e, a fine serata, metà erano spariti» – ammette la padrona di casa di Motelombroso. «Che poi ci vuole anche dell’impegno perché dove cavolo te li cacci i mozziconi? Pure il sapone liquido di Parco è stato svitato non so come dal muro e sparito». Touché per Caroli, che vedendo scomparire due delle cornici contenenti cartoline anni ’20 ereditate dal nonno, ha giustamente risposto togliendo le rimanenti e sostituendole con la frase «Fatti non foste a vivere come bruti» ben incollata al muro.
Più che una valutazione negativa andrebbe conferito un premio confusione a chi spaccia per allergie, gravi intolleranze o diete specifiche, semplici preferenze. C’è chi ha chiesto pane senza glutine dopo essersi divorato una porzione di pappa al pomodoro; chi si è presentato come vegetariano a Fabio Locatelli di Trattoria Madonnina – classico posto sincero che serve specialità lombarde – per poi ordinare un ossobuco (tutto bene?); chi dichiara di non poter mangiare determinati ingredienti, per poi assaggiare il piatto del vicino (che li contiene e gli sembra più intrigante) quando gli è stato preparato un menu personalizzato; infine chi non ritiene opportuno specificare in fase di prenotazione di essere vegano, salvo poi pretendere molteplici opzioni in un ristorante la cui cucina – non è un segreto, basta consultare il menu online – poggia principalmente su proteine di origine animale.
View this post on Instagram
Last but not least, una raffica di richieste assurde tratte da storie vere. «Mi porta il vino meno naturale possibile?», in un posto che si chiama Enoteca Naturale. «Potrei avere i tortelli di zucca senza zucca?». Certo, chiamiamo il Mago Silvan. «Riuscite ad abbassare il volume della musica che sto montando un video e sennò non riesco a lavorare?», chiede da Pavé un avventore che crede di trovarsi a casa sua. Pavé dev’essere comunque un posto in cui ci si sente a proprio agio, perché qualcuno per stare bello comodo si è pure tolto le scarpe per poi appoggiare i piedi sulla sedia di fronte. L’Oscar della cafonaggine va all’episodio raccontato da Galasso: «Un gruppo è arrivato portando con sé cibo di McDonald’s per i bambini e, quando gli abbiamo fatto presente che non era permesso, invece di capire e chiedere scusa, hanno risposto con aggressività. Ero sconvolto e totalmente impreparato a una reazione del genere. E come se non bastasse, andandosene, hanno abbandonato i loro rifiuti a terra in giardino». Voto: inqualificabile. Dulcis in fundo, la faccia tosta di chi ha pensato di proporre a Locatelli quest’affarone: festa per quaranta persone, il cibo lo portiamo noi e no, mica abbiamo intenzione di pagarti l’affitto per l’esclusiva del locale, tanto da te prendiamo da bere, no? No.
Insomma, non è questione di chi ha ragione. Le relazioni che funzionano – di qualsiasi natura esse siano – non possono prescindere da una dose generosa di rispetto reciproco e da una regola aurea: mettersi nei panni dell’altro. Chi si lamenta perché deve lasciare il tavolo a una certa ora; perché non sono accettate prenotazioni per gruppi troppo numerosi; perché non gli viene fatta la cotoletta con patatine per il bambino, e così via, di sicuro continuerà a sfoderare la sua acidità in recensioni al vetriolo, ma, forse, riterrebbe meno inammissibile tutto ciò se solo provasse a capire cosa sta dietro a regole e condizioni dettate da un’attività ristorativa. Spoiler: un mazzo così, esperienza e volontà di rendere la propria azienda efficiente e sostenibile sia per chi ci lavora che per chi se ne avvale. Morale: meno leoni da tastiera e più gente capace di stare al mondo, grazie.