Che cosa fai a Capodanno? Se pensavate che finalmente questa domanda avesse cessato di tormentarvi per i prossimi dodici mesi, be’, vi sbagliavate, o forse avevate soltanto una visione troppo limitata del mondo. Per quasi 280.000 persone situate nella penisola italiana, infatti, il momento fatidico di rispondere a questa domanda deve ancora arrivare. Parliamo naturalmente del Capodanno cinese, che, nel mondo globalizzato in cui viviamo, riguarda un poco anche noi, almeno di riflesso. Da qui la domanda-base di questo articolo: quanto ne sappiamo noi di questa festa, di che cosa si fa per celebrarla, ma soprattutto di quali piatti chiama? Facciamo un passo per volta, e proviamo a capire come, seguendo il Drago Verde di Legno (il segno dello zodiaco cinese a cui è dedicato il 2024), ci siamo trovati a vagare tra scaffali di supermercati ultramoderni, pescherie nascoste e templi in compagnia di una chef e di un fotografo. Per fare la spesa per il “cenone” del Capodanno che verrà. È proprio il caso di dirlo: eravamo io…
L’inizio dell’anno nuovo
Prima domanda, necessaria: quando cade dunque il Capodanno cinese? Secondo il calendario tradizionale (che si definisce lunisolare, e che fa coincidere l’inizio del mese con il novilunio), il Capodanno coincide con la seconda luna nuova dopo il solstizio d’inverno. Detto diversamente, non ha una data fissa, e può variare di 29 giorni. Quest’anno, il Capodanno cinese sarà celebrato il 10 febbraio, segnando l’inizio dell’anno del Drago, simbolo di forza, potere magnanimo e armonia.
A partire da questa data i festeggiamenti si protrarranno per due settimane, con i primi sette giorni dedicati alla famiglia o alle visite a parenti lontani. Il culmine delle celebrazioni avverrà durante la Festa delle Lanterne, quando queste saranno accese e verranno posizionate per le strade, nelle case e nei negozi, guidando gli spiriti beneauguranti verso le loro abitazioni o attività commerciali.
La Cina in Italia
Se vi chiedessi di citarmi un piatto cinese avreste la minima difficoltà? Non credo: dai “classici” degli Anni ’90 come gli involtini primavera ai più contemporanei e modaioli dim sum, ogni generazione in Italia ha avuto nell’ultimo mezzo secolo le “sue” esperienze culinarie asiatiche. Ma se vi chiedessi invece di citarmi il nome di uno chef cinese?
Ecco, qui la sfida si farebbe ardua. Eppure i ristoranti cinesi censiti nel 2020 (quando tristemente la stampa si interessò di loro per lo scoccare dell’era Covid-19) erano 20.000, di cui 1.500 solo a Milano e fra i 700 e gli 800 a Roma. Parallelamente, i numeri dei cittadini del fu Celeste Impero trasferitisi dalle nostre parti non sono certo meno interessanti: secondo l’ultimo censimento governativo, i cittadini cinesi regolarmente soggiornanti in Italia sono 279.728 al 1° gennaio 2021, dato che colloca la comunità in terza posizione per numerosità tra le principali per le cittadinanze non comunitarie, dopo la marocchina e l’albanese. Di questi, il 23% si trova in Lombardia, e circa il 20% in Toscana. Dove spicca, nello specifico, la concentrazione delle presenze cinesi in provincia di Prato: 30.680 persone, pari all’11% dell’intera comunità in Italia.
Xin Ge Liu
È proprio di quel “20% toscano” che fa parte la prima protagonista della nostra storia, che potrebbe essere (se siete appassionati di fine dining) proprio il nome che vi è balzato alla testa leggendo la domanda provocatoria di prima. Si tratta di Xin Ge Liu, la cui storia è stata raccontata ormai da moltissime testate tanto di cucina quanto di moda, e che abbiamo visto comparire in televisione in trasmissioni come MasterChef o Striscia la Notizia.
Riassumendo la sua storia personale, Xin Ge è arrivata a Firenze per studiare moda, ma qui ha scoperto la cucina e si è reinventata chef e imprenditrice per creare, nel capoluogo toscano, il suo ristorante Il Gusto di Xinge, elogiato da pubblico e critica con articoli e menzioni nelle principali testate e guide del settore. Un successo dovuto in parte alla straordinaria capacità di inventarsi piccoli dim sum, curatissimi a livello estetico e dai gusti insoliti, che uniscono sapori di Asia ed Europa (come nel caso di maiale e riccio di mare, maiale e foie gras, maiale e capesante, maiale e tartufo).
Per capirci di più sul Capodanno cinese a tavola è a lei che ci siamo rivolti, ma non per intervistarla nel suo ristorante color pesca, bensì chiedendole di accompagnarci a Prato (anzi, nel quartiere cinese di Prato) a fare la spesa insieme al secondo protagonista di questo racconto: il fotografo Michele “Mike” Tamasco, specializzato in food, mixology e lifestyle, che nel suo curriculum vanta numerose collaborazioni con i più importanti brand internazionali legati a hotellerie, ristorazione e bar, oltre che con testate autorevoli a livello nazionale. Ecco cosa abbiamo visto in una giornata di reportage in questo mondo parallelo al nostro, che tanto amiamo ma di cui spesso non ci interessiamo abbastanza.
Il Waterhouse Temple
Curiosamente, il luogo del nostro primo appuntamento non è né un alimentari né un ristorante, bensì un tempio buddhista collocato appena in periferia di Prato, in un grande edificio giallo circondato da magazzini e autorimesse. Se dall’esterno pare placido e silenzioso, appena entrati il mondo si sconvolge. Una folla mattiniera vestita monocromo ascolta e canta ritmicamente seguendo i monaci, mentre nell’aria si libera l’incenso delle preghiere.
«Perché ci hai portato qui?», chiedo ingenuamente a Xin Ge. «Perché volevo mostrarvi le offerte votive che vengono fatte durante le feste», ci racconta. In effetti, di fronte a ognuna delle statue dorate, e soprattutto davanti a quelle del Buddha, ci sono pile di frutta fresca. In Asia, gran parte della connessione con le divinità avviene tramite il cibo, ed esiste una festa apposita volta allo sfamare i demoni, in occasione della quale le offerte votive alimentari sono di fondamentale importanza.
Sfamate le anime, passiamo ai corpi. La prossima tappa è un decisamente più terreno negozio di alimentari, e mentre la nostra auto si muove tra le insegne (sempre più in ideogrammi e meno in alfabeto), ne approfittiamo per chiedere alla chef di raccontarmi cosa si mangia in queste occasioni.
«Per Capodanno, nella zona di Pechino c’è l’usanza di mangiare quattro piatti freddi, quattro caldi, quattro di carne e quattro zuppe. Il motivo? Quattro volte quattro simboleggia la stabilità della famiglia in salute e nel lavoro, e questo è ciò che ci si vuole augurare. Se si mangiano portate di pesce, deve essere per forza essere una carpa, perché simboleggia l’abbondanza e la fortuna che ci si auspica per il nuovo anno. Poi mangiamo l’agnello bollito e le “polpette quattro felicità”. Dopo il cenone si cucinano dei ravioli, da mangiare poi il primo giorno dell’anno nuovo. In alcuni ravioli si mettono soldi o datteri, e chi li trova avrà fortuna. Sono tradizioni che accomunano tutti, a prescindere dal ceto economico o sociale: la tradizione per noi è davvero molto importante».
Il supermercato
Forse traviati dal cinema americano, in cui i negozi cinesi sono poco più che rumorose botteghe, restiamo molto stupiti dal primo supermercato in cui ci conduce Xin Ge. Già, perché di un vero e proprio supermercato si tratta, super moderno, luminoso, con banchi gastronomia e reparto gelo, ortofrutta e snack per i bambini. Insomma, identico a qualsiasi altro punto vendita di una generica catena italiana, tranne per il fatto che i prodotti e la lingua sul packaging non sono gli stessi. Per esempio: anatre intere glassate al posto del pollo arrosto, eccetera…
Arrivati nel reparto ortofrutta, Xin Ge prende a colpo sicuro una confezione di bacche rosse su cui è scritto, in italiano, “biancospino fresco – origine cinese”, e dice: «Con questo nel Nord della Cina si prepara una zuppa. La faccio anch’io seguendo la ricetta di mia nonna. Solitamente si prepara il tutto in una grande padella di ceramica, e si lascia cuocere il tutto lì per due ore». Poi, senza dilungarsi troppo nella ricetta (forse per preservare il segreto di famiglia, forse solo perché dubita delle nostre reali capacità ai fornelli) si mette l’ingrediente sottobraccio e si sposta verso un banco bar che sembra estirpato da una stazione della metro di Shangai e appoggiato direttamente tra le corsie. Lì ordina bubble tea per tutti.
Poi, mentre giriamo tra le corsie dei prodotti confezionati, ci traduce pazientemente il nome di ogni prodotto che vediamo, aggiungendo qualche curiosità. «Questa salsa piccante è buonissima, e lei, la donna sul logo, è attualmente la donna più ricca della Cina». Curiosamente, questa informazione non mi viene da data da Xin Ge, ma dal mio fotografo. Alla domanda di come mai lo sappia, la risposta mi sorprende ancora di più: «Ho una cara amica di Milano che si occupa di enogastronomia e che la ama a tal punto da essersela tatuata». Sorrido pensando che, alla fine, il cibo è una parte così importante della nostra vita da farci diventare ambasciatori di culture diverse con gli sconosciuti, e che forse, quando ci sediamo a tavola, ci sentiamo tutti un po’ meno lontani. L’unica parte deludente di questo megastore è quella dedicata alle bevande, dove a spiccare sono vini e distillati europei, ma la cosa non mi sorprende. Infatti, per la middle class cinese è buona creanza, nei giorni del Capodanno, presentarsi con una bottiglia, e anche in loco la scelta ricade spesso su un prodotto europeo, cognac soprattutto. Sugli analcolici invece l’amor patrio è salvo, con pallet interi di una bevanda al latte che pare essere la preferita di tutti i bambini cinesi, e sulla cui confezione spicca un ragazzino allegro che secondo la chef è il sosia di Michele.
Terminato questo tour della modernità, non possiamo però esimerci dal fare un giro anche negli alimentari del quartiere, sicuramente più simili a ciò che ci si immagina, e forse un po’ più affascinanti. È bello sapere, però, che tutte le culture hanno le stesse dinamiche; e che modernità e prodotti brillanti e saporiti possono condividere la strada con fruttivendoli o bottegai che trasmettono ancora il valore del rapporto umano.
Il pescivendolo
Quarta e ultima tappa del nostro viaggio è la pescheria di fiducia della chef, posta fuori Prato in direzione Firenze, ormai vera e propria istituzione per la comunità con i suoi dieci e passa anni di esercizio. Il titolare racconta con orgoglio che è stato nell’esercito fino ai ventiquattro anni, e che solo in seguito si è trasferito qui. Ora ne ha cinquantaquattro, e come molte persone che hanno passato gli Anta indugia un po’ nell’“era meglio prima”.
Ora la gente, a suo dire, compra meno pesce. Eppure le sue vasche da vivo sono forse le più belle che si possano trovare nell’entroterra toscano, molto più grandi e fornite di quelle dei maggiori ipermercati del capoluogo. Estrae con orgoglio i granchi reali, enormi alieni immobili e bagnaticci, e al contempo combatte le aragoste, indomabili anche se trattenute dagli elastici. Nonostante le sue lamentele iniziali, è contento del Capodanno che sta per arrivare: «Quando festeggiano, i cinesi non badano a spese», racconta. «Le tavole di tutti saranno imbandite, e nei prossimi giorni ogni scusa sarà buona per ritrovarsi, magiare e festeggiare insieme», conclude, finalmente sorridente.
Al viaggio di ritorno sono lasciate alcune considerazioni finali: abbiamo incontrato altri italiani (inteso come caucasici, ovviamente, sono moltissimi i cinesi di seconda generazione ad avere la cittadinanza) nei negozi visitati? Direi di no. Eppure, in ognuno di questi posti le etichette dei prezzi erano apposte in doppia lingua, e il personale era sempre bene o male in grado di parlarmi in italiano. Alla faccia del vecchio stereotipo che vuole la comunità cinese chiusa ed ermetica, le porte di questo quartiere paiono, almeno sul piano alimentare, estremamente aperte al dialogo. Ed è forse per questo che ci servono delle chef giovani e intraprendenti come Xin Ge Liu, per dare un volto alla nuova generazione cinese in Italia. E forse è sempre per questo che ci servono feste come il Capodanno cinese: per avere qualcosa da condividere, e soprattutto da festeggiare insieme, a tavola.