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Mito, rito, tradizione: è il cibo a essere sempre stato la nostra vera religione

La consuetudine alimentare è una favola bella per tenerci stretti in una comunità. E Dioniso, dio del vino e dell'ebbrezza, in origine non era poi così pacioccone. Storia breve di come da tavola, alla fine, ci alziamo sempre sedotti
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Foto: Alex Lvrs su Unsplash

Pubblichiamo un estratto da La ricetta dell’incanto. Leggende, rituali e simboli dell’alimentazione di Francesco Boer e Fabio Bortesi, in libreria con Wudz Edizioni.

Foto: press

La nostra cucina
La dieta mediterranea è la più sana al mondo, e la cucina italiana è d’altronde la più buona; ma se entriamo nello specifico, i cibi più gustosi sono quelli della propria regione, e la regina indiscussa nel prepararli è la mamma.

In queste righe, che potrebbero sembrare un accrocco di luoghi comuni, si cela invece un importante aspetto simbolico, insito nell’alimentazione: la capacità di produrre coesione, e al tempo stesso di esprimere un’identità sociale definita e diversa dalle altre. Potrebbe sembrare una contraddizione: il cibo unisce o divide? Eppure le due tendenze, apparentemente opposte, interagiscono e si fondono. Formare un gruppo sociale significa di per sé distinguersi da chi ne è escluso. Le usanze interne diventano un modo per esprimere e rafforzare quell’indefinibile amalgama che rappresenta l’identità.

“Parla come mangi”, dunque: intendersi sul cibo è altrettanto importante che comprendersi nel linguaggio. Mangiare allo stesso modo serve infatti per riaffermare l’affinità reciproca. Gli stranieri, invece, vengono visti come tali anche perché mangiano in maniera diversa da noi. Ricordate Polifemo? «Non somigliava a un uomo mangiatore di pane», scriveva Omero, e con ciò suggeriva implicitamente che esistono un “noi” e una galassia di “altri”; e che uno dei criteri che distingue questi “altri” sta proprio nelle usanze alimentari.

Così, per esempio, i tedeschi sono a volte chiamati “mangiapatate” — scherzosamente, ma non senza una certa intenzione di ferire. I tedeschi, c’è da dire, hanno ricambiato il favore chiamandoci Spaghettifresser, divoratori di spaghetti; in Francia e in Belgio si passava invece a un altro tipo di pasta, con l’epiteto di macaronì. Qualcosa di simile, d’altronde, accade anche nel campanilismo nostrano: per gli italiani del Sud, quelli del Nord sono “polentoni”.

Le usanze altrui possono attirare con il fascino dell’esotico, ma la cucina a cui siamo culturalmente abituati ha senza dubbio il pregio di rassicurarci, offrendoci una continuità in un mondo che spesso disorienta per la sua velocità di cambiamento. È anche per questo che, quando siamo all’estero, si finisce prima o poi con il cercare la consolazione di un gusto conosciuto, come se in quel piatto ci fosse un riflesso familiare, un angolo di casa. Ho visto miei connazionali cercare una pizzeria in Lituania o ordinare un piatto di ravioli a Kyoto.

Non è semplicemente una questione di gusti: è anche il tentativo di riaffermare la propria identità sociale, in un contesto che per sua natura la mette in crisi. Mangiare è del resto un’attività fortemente sociale. Il pasto in comune è il momento che riunisce la famiglia o gli amici. È un piccolo rituale per creare o rinsaldare comunità. Che sia un pranzo di lavoro, o una romantica cena fra innamorati, sedersi a tavola insieme resta il mezzo più diffuso per creare un “noi”.

Per continuità simbolica, l’unità sociale costituita dalla tavola viene amplificata in comunità via via più grandi: il proprio villaggio, la regione, la nazione. Non ci si siede materialmente alla stessa tavola, ma le usanze alimentari comuni hanno per così dire l’effetto di farci mangiare assieme: se non fisicamente, perlomeno nello stesso modo.

Va da sé che questo “noi” è un oggetto granulare. È composto da persone, ma a sua volta si raggruma in sottogruppi, piccole diversità interiori che formano l’identità complessiva.

La cucina “italiana”, per esempio, non ha un canone unico, ma è formata dalla somma di tutte le cucine regionali, le quali a loro volta derivano da una quantità di piccoli e grandi apporti locali. Si tratta oltretutto di una realtà in continuo rinnovamento, che non si lascia definire e ingabbiare da rigide definizioni. Eppure — o forse proprio in reazione a questa fluidità — l’identità alimentare è al centro di una forte tendenza conservatrice.

Per molti, variare una ricetta popolare significa “sbagliarla”. Sono noti a tutti gli anatemi contro chi mette la panna nella carbonara, o usa la pancetta al posto del guanciale.

Spezzare gli spaghetti prima di buttarli nell’acqua, o tagliarli nel piatto, equivale quasi a commettere un sacrilegio. Non parliamo poi delle reazioni quando vediamo uno straniero cimentarsi — con varianti spesso improbabili — in un’imitazione della cucina italiana.

Reazioni simili si presentano di solito in maniera scherzosa, eppure con un’intensità che può sfiorare il fanatismo. Si avverte che — oltre la giocosità della facciata — c’è davvero un attrito, come di sacralità ferita. Riconoscere l’importanza simbolica del cibo serve anche a rendere più cosciente questa identificazione. Il più delle volte la percepiamo dentro di noi, ma non ne riconosciamo la natura, e così la esprimiamo in maniera passiva. Si reagisce in difesa, si scherza dove servirebbe serietà o ci si adombra dove sarebbe invece necessario il gioco.

Avere un’identità sociale a cui fare riferimento è una cosa sommamente importante, e ciò vale anche nel campo dell’alimentazione. La consapevolezza però serve a far sì che l’identità non diventi intolleranza, ma che anzi possa fungere da fondamenta su cui costruire uno scambio e un’apertura verso l’altro.

Il dio nel bicchiere
Nel calice il vino sembra riposare, ma è come una pantera in agguato. Non è una semplice bevanda dissetante, quella racchiusa nel bicchiere, bensì uno spirito antico, astuto e seduttore. Avvicinare alla bocca un dio arcaico e inaffidabile: c’è forse gesto più avventato? Ma chi lo assaggia anche solo una volta, scorda per sempre la prudenza.

Il vino rosso scorre come il sangue, e risplende come il fuoco. Quale magia seppe infondere la fiamma nell’acqua? A ogni sorso, riecheggiano i misteri del sole e della terra. Il vino è la quintessenza della vita, la verde esplosione che divampa quando la luce celeste accarezza la pelle del pianeta. Il vino è sacro, ma non per questo inoffensivo. Al contrario, la sua è una forza primordiale, meravigliosa e spaventosa assieme.

Come la vita, il vino è dolce e pericoloso; affascina e intossica; sulle prime rinvigorisce ma poi conduce a perdersi, e infine ci offre l’abbandono, il grande sonno. Al primo sorso, la fiamma scende dalla bocca al cuore. L’anima si concede a un dolce incendio, il corpo si accende di calore. La severità con cui ci giudichiamo vacilla, e infine cade: la vita allora sembra facile e le preoccupazioni si dissolvono.

È impossibile fermarsi, dopo un inizio così promettente. Se un bicchiere di vino fa bene, perché non berne un altro, e un altro ancora? Arriva però un punto — e ci coglie sempre alla sprovvista — in cui la fiamma del vino cessa di corroborare quella dell’anima, e prende invece il sopravvento. C’è ancora una voce, in fondo alla coscienza, che ci ammonisce: smetti di bere, hai perso ogni controllo. Ma a cosa valgono i buoni consigli, nella vertigine eccitata? Un bicchiere d’acqua non basta a raffreddare l’incendio dell’ebbrezza. La mente si scalda, i sensi bruciano. L’ispirazione artistica, la voglia di ballare, di arrabbiarsi e fare a botte, il desiderio sessuale: tutte le braci che coviamo nel petto si risvegliano e infiammano, mescolandosi fra di loro in un turbine di vita senza freni. L’autocontrollo che l’essere umano ha guadagnato nel corso di millenni di civiltà è scomparso nel tempo di una sbornia.

Fra una persona e l’altra c’è un golfo invalicabile. Parole e gesti non bastano, nemmeno le promesse e i sacrifici riescono a gettare un ponte sopra l’incomunicabilità che ci isola. Eppure, come per incanto, il vino cancella in un minuto ogni confine. Nella confusione della mente, i cuori finalmente si capiscono. Si scorda ogni paura, si mostra nuda l’anima. Da sobri, anche i fratelli ci sono estranei; ma nell’estasi del vino, la fiducia non è più impossibile, anzi diventa semplice e spontanea, come fra bimbi piccoli. Quando l’incanto passa, però, la mente trema di terrore.

Quanti segreti, quali intimità indicibili sono state svelate per colpa del vino! Gioia frenetica, calore, vita che esplode infrangendo ogni limite. E poi? Ci si risveglia il giorno dopo, con la testa che pulsa di dolore, e un sentimento di vergogna e colpa. “Il vino mi ha sedotto”, ma non basta come scusa. Vino e civiltà sono nemici e amanti. Da sempre il buon costume ci mette in guardia dalle bevande inebrianti: sono la strada che porta a eccessi da cui non si torna indietro facilmente.

Eppure il vino è parte dei costumi, una delle fondamenta della società, un vero e proprio tratto di cultura. Neanche le società più rigide sono riuscite a metterlo al bando: la legge può restringere, persino proibire completamente, ma almeno nella clandestinità si continuerà a levare i calici in onore dell’antico e sempre giovane dio dell’ubriachezza.

Nel 186 a.C., il senato romano emise un decreto per vietare i Bacchanalia. Con il Senatus consultum de Bacchanalibus, il potere costituito cercò di minare alle fondamenta il culto del dio dell’ebbrezza, distruggendone i templi, arrestandone i sacerdoti, e soprattutto proibendone i sediziosi riti orgiastici. Il senato aveva ben compreso il rischio: il dio Libero — una divinità arcaica associata a Dioniso — e il governo statale sono nemici inconciliabili. La persecuzione limitò fortemente la manifestazione del culto, ma non ne spense la brace: i riti di vino e sesso continuarono, seppur in clandestinità.

Dall’astensione prevista dalla Shari’a, fino al proibizionismo statunitense: in tutte queste norme riecheggia come un archetipo lo scontro fra il potere umano e la forza divina di Dioniso. Levare una preghiera a Dioniso pare una cosa dolce e deliziosa; ma chi ne segue troppo a lungo le tracce si perde in misteri tanto profondi da risultare oscuri. Il dio non è soltanto una personificazione del vino, né una metafora per la forza dell’ebbrezza. Queste sono visioni tardive e riduttive. Dioniso è anche questo, ma c’è molto di più. Nel suo nome si cela una potenza antica, forse la più antica, bella e terribile che ci sia: la vita.

Vita folle, che non conosce freni. Energia pura, travolgente. Forza che devasta e al tempo stesso crea a partire da se stessa. Dioniso non è semplicemente il dio di una sbornia: i suoi cortei erano estatici, maniaci. Seducevano e spaventavano al contempo. Le fonti antiche raccontano con raccapriccio le gesta delle Menadi, le donne rapite dalla follia di Dioniso: devastavano villaggi, smembravano animali vivi e ne strappavano le carni con i denti, bevendone il sangue ancora caldo. La forza di Dioniso è una trance radicale, che cancella ogni limite, lasciando libero sfogo alle pulsioni primordiali.

Una divinità romana a lui affine, d’altronde, era appunto Libero — il nome è quanto mai eloquente. Vita feroce, di amore e violenza, pura, selvatica. Non è un caso che Dioniso venisse a volte dipinto in selle a un ghepardo, a una pantera, o a una tigre. I cavalli si lasciano domare; con le redini è possibile imporre una direzione alla corsa dell’animale.

La fiera invece è indipendente e pericolosa. È l’energia che non conosce argini, fuoco vitale indomito. Il cavallo è l’uomo civilizzato, che ha imparato e accolto su di sé i freni dell’autocontrollo; ma quando vede la tigre, anche il cavallo più docile si imbizzarrisce.

Ci spaventa, la libertà primordiale, perché minaccia di farci regredire a un tempo in cui eravamo privi di senno; ma per lo stesso motivo ci affascina, perché il controllo di sé è un peso duro da sopportare, e a volte si fa tanto gravoso e stretto che minaccia di soffocare la fiamma della vita stessa. Dioniso incarna anche la rigogliosa forza della vita verde. I vegetali crescono sulla terra con la potenza contagiosa di un incendio. Quale immagine di forza vitale più potente di una foresta lussureggiante, di edera e vitalba avvolte attorno ai tronchi, di pungitopi cespugliosi, e del tappeto di pervinche che serpeggiano sotto le chiome dei roveri e dei carpini?

La pianta che dona l’uva risuona della vita persino nel suo nome. La scienza ci insegna che il vino è inebriante a causa della fermentazione, che muta in alcol gli zuccheri del mosto. L’immaginazione poetica, però, sa percepire oltre quel velo: la vera forza che ubriaca l’anima è proprio la vita stessa, che dalla pianta verde si concentra dentro il vino.

Il dio che cavalcava la pantera è diventato il nume tutelare delle cantine; i suoi seguaci non sono più le Menadi, ma gli avventori di osterie. Com’è che il folle dio della vita sfrenata e primordiale, viene ora ricordato quasi alla stregua di un bonario ubriacone? È come se, nel corso dei millenni, l’uomo avesse imparato a convivere con quella forza dirompente. A furia di frequentarla, abbiamo capito anche noi come cavalcare la tigre; ciò non significa che l’abbiamo domata. La sua inestimabile bellezza, d’altronde, sta proprio nell’essere irriducibile, selvatica, follemente viva. È vero che abbandonarsi completamente a essa significa lanciarsi fra le fiamme del caos; abbandonarla, però, porta a una vita fredda e prevedibile, soffocata dalle regole che si autoimpone.

Abbiamo imparato a convivere con il dio che attende in agguato nel vino; eppure di tanto in tanto ci coglie lo stesso alla sprovvista. Quanti secoli sono passati, e ancora non abbiamo trovato il giusto equilibrio fra energia e controllo, fra il brivido della follia e la necessità delle regole. L’osteria diventa così un piccolo tempio, in cui si cerca — a volte per tentativi ed errori — la giusta distanza nei confronti di un dio che è rischioso da avvicinare, ma senza cui non si può vivere.

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