La pasta è molto più di un alimento: è uno dei simboli cardine dell’italianità assieme al gesto italiano della “mano a borsa”, alla pizza, al mandolino e a Rocco Siffredi. Cibo democratico per eccellenza (la pasta, non Rocco), costa poco, piace praticamente a tutti, quella secca è facile da conservare e trasportare ed è declinabile in mille modi. Le nostre posizioni sulla pasta sono marmorizzate quando dobbiamo difenderla “come un sol uomo” dalle violenze indicibili perpetrate da barbari nordeuropei o peggio del nuovo continente. Quando pontifichiamo internamente sulla supremazia regionale di quella o questa ricetta o piatto tipico, però, le cose cambiano.
Cominciamo da qui: ricordo un lavoro fatto per Barilla circa quindici anni fa. Feci, a un alto funzionario dell’azienda parmense, una domanda che mi frullava in testa da tempo e alla quale nessuno fino ad allora aveva fornito una risposta esaustiva: i formati di pasta sono brevettati? Lui mi disse che la maggior parte dei formati di largo consumo (spaghetti, rigatoni, fusilli, farfalle) non sono esclusivi di un singolo produttore di pasta – ovviamente – ma i reparti di ricerca e sviluppo di molte aziende da anni sono impegnati a sviluppare forme e design che possano essere commercializzati esclusivamente sotto il loro marchio.
Si tratta di un processo costoso e difficile: vanno fatti diversi test di carico per verificare la tenuta della pasta alla cottura, la sua permeabilità ai vari condimenti, la resistenza che offre al palato. Il fattore decisivo però è sempre legato al mercato. Come può una nuova forma di pasta competere con i classici, amati ormai in tutto il mondo da decenni o addirittura secoli?
La verità è che i formati di pasta sono identitari, esattamente come le magliette dei gruppi rock, le sneaker, l’arredamento. Qualche settimana fa ho organizzato assieme al mio amico Massimo Fiorio – scrittore, musicista e come dicono i giovani usando una locuzione che mi mette un po’ di tristezza, content creator (lo trovate su Instagram come @dietnam) – un torneo dei formati di pasta secca o fresca (sono state escluse le paste ripiene in quanto l’imbottitura avrebbe costituito materia di giudizio fuorviante rispetto al design).
Compilando un apposito form, i membri della nutrita community di Massimo potevano segnalare i loro tre formati di pasta preferiti. I 16 formati con più voti si sono poi scontrati in sfide secche sul modello di un torneo sportivo (il formato che aveva preso più voti affrontava quello che ne aveva presi meno, il secondo più votato contro il penultimo e così via, fino agli ottavi, quarti, semifinale e finalissima), dove gli utenti hanno votato il loro formato prediletto.
Se il risultato finale è stato scontato (hanno trionfato gli spaghetti), questa risibile competizione ha messo in luce l’amore degli utenti nei confronti delle loro paste del cuore, quelle cucinate dalle nonne la domenica, quelle che immancabilmente sancivano i momenti di festa, riunioni di famiglia, eventi speciali. Soprattutto però ha evidenziato l’odio cieco e atavico nei confronti di alcuni formati che secondo loro rappresentano alcune delle pagine più nere della storia del nostro gallonato design (personalmente penso che un girone dell’inferno molto specifico spetti a chi ha inventato le ruote, le conchiglie e le pipe rigate).
Sebbene ognuno abbia le proprie nemesi di grano duro, mi sono permesso di redigere un breve elenco dei formati di pasta peggiori del mondo a mio sindacabilissimo giudizio, perché se è vero che, come diceva Fellini, la vita è una combinazione di pasta e magia, è anche vero che alcuni incantesimi si rivelano maledizioni.
I cascatelli
Dan Pashman, chi era costui? Non un cuoco né un gastronomo, un ristoratore o uno storico dell’alimentazione. Se fosse stato anche uno solo di queste cose sicuramente non avrebbe mai osato inventare un formato di pasta destinato a popolare gli incubi degli italiani. Ma sfortunatamente per noi Dan è solo l’autore newyorkese di The Sporkful, podcast pluripremiato dedicato al cibo in ogni sua declinazione, con un ambizioso sogno nel cassetto: inventare il miglior formato di pasta possibile.
Per preparare il terreno, nel 2018 Dan fa delle dichiarazioni shock ai suoi ascoltatori, dissando l’ambasciatore incontrastato della pasta italiana da secoli: «Lo dirò senza girarci intorno: gli spaghetti fanno schifo. Il film Lilly e il vagabondo ha fatto un grave disservizio alla storia culinaria americana quando ha romanticizzato gli spaghetti. Sapete, quello che avremmo dovuto imparare da quel film è che sono un formato di pasta adatto ai cani». Lo so, già così avete voglia di mettervi un passamontagna e aspettarlo sotto casa con una mazza. E non avete ancora visto la sua creazione.
Dopo aver sputato nel primo piatto mangiato da milioni di persone, Dan si mette alacremente al lavoro per inventare una pasta che soddisfi tre principi base (anche quelli di sua invenzione): la sauceability, ovvero quanto il condimento aderisce alla superfice della pasta; la forkability, misura di quanto sia facile catturare il formato con la forchetta e tenerlo lì; e la toothsinkability, che, infine, rileva il grado di soddisfazione nell’addentare la pasta. Dopo tre anni di tentativi, test e prototipi per la maggior parte autofinanziati, Pashman finalmente raggiunge il suo obiettivo realizzando i cascatelli («una licenza poetica su un termine italiano per definire le piccole cascate», anvedi che l’Italia, comunque…).
Si tratta di una pasta corta che ricorda un incesto tra un tentacolo di Cthulhu e uno scivolo per bambini progettato da H.R. Giger. Così a occhio a me verrebbe voglia di leccare della limatura di ferro piuttosto che farmi un piatto di cascatelli, ma a quanto pare la pasta è un successo. Prodotta dal pastificio artigianale Sfoglini a Brooklyn, i cascatelli sono subito sold out, e ci sono tempi di attesa lunghissimi per evadere le nuove richieste. Time Magazine li mette fra le 100 migliori invenzioni del 2021 (a dimostrazione del fatto che se i giornali sono in crisi in Italia, non è che in America siano messi meglio). Ma la cosa ancora più inquietante dell’aspetto è il tempo di cottura: una forbice che va dai 13 minuti (quella consigliata dall’autore, per averli al dente) ai 17. A ‘sto punto, meglio un risotto.
Le Marille
Chiara Alessi, esperta di cultura materiale e design, dice che «tutti i designer, anche quelli che lo negano, hanno un’ossessione, un sogno o, meglio, una specie di perversione, data la sua inattuabilità: quella di ridisegnare l’archetipo di qualche oggetto […] Pochissimi si sono spinti verso il mostro di ultimo livello, soprattutto per un designer italiano: ridisegnare la pasta». Forse è per coronare questo sogno utopico che nel 1983 Giorgetto Giugiaro, il Michael Jordan dei disegnatori di automobili, accetta entusiasticamente la committenza del pastificio Voiello di Torre Annunziata. Lo scopo è quello di produrre una pasta d’autore che rivoluzioni il mondo dei primi. Giorgetto si mette subito al lavoro e dopo mesi di disegni, bozzetti, test, prototipi, finalmente nascono le Marille: si tratta di una sorta di doppio rigatone con un ricciolo finale in più, particolarmente grosso (4 cm di diametro), con le scanalature nella parte concava anziché quella convessa per intrappolare il condimento in un abbraccio di mortale piacere.
Per la forma, Giugiaro si è ispirato a delle guarnizioni di poliuretano espanso in uso presso l’industria automobilistica. Il nuovo formato di design ottiene un media coverage invidiabile per l’epoca, centinaia di articoli della stampa dedicata, ma l’entusiasmo per le Marille si spegne come un fuoco fatuo dopo che viene a galla la tragica verità: un difetto strutturale rende impossibile la cottura delle giunzioni del doppio maccherone, mentre le parti esterne si spappolano come neve all’inferno dopo pochi minuti. Le Marille vengono così ritirate dal mercato, confermando la profezia di Alessi. I feticisti del grano duro possono approfondire rivolgendosi a qualche malato della pasta che su eBay vende confezioni di Marille ancora chiuse a 250€ al pacco. Non pochissimo, ma vuoi mettere che scena fai sventolandole al Fuori Salone?
Le ruote pazze
Restiamo in ambito (dell’incidente) automobilistico. Non paghi di averci inflitto le ruote, devastante formato ispirato alla meccanica e al design industriale che risale agli inizi del Novecento in pieno fermento futurista (parallelamente nascono i radiatori e le lancette), alcuni spregiudicati pastifici senza morale hanno deciso di rincarare la dose proponendo un formato che si posiziona a un solo grado di separazione dai cazzetti di pasta tricolore che aspettano di essere comprati da qualche incauto turista nei cestoni “tutto a un euro” degli Autogrill dello Stivale: le ruote pazze.
Rispetto alle cugine, le ruote pazze presentano una sezione non perfettamente circolare e soprattutto tre spessori diversi, per dare alla masticazione quell’inconfondibile sensazione di mangiare della ghiaia. Come tanti formati diversamente riusciti, anche le ruote pazze si prestano a essere impiegate in quella che è un po’ la Siberia dei primi piatti, la mortificante insalata di pasta da consumarsi fredda. Come la vendetta nei confronti del creatore di questo formato.
I rigacuori
Durante un San Valentino di qualche anno fa la Molisana, storico produttore di Campobasso, affida ai social una comunicazione che ritrae un rigatone a forma di cuore, accompagnato dalla didascalia «Innamoratevi, ogni giorno». Invece di innamorarsi di qualcuno, gli utenti sono impazziti per quel rigatone petaloso. La frequenza del commento “dove posso trovare quel formato di pasta?” spinge così la Molisana a rivolgersi alla coppia di acclamati designer (nel lavoro e nella vita) Luciana Di Virgilio e Gianni Veneziano che progettano il rigacuore. Come suggerisce il nome, si tratta di un rigatone la cui trafila è stata realizzata a forma di cuore: la doppia piega così ottenuta aumenta la corposità in bocca e la capacità di trattenere il sugo.
Per quanto il formato sia stato al centro di una serie di lodevoli iniziative, quali l’amore per l’ambiente (la confezione è riciclabile nella carta al 100%) e “il rigacuore sospeso” per devolvere pasti gratuiti ai più bisognosi, mi stupisce come basti apportare una piccola modifica a un tipo di pasta così amato come il rigatone per farmela odiare ciecamente. Al di là della sezione, i problemi per me sono legati al suo indice di callosità, che resta elevato dati i ben oltre 14 minuti di cottura previsti. Rigacuore sì, ma di pietra.
I dischi volanti
Il 24 giugno 1947 il pilota americano Kenneth Arnold nota, a bordo del proprio aereo privato, nove oggetti volanti non identificati che sorvolano il monte Rainier, nello stato di Washington: si tratta del primo avvistamento ufficiale di un UFO, che dà origine a una mania che durerà per tutta la Guerra Fredda.
Un secondo avvistamento avviene il 27 ottobre 1954 a Firenze, sopra la cattedrale di Santa Maria del Fiore, prima, e sopra lo stadio comunale dopo, mentre si sta disputando Fiorentina-Pistoiese. Se posso essere disposto a credere che esistano nell’universo altre civiltà avanzate oltre alla nostra, mi riesce difficile immaginare che suddette civiltà si imbarchino in un viaggio lungo anni luce per assistere a un’amichevole in Toscana. Comunque, quattro mesi dopo, Renzo Fabbri, titolare dell’omonimo pastificio, ancora scosso dall’evento decide di rendere omaggio agli extraterrestri creando i dischi volanti, un formato di pasta purtroppo molto terrestre. Simili a dei fusilli entrati in una pressa, i dischi volanti si aprono leggermente in cottura, promettendo di catturare i condimenti come le alien abductions della migliore tradizione fantascientifica.
I mandala
Panzani è un marchio fondato da Giovanni Panzani, italiano trasferitosi in Francia da bambino, nel 1950. Divenuta rapidamente leader nel settore grazie anche a processi innovativi (è stata la prima azienda al mondo a usare il cellophane per il confezionamento degli alimenti e a usare latte metalliche per la salsa di pomodoro), per i nostri cugini d’Oltralpe è sinonimo di carboidrati.
Nel 1987, probabilmente inconsapevole della sfortunata case history delle Marille di Giugiaro, Panzani commissiona la realizzazione di un nuovo formato di pasta al famosissimo designer Philip Starck. Proprio lui, quello che di lì a poco avrebbe creato (ispirato da una vacanza in Italia) uno degli oggetti simbolo degli anni ’90, lo spremiagrumi che sembra un’astronave Klingon.
«La pasta rende la gente felice ma spesso anche sovrappeso. Come posso fare a realizzare un tipo di pasta che sia per il 10% pasta e per il 90% aria? Dovrebbe essere un tubo ma, una volta cotto, crollerebbe», ragiona Philip, probabilmente ignaro dell’esistenza di paccheri, rigatoni e mezze maniche. Poi, il colpo di genio: «Ho pensato a una molla che tenga la pasta aperta e la sostenga. E siccome americani e francesi tendono a stracuocere la pasta, ho realizzato due ali con un doppio spessore, che la mantengano al dente».
Tutto bene dunque? Ovviamente no. Dopo pochi mesi i mandala, questo il nome, vengono ritirati dal mercato, afflitti dallo stesso problema strutturale delle Marille: durante la cottura le “ali” restano di granito mentre la molla diventa purè, per un risultato immangiabile. Màndala al diavolo quella pasta, Philip.
Le creste di gallo
Come se avere lo stesso nome di lesioni verrucose che insorgono sulla cute dell’area ano-genitale non fosse sufficientemente di cattivo auspicio, le creste di gallo, una pasta originaria di Modica, hanno una forma francamente poco appetibile che ricorda sospettosamente i cascatelli (anche se Dan Pashman non lo ammetterà mai). Le balze ondulate ai lati promettono di catturare anche i sughi più liquidi e sfuggenti. Il problema è che le suddette creste si sfaldano immancabilmente a pochi minuti dalla cottura, lasciando i galli mutilati e senza la minima voglia di cantare. Mettete la sveglia che è meglio.
Quattrotini e Vesuvio
Chiudiamo questa rassegna com’è iniziata e con una double feature. Dan Pashman, per cui mi auguro venga presto emesso un mandato di cattura appena varca i confini italiani, dopo i cascatelli ci ha preso gusto. «Ho già esaudito il mio sogno di creare il mio formato di pasta. Così ho avuto un’idea migliore: andare alla ricerca di formati dimenticati, che giacevano in angoli polverosi del canone pastaio, e tirarli fuori». Vestiti quindi i panni del gastroarcheologo, Pashman ha riesumato la tradizionale pasta catanese dei 5 buchi da consumarsi esclusivamente durante le feste di Carnevale.
Rispetto all’originale maccherone alla quinta potenza, Pashman ha reso il formato più piccolo e ha aggiunto le scanalature. A vederlo resta la persistente sensazione di non uno ma cinque buchi nell’acqua. Il secondo formato sono invece i Vesuvi, nati a Gragnano e meno diffusi dei minidisc della Sony. Pashman e il suo team (sempre i ragazzi di Sfoglini) hanno aggiunto un giro alla sommità del vulcano rendendolo allo stesso tempo più compatto, per catturare il sugo, preferibilmente rosso e a temperature laviche.
La cosa bella è che se i cascatelli erano stati creati dopo tre anni di incessante sperimentazione e numerosi test, qui non ce n’è stato nessuno. Come sarà andata? Chi avesse voglia di provarli può ordinarli online sul sito. Poi mi dite come sono.