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Meet Janice Poon, la food designer dei banchetti “cannibali” di ‘Hannibal’

Che cosa mangiano gli attori durante le scene che vedono protagonista il cibo? E qual è il legame tra cibo e arte? Ne abbiamo parlato con colei che ha creato i pasti proibiti (e meravigliosi) di alcuni dei film e serie tv più deliziosi e ributtanti. Ma tranquilli: nessun umano è stato maltrattato per questa intervista
Janice Poon

Janice Poon. Courtesy of Janice Poon

Torte che torte non sono (ve lo ricordate Is this cake?!), spume sifonate che ammantano cibi misteriosi, preparazioni molecolari per lasciarci dire wow, arancini travestiti da colazioni francesi. A volte, nel cibo, è solo il citato “ingrediente segreto” a mancare per chiudere la quadra di un piatto – o l’erba raccolta dietro casa dello chef, dipende dalla scuola che seguite. Altre, le cose non sono proprio come sembrano. A onor del vero, e con buona pace degli esempi illustri sopracitati, sulle tavole del quotidiano non succede poi così spesso, che si giochi all’inganno.

Diverso è per altri servizi, quelli che avvengono al di là della quarta parete. Sullo schermo il cibo rende decisamente bene – pensiamo all’importanza che riveste nella filmografia di Quentin Tarantino, al Pranzo di Babette, più vicino a noi La passione di Dodin Bouffant, ma anche alla scena di apertura de La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo, dove un panino con la cicoria in una periferia disastrata di Roma racchiude già tutto il film. Status sociale, condizione economica, emozioni, introspezione, relazioni, seduzione: al cinema (o nelle serie tv, eh, The Bear?) il cibo è una cosa molto, molto seria. Per questo non è trattato come genere di consumo, ma come oggetto di scena.

Il che significa un paio di cose: in primis, che spesso gli attori, dopo aver preso il boccone, non lo mandano giù, così da riuscire ad arrivare in fondo a ciak multipli; in secundis, che a volte i bicchieri sono vuoti (e il vino potrebbe non essere vino, già, e così via per tutti gli alcolici), potreste ricordarvi lo “scandalo” della tazzina da caffè e non di caffè sfoggiata da Lady Gaga in House of Gucci.

E qui entra in gioco l’inganno. Perché quello viene da chiedersi è se questi mangino davvero. Non mettiamo in dubbio, invece, la natura di ciò che stanno mangiando. Questa è una mezza magia, sospensione dell’incredulità, o, se vogliamo, il vero segreto gelosamente custodito. Perché, nella maggior parte dei casi, quello che vediamo mangiare non è mai quello che vediamo mangiare. Vuoi perché un attore segue un’alimentazione particolare, vuoi perché alcuni ingredienti non reggerebbero bene il set, vuoi perché, quando la sceneggiatura dice “cannibalismo”, non è di cannibalismo che si tratta; per tutti questi motivi, e perché, come insegna la pubblicità, il cibo non è mai tanto appetitoso come quando è finto, il food stylist è una figura fondamentale.

Per farcelo raccontare meglio abbiamo raggiunto Janice Poon: Poon abita in Canada ed è artista, art director (molti dei suoi lavori hanno visto coinvolti brand di cibo) ma soprattutto food designer. Ha lavorato, tra gli altri, sui set di American Gods e Hannibal, la serie di Bryan Fuller con Mads Mikkelsen nei panni dello psicologo forense (e cannibale) Hannibal Lecter. In generale, se avete nella memoria un banchetto piuttosto sontuoso ed elaborato passato sullo schermo di recente, è probabile che dietro ci sia lo zampino di Poon. Che ha raccolto alcune delle ricette e tecniche di preparazione utilizzate per Hannibal nel volume Feeding Hannibal: A Connoisseur’s Cookbook.

Ora, solo una rassicurazione prima di iniziare: nessun essere umano è stato maltrattato durante la realizzazione di svariati banchetti per cannibali (e nemmeno di questa intervista). Per eventuali allergie o intolleranze, rivolgersi allo staff.

Credits: Brilynn Ferguson. Foto scattata per il volume ‘Feeding Hannibal Cookbook’. Courtesy of Titan Books

Cominciamo dall’inizio: che significato ha il cibo per te?
Per i miei genitori, il cibo era molto importante. Non solo, erano anche cuochi eccellenti e adoravano il momento dei pasti. In più, avevamo un ristorante di famiglia, e dunque sono cresciuta in un ambiente in cui il cibo era costantemente trasformato, che fosse da cuochi o fornai.

Subito, però, hai scelto di formarti come art director. Che interazione hanno arte e cibo?
La vita può essere un torrente in piena di stimoli. L’arte ci dà l’opportunità di concentrarci, trovare un momento per capire che cosa ci dà piacere, che cosa invece ci fa stare male. Così, quando uniamo arte e cibo, quello che stiamo facendo è aggiungere significato ulteriore all’atto del nutrirsi. Ricordiamoci che il cibo arriva sulle nostre tavole grazie agli sforzi di più persone: degli agricoltori, della natura, del tempo che passa, dei distributori e dei fornitori. Alla fine arrivano i cuochi e i professionisti che ci fanno stare bene al ristorante. Applicare l’arte al cibo è come io onoro questa linea che assomiglia a una discendenza, come anche le persone che si riuniscono per usufruire di quel cibo. 

Quand’è che questo connubio ha cominciato a rappresentare parte del tuo lavoro?
Sono entrata in contatto con l’industria del cinema abbastanza per caso. Una mia conoscenza stava lasciando il suo lavoro come food stylist in una serie TV che parlava di un detective nel periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale, solo che il suo personaggio era anche un gran gourmand. Mi ha chiesto se volessi prendere il suo posto, in quel periodo mi stavo dedicando al catering e avevo appena pubblicato il mio primo libro di cucina, ero pronta per cambiare un po’, buttarmi in qualcosa di nuovo. Avevo già lavorato all’intersezione tra cibo e cinema, insieme a un’agenzia avevo seguito come art director alcuni progetti per McDonald’s e Kraft. Ho preso l’occasione al volo. È stata un’esperienza divertente, sfidante, c’è voluta tanta creatività. Così ho deciso di continuare.

Prop realizzati da Janice Poon per simulare organi umani crudi. Courtesy of Janice Poon

Pensi che il significato del cibo cambi, sul grande schermo?
Nei film, il cibo è spesso usato come indicatore di status sociale, ma anche per comunicare la cultura e collegarsi a un certo periodo storico, o mettere in risalto emozioni come desiderio o solitudine. Questo perché, con quello che mangiamo, e nel come lo mangiamo, diciamo davvero tanto di noi. Alcune relazioni possono essere rivelate solo attraverso il cibo, nel modo in cui lo condividiamo… Il cibo può essere offerto come dono, o può essere usato per uccidere. Sul grande schermo, diciamo che il messaggio portato dal cibo è silenzioso, però presente e potentissimo.

Per le tue creazioni usi spesso ingredienti plant-based. È difficile escludere tutti i prodotti di origine animale dai tuoi “menu”?
Capita che sul menu sia scritto “bistecca” e che l’attore sia vegano. È lì che i giochi si fanno difficili. Spesso gli attori sono anche intolleranti al glutine, anche lì arriva la sfida. Altri potrebbero avere allergie, ma la sceneggiatura, naturalmente, non lo prevede. Così il mio lavoro è sperimentare molto con gli ingredienti per riuscire a ricreare sostituti credibili della carne, o dei dolci. Per fortuna, molte cucine asiatiche si basano sul riso e offrono alternative alla carne. Basta entrare in un negozio di prodotti asiatici, e trovi sicuramente qualcosa di utile.

Quanto è importante per te, in questo processo, lavorare insieme ai professionisti degli altri reparti coinvolti nella produzione? Hai completa libertà creativa?
Spesso faccio un giro dalle parti del Production Designer, dai costumi, nel reparto scenografia – questo mi aiuta ad avere la fotografia completa di ciò che sta succedendo, soprattutto a livello di colori ed esplosività. Detto questo, il livello di libertà creativa varia a seconda della produzione, ma di solito è molto alta. A volte mi capita di lavorare con gli sceneggiatori. È sempre un piacere, e un onore.

Dal set di ‘Foundation’ di Apple TV+. Courtesy of Nigel Churcher

Qual è la sfida più grande del tuo lavoro? Da che cosa prendi ispirazione?
La sfida più grande è sempre cercare di prevedere quale potrebbe essere il disastro più grande che potrebbe avvenire sul set. Questo serve perché così puoi prepararti a qualsiasi imprevisto, avere un piano B, essere pronto per le richieste a sorpresa, o insomma, per qualsiasi disgrazia. E l’ispirazione, be’, l’ispirazione può arrivare ovunque. Osservo molto la frutta e la verdura, specie quando sono un po’ strane, riescono a fornirmi punti di vista diversi, nuove idee. Quello che mi ispira di più, però, sono l’arte e la letteratura. Nel caso di Hannibal, ho interpretato tutto come se fosse la natura morta di un maestro fiammingo: sontuosità, mezze ombre, moltissimi dettagli, elementi tanto maturi da risultare quasi decomposti, qualche insetto che striscia attorno.

E gli attori come reagiscono?
Il mio obiettivo è aiutare a creare il mondo perfetto per gli attori, così che, quando arrivano sul set, possano sentirsi proprio come se fossero i loro personaggi. Così, se si tratta di un horror, voglio far percepire loro il pericolo, se è un film romantico, allora miro alla sensualità, e così via. La cosa che non cambia mai è che il cibo deve essere irresistibile. Ti lascio questo aneddoto: la reazione più bella l’ho avuta sul set di Hannibal, quando uno degli attori mi ha detto: “Sembra disgustoso, posso provarlo?”

Quanto impieghi a creare i prop di cibo per una scena? Che routine segui?
A volte posso metterci anche due settimane, specie se si tratta di un film sci-fi o se dovessi ricreare le allucinazioni di un personaggio. A volte devo creare un modello per quello che poi andrò a realizzare. Mi è capitato di dover costruire stampi per finti vermi spaziali che i personaggi avrebbero mangiato. Posso dire di non avere una routine fissa, il che mi fa trovare davvero bene nell’industria del cinema. Però generalmente, quando devo preparare una scena, comincio con la lettura dello script, continuo con un po’ di ricerca e poi passo ad abbozzare alcune idee. Queste poi le mando all’arredatore di scena, che le condivide con regista e showrunner. Questi, a loro volta, mi girano i loro feedback, e di conseguenza rielaboro le mie proposte. Una volta che siamo d’accordo calcolo le quantità, calibro i costi e faccio una lista di tutti gli elementi d’arredo che mi servirebbero per mettere in scena il servizio del cibo, o insomma, qualsiasi tipo di equipaggiamento che potrebbe servire in location. Poi, la parte più bella: il momento di andare a comprare tutto e mettersi a cucinare.

Lo sketch per il banchetto di Pasqua alla fine della prima stagione di ‘American Gods’. Courtesy of Janice Poon

Parliamo di questi ingredienti: quali sono quelli con cui lavori di più? Ce ne sono di più adatti per certi tipi di lavori?
Lavoro molto con le verdure, in realtà spesso anche con la carne. In generale però si tratta sempre di qualcosa che chiunque potrebbe trovare al supermercato. A volte per i film di genere mi è capitato di usare ingredienti più strani, per ottenere colori più spinti e forme meno familiari. Nel caso di Hannibal, ho passato molto tempo in giro per macellerie, così da farmi un’idea di che cosa avrebbe potuto mangiare un cannibale. Per fortuna, gli organi dei maiali sono molto simili per forma e dimensione a cuore, polmoni e fegato degli esseri umani. Naturalmente non li uso. Per una scena in cui gli attori avrebbero dovuto mangiare organi “crudi” li ho replicati con mollica di torta assemblata con marmellata di lamponi.

Qual è il prop più difficile che hai dovuto realizzare? E quello che ti ha dato più soddisfazione?
Il Kholodets di Hannibal [una sorta di aspic ucraino ripieno di carne e uova, con gelatina ottenuta da brodo di carne, ndr], quello è stato il piatto più difficile che ho mai realizzato. Ed è per questo che è anche stato quello che mi ha dato maggior soddisfazione. A dire il vero, secondo le sceneggiatura, in tavola si sarebbero dovute servire acciughe fresche nel mezzo di un Kholodets, ma le acciughe non erano di stagione. E poi la gelatina, quando è così spessa, non è trasparente, e quindi non si sarebbero viste, specie se arrangiate in una specie di nastro di Möbius, che era un altro dei requisiti di sceneggiatura. Ho fatto un sacco di prove che non sono andate a buon fine. Nel mentre però mi divertivo a provare ad assemblare un menu di contorno a questo piatto ispirandomi agli antipasti freddi alla russa, che si chiamano zakuski, contenuti ne Le anime morte di Gogol’. È andata a finire che, mettendo tutto insieme, la tavola è diventata un tripudio, e la gelatina faceva la sua bella figura al centro di tutto.

Janice Poon all’opera sul set di ‘Hannibal’. Courtesy of: Brilynn Ferguson

Ti piace mangiare le tue creazioni? O alla fine è meglio il cibo “convenzionale”.
Cerco sempre di tenere il gusto dei miei prop piacevole, ma anche abbastanza neutro. Dovendo rifare la scena più volte, non voglio che gli attori siano distratti da odori e sapori. Perciò, devo dire che non ho mai molta “gola” per i miei prop, anche perché mangiarli fuori dalla scena non è consigliabile, potrei aver calcolato al pelo le dosi non sapendo quanti take saranno fatti, dunque è meglio non correre rischi sulle quantità.

Un ricordo legato al cibo che ti è particolarmente caro.
Ho molti, bellissimi ricordi dei momenti passati a sperimentare con i miei fratelli. Quando eravamo giovani, eravamo sempre in cucina a provare cose nuove – snack strani, certo, ma anche cose sconsigliabili come mettere oggetti di plastica nel forno e friggere le tende di casa. Anche oggi, a decenni di distanza, cerchiamo di vederci il più possibile, cucinare e stare insieme è un momento bellissimo.

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