Ma quale Giappone: per essere cool, provate a capirci di whisky indiano | Rolling Stone Italia
"tre anni in scozia sono dieci in india"

Ma quale Giappone: per essere cool, provate a capirci di whisky indiano

L'invecchiamento è un'opinione, produrlo è riappropriarsi di un passato coloniale, ed è ancora un genere di lusso per chi se lo può permettere. Storia e ragioni del whisky prodotto in India, il distillato a cui non avreste mai pensato ma che vuole arrivare per restare

Rampur Distillery

Rampur Distillery

Credits: Mike Tamasco

Pare incredibile che lo stesso popolo capace di sviluppare in maniera ossessiva le poliritmie musicali sia altrettanto sordo alla distonia totale di un migliaio di clacson che suonano al contempo nel traffico di Delhi. Ma, citando una delle frasi più stereotipate che mi sono sentito ripetere prima della partenza, “l’India è un paese di contrasti”.

Detta in un altro modo: lo stato più popoloso della Terra (1.428.627.663 abitanti) continua, sì, a cercare la propria identità nel dialogo con il mondo globalizzato, ma è pure difficile farsi influenzare da idee e culture altrui quando la propria “casa” ha le dimensioni di un continente, la storia di un impero e la cultura di un pianeta alieno.

Se il vicino cinese ha avuto e tuttora ha l’ideologia politica e la forza del partito a tenere i fili di una cultura condivisa, l’India pare invece assorbire tutto da tutti, senza cambiare mai da millenni. E anche oggi, mentre comincia a essere pienamente consapevole del proprio ruolo di grande potenza, lo fa con timidezza, provando a tracciare la propria strada, senza conoscerne fino in fondo (almeno, sembra) la direzione.

india

Credits: Mike Tamasco

In questi ragionamenti, incombe sempre uno spauracchio: quello, ahinoi ben noto dalle nostre parti, della sovranità alimentare. Eppure, queste due parole non hanno nulla a che vedere con la storia che stiamo per raccontarvi. Piuttosto, si collegano al decorso storico del colonialismo, e a una sorta di appropriazione culturale all’inverso: ora che le ex colonie si sentono libere di avviare il ragionamento sul passato recente, trovano la forza (e la legittimazione) di far proprio qualcosa che si ama e che non sarebbe, “tradizionalmente”, nel loro DNA.

Dall’India, allora, abbiamo provato a rispondere a una domanda: possono un miliardo di indiani cambiare la storia del whisky, e darlo a bere con ottimi risultati anche a chi, una volta, li aveva resi una colonia?

La storia del whisky in India
Sebbene negli ultimi anni il whisky giapponese abbia sdoganato il concetto del distillato “all’asiatica”, nessuno, in Occidente, tende a inserire il subcontinente indiano tra i grandi produttori mondiali. Ignoranza nostra: il legame tra il distillato e il paese è profondo, anche se ovviamente Il whisky non è storicamente la bevanda tradizionale indiana.

Lo sono però altri distillati e fermentati, come i liquori infusi nel Rajasthan (a base di anacardi) o a Goa (base cocco). La storia del whisky cominciò invece per via coloniale, con gli inglesi che, come erano soliti fare, lo portarono in India come loro export commerciale. Ugualmente inserita dai britannici fu la birra: il primo birrificio indiano aprì nel 1820 ancora sotto il British Raj, e così cominciò l’importazione di malto d’orzo. Poco dopo, il birrificio fu trasformato anche in distilleria seppur tra molte critiche, visto che l’utilizzo dei cereali per la distillazione non era all’epoca visto di buon grado date le frequenti carenze di cibo.

rampur distillery

Credits: Mike Tamasco

Beninteso: si parla di un’epoca in cui il consumo dei distillati era ad appannaggio esclusivo degli ufficiali britannici e delle élite indiane, come digestivo o aperitivo. Fu solo dopo la decolonizzazione che il prodotto cominciò a farsi nazionalpopolare, grazie, per esempio, alla sua rappresentazione nei film di Bollywood, dove il rituale del bere whisky appariva spesso. Roteare in mano un bicchiere di Scotch divenne così, rapidamente, uno status symbol.

Verso la fine del XX secolo, la domanda crebbe abbastanza da far decollare le distillerie di “whisky” nazionali, le virgolette sono del tutto intenzionali. Se infatti i ricchi continuavano a scegliere le migliori bottiglie provenienti dal mercato americano e statunitense, i meno abbienti avevano bisogno di un sostituto che potesse, almeno a livello simbolico, elevarli alla vita che vedevano sul grande schermo.

rampur distillery

Credits: Mike Tamasco

Fu questa l’origine di molte referenze “Indian Whisky”, in realtà un mix di alcol neutro, alcol di melassa, malto d’orzo in piccola percentuale e aromi vari. Prodotti da prezzo, che, complice una legislazione assente, andavano a soddisfare la sete del mercato interno. Ma non è tutto. Da qualche decennio infatti esistono anche prodotti di alta qualità, che seguono le orme della pioniera Amrut Distillery: fondata nel 1948, dal 2004 commercializza lo Amrut Indian Single Malt Whisky, creato con orzo autoctono. Altro esempio virtuoso è Jhon Distilleries, che, dopo aver prodotto distillati per “whisky fake” negli anni Novanta, dal 2012 ha avviato la produzione del suo single malt. Dopo queste troviamo invece Rampur, terzo produttore del paese: è proprio lì che ci siamo diretti per capirne di più del whisky indiano.

La Rampur Distillery, e che cosa ne possiamo imparare
Parliamoci chiaro: il marketing è il marketing, in tutto il mondo. Dunque, che cosa ne dobbiamo fare delle comunicazioni che, dal sito e sui social di Rampur, affermano che la distilleria utilizzi acqua proveniente dall’Himalaya? Cominciamo con il dire che è tutto assolutamente vero, ma nel senso che tutti i fiumi del Nord dell’India sono figli dell’acqua di scioglimento dei ghiacciai della catena montuosa. Facile, no?

rampur distillery

Credits: Mike Tamasco

In realtà, Rampur con le montagne c’entra ben poco. Si tratta di una placida cittadina di 281.549 abitanti, capoluogo del distretto omonimo nello stato federato dell’Uttar Pradesh. Qui però, nascosta tra il via vai dei camion, si cela la nostra distilleria, elegante e moderna. Entrando, ci troviamo in un visitor center capace di far invidia a tutto ciò che si potrebbe vedere in Scozia o in Irlanda: una stanza-acquario che affaccia direttamente sugli alambicchi di distillazione, comode poltrone in pelle, un bancone in legno scuro e massiccio. E siamo subito proiettati in un club londinese del secolo scorso.

Dalla degustazione ci portiamo a casa elementi interessanti. In primo luogo, l’invecchiamento: ogni anno, le botti in cui riposa il whisky cedono una percentuale di alcool che evapora attraverso le doghe. Viene chiamato romanticamente “angels’ share” (parte degli angeli), come se quella fosse la decima da pagare per avere un prodotto eccellente. Se in Scozia o Irlanda l’angels’ share è del 1-2% annuo sul liquido contenuto nella botte, questa percentuale aumenta vertiginosamente in climi più caldi, fino a toccare il 12% annuo in paesi come l’India.

rampur distillery

Credits: Mike Tamasco

Questo fa sì che l’invecchiamento, da queste parti, sia solo un numero, o come piace dire ai local, “tre anni in India sono dieci in Scozia”. Pensatela così: è ben diverso cuocere a fiamma bassa o su un fornello a piena potenza, infatti con lo stesso tempo di cottura si otterrebbero risultati diversi.

Il secondo punto interessante sono le numeriche: attualmente Rampur ha più o meno 40.000 cask in invecchiamento. È un numero incredibile, soprattutto se pensiamo che per molti di noi, probabilmente, oggi è la prima volta che si è sentito parlare di questa distilleria. Dove va tutto questo whisky? Domanda sbagliata. Riformuliamo: dove andrà questo whisky?

Chi gestisce questo prodotto è infatti abituato a pensare sulla lunga corsa, e in questo l’ambizione degli indiani pare non avere limiti. In breve, hanno visto quanto hanno fatto in Giappone, e hanno rilanciato, seguendo nella loro scia con il vantaggio di poter imparare dagli errori già fatti da altri. Nel caso dei produttori nipponici, infatti, quando il mondo si accorse dell’esistenza di quei prodotti straordinari i magazzini furono vuotati velocemente, creando un buco d’offerta che è durato quasi un decennio. Non è detto che succederà lo stesso, ma in India, in ogni caso, vogliono farsi trovare pronti.

rampur distillery

Credits: Mike Tamasco

Arriviamo infine alla domanda-clou: che tipo di whisky produce Rampur? Intanto è interessante sapere che utilizzano solo orzo indiano, proveniente dal Rajasthan (meno scenografico dell’acqua himalayana, ma più interessante sul prodotto finito). Poi, Rampur lavora sì con due invecchiamenti-base che ricalcano lo stile europeo; ma hanno aperto le porte anche a invecchiamenti diversi e molto interessanti. Un esempio: lo “ASAVA”, che in Hindi significa “vino” e che riceve un finish in botti che contenevano vino rosso indiano (sì, gli indiani fanno vino rosso, ma è un’altra storia). Oppure una limited edition che effettua l’ultimo passaggio in ex Porto cask, ex Calvados o ex IPA (ho provato a chiedere se fosse un’IPA indiana, il che ne avrebbe fatto una Indian Indian Pale Ale, ma purtroppo no, la botte proveniva dal Regno Unito). Infine, per il 75° anniversario della distilleria è stata rilasciata una bottiglia celebrativa figlia di tre cask, a oggi il whisky più caro prodotto in India.

Quindi, che cosa abbiamo capito del whisky indiano?
La sera cala su Rampur, e siamo invitati a fare un barbecue in una casa privata insieme al management della distilleria. Il prato corto all’inglese è tagliato perfettamente, l’aria condizionata pompa attraverso le portefinestre aperte, un cantante è stato assoldato per intrattenerci con grandi successi di Bollywood e (per motivi ignoti) My December dei Linkin Park.

rampur distillery

Credits: Mike Tamasco

Un esercito di inservienti porta cibo indiano in eleganti piattini, mentre quattro addetti grigliano pollo e guava sulle braci. Tutti bevono whisky & soda. Forse questa cena dell’upper class indiana mi ha insegnato di più sul whisky dell’analisi specifica dei legni d’invecchiamento. Osservo mentre ballano, cantano e ridono, alcuni nei loro completi occidentali, altri in abiti tradizionali: sono loro la nuova India, ricca, cosmopolita, e lontanissima dalle centinaia di milioni di indigenti che vivono fuori dalle mura spinate che circondano la villa? È per loro che il nuovo whisky esiste, fa parte della loro storia antica e recente, di quello che sono e di quello che vogliono diventare. L’India sta cambiando e lo sta facendo molto velocemente, e d’altronde si sa, come ci hanno ripetuto tutti da queste parti, tre anni in India sono paragonabili a dieci in Europa. Perché non dovremmo crederci?

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