OK, sì, l’avete già sentita. Da quell’amico americano, abbagliato dalla bellezza di Roma e dal piccantino celestiale della cacio e pepe. Dal compagno di stanza statunitense in un ostello di Londra, che ti promette che ti cucinerà the best pasta of your life, scodellandoti una sorta di piatto di ramen ma senza il brodo, salsa di pomodoro acida a guarnire. Bisogna riconoscerglielo: gli anglosassoni – e gli americani in particolare – hanno invidiabili abilità di arraffatutto, quando si tratta di qualcosa che piace. Da qui la pasta à la colla, impiastrata del suo amido, o cose da far cadere la dentiera alla nonna come la Chicken Parmigiana, Razione K da soldato in campagna di Russia più che qualcosa da ordinare al ristorante.
Il che è abbastanza singolare, se si pensa di quanto va indietro il radicamento della cultura italiana negli Stati Uniti. E che la cucina che si sviluppò dall’incrocio del Nuovo Mondo con le ricette povere degli emigranti ha suonato la campana giusta fin dal primo minuto, radicandosi così tanto da avere libri dedicati alla sua storia – Red Sauce. How Italian Food Became American di Ian MacAllen, per esempio – e da far desiderare Anthony Bourdain, nel suo Kitchen Confidential, di essere nato italoamericano. Qui i puristi sottolineeranno: eh, sì, ma la cucina italoamericana è cosa a parte. Non temete: siamo con voi. Dobbiamo però chiederci: perché i menù di tanti tra i ristoranti newyorchesi più hip recitano Italian food e non Italian-American food? E perché il coinquilino che vi imbocca i suoi spaghetti marinara pensa davvero che “in Italia si fanno così”? È mai possibile che non riusciamo davvero a distinguere quello che ci piace mangiare – pure Chicken Parm magari, no judgement – da quello che pensiamo mangino gli altri?
Su due piedi è un’impresa sisifea, anche se sembra che, finalmente, qualcosa si stia smuovendo in acque d’Oltreoceano. Il merito è di un po’ di operazioni a coefficiente di veracità decisamente superiore alla media e allo stereotipo. Come Savino’s, per esempio, bottega e produttori di pasta all’ingrosso che hanno cominciato a spopolare ospitando un supper club in cui gli invitati mettono prima le mani in pasta per fare la sfoglia, poi mangiano le tagliatelle (il risultato appare legittimo). Ma anche di un certo Rinascimento nella scena della pasta della Grande Mela, che conta 60 segnalazioni sulla Guida Michelin per ristoranti italiani, di cui due stellati.
Tra i segnalati c’è Carbone, most wanted e di prenotazione quasi impossibile. Un po’ furbetto nel definirsi italiano, quando propone piuttosto cucina da Vecchio Mondo sporcata di francese e Spicy Rigatoni Vodka. Sulla stessa onda seguono Bar Primi (avere un tavolo qui sembra più facile), Via Carota e Bad Roman (alla fine, non possiamo dire che Chicken Scarpariello Rigatoni sia un tipico piatto italiano). Questi nomi stanno tra l’italiano e l’italo-americano, in una buffer zone dove un po’ di allungo è possibile. La prima stella è assegnata a Don Angie. Poi c’è lui, Rezdôra. Ristorante mono-stellato Michelin per il 2021 e il 2022, guidato da chef Stefano Secchi. E qui il gioco cambia.
Perché Rezdôra è, c’è scritto sotto il nome, non un Italian restaurant, ma un’Osteria Emiliana. L’ennesima appropriazione da Stati Uniti? Dimenticatevelo. Innanzitutto perché Secchi è purosangue italoamericano, di padre sardo e madre britannica, nato negli Stati Uniti e cresciuto a Dallas. Secondo, perché è uno degli allievi illustri del Re d’Emilia Massimo Bottura, e prima ancora di Davide Palluda de All’Enoteca di Canale– notevole anche il cursus honorum americano però, dove figurano Nancy Silverton e Lidia Bastianich. Le maestre che te la cantano sempre, però, sono loro: sfogline che impastano con le uova, tirano al mattarello, e non si stancano mai. Stefano Secchi ha rincorso la tradizione che, nel Nuovo Mondo, rischia di scivolare tra le dita. Ed è andato nei posti giusti per ritrovarla.
«La mia ossessione per l’Emilia-Romagna e la sua cucina ha la forma di una madeleine. Sono nato in Texas, ma visto che mio padre era italiano e per di più agricoltore, dunque molto legato alla terra [anche lui poi ristoratore a sua volta, ndr], passavamo almeno in Italia almeno cinque mesi all’anno. Stavamo in Sardegna, certo, ma poi giravamo. Mio padre aveva degli amici in Emilia, verso Bologna. Ricordo i viaggi in macchina attraverso la campagna, i sapori incredibili che ti arrivavano seduto a tavola. Lì era tutto lento, al contrario della vita in America, per esempio, molto veloce. Credo che sia iniziata così. Con la ricerca della bellezza, e della lentezza».
Non solo La Francescana, dunque, ultimo trampolino di lancio per catapultarsi al Flatiron District, côte à côte della leggendaria Gramercy Tavern, a tagliare il nastro a Rezdôra. Secchi si perde, in Emilia, con mossa che sarebbe tornata cara a quelli de noantri che nella regione ci si sono davvero imboscati fino al collo, Gianni Celati, Luigi Ghirri, Daniele Benati. Si lega a doppio giro alla pianura verde-gialla dell’Emilia e arriva a lavorare all’Hosteria Giusti di Modena, istituzione maxima quando si tratta di mangiar sincero. «The drill was: vivevo in un ostello a Baggiovara, mi svegliavo all’alba, andavamo al mercato con Laura Morandi Galli dell’Hosteria, una forza della natura quella donna, e facevamo la spesa per la giornata. Tutte le volte la spesa di persona. Poi arrivava il momento sacro: andare al ristorante e tirare la sfoglia, a mano, al mattarello. Giusti è aperto solo a pranzo e hanno venti coperti. Quindi non devi fare troppa pasta, ma proprio per questo dev’essere impeccabile. La prima volta che ho potuto farla anche io per il servizio è stato impagabile, come arrivare in vetta a una montagna».
Con questo addestramento militare alle spalle, non stupisce che persino i severi critici gastronomici del New York Times abbiano scucito il taschino per elargire 3 stelle a Rezdôra proprio all’apertura, nel 2019 (lo stesso critico, Pete Wells, ha inserito Rezdôra al 47° posto dei migliori ristoranti di NY per il 2023) – né che la stella Michelin sia stat consegnata a un Secchi trentasettenne solo due anni dopo l’apertura. Uno immagina rigore, disciplina, calli e sudore. Wrestling più che cucina. Per un certo periodo, prima del Covid, è stato così. Dei primi mesi Secchi ricorda che «ho lavorato per 120 giorni di fila, dalla mattina all’alba per stendere la sfoglia, fino a notte fonda, alla fine del servizio. Il successo ci ha travolto in modo inaspettato».
Ad ascoltarlo in qualche programma TV, però, Stefano Secchi sembra ancora contagiato dall’euforia di quella prima volta a tirar la sfoglia a Modena, e forse è proprio questo uno dei segreti del suo successo. Da questa meraviglia proviene proprio uno dei cavalli di battaglia di Rezdôra, Fiori di Granchio, ravioli granchio e mascarpone nella forma di girasoli.
«Una delle cose che odio dei device che ci portiamo dietro è che siamo distratti tutti il giorno. Tirare la sfoglia mi ha insegnato anche a staccare la testa, a godermi il momento e la compagnia delle persone con cui sto producendo quel cibo. Cerco di applicare questo principio il più spesso possibile. Per esempio, quando sono in Italia viaggio molto in treno. I Fiori di Granchio sono nati proprio su un viaggio in treno, mentre stavo andando verso la Romagna. A un certo punto siamo passati di fianco a un campo di girasoli abbagliante, bellissimo. Allora visto che stavo andando verso il mare mi sono detto che dovevo mettere insieme le due cose. Volevo cristallizzare il famoso attimo bello. Credo che il cliente percepisca la piccola dose di poesia che ha dato vita a questo piatto, e che lo ami anche per questo».
I Fiori non sono l’unico elemento gravido di storia sul menù di Rezdôra. Ci sono i cappellettoni Grandma Walking Through the Forest in Emilia (cappelletti in sfoglia verde con porri saltati e purea di funghi), per esempio, che arrivano in un’atmosfera alla Cappuccetto Rosso. O, una volta, c’erano i “francobolli”, ravioli che ricordavano un posto e l’altro, proprio come un diario di viaggio. Non ci sono da un po’. Stefano pensa che dovrebbero rimetterli in menù.
Ovviamente, il terzo tipo di “storia” ad accompagnare l’operato di Rezdôra, l’elefante nella stanza quando si entra in un’osteria emiliana in una delle zone più trendy della City, è la tradizione, strana bestia che ci mette il piombo ai piedi, spesso e volentieri. E che ci azzoppa, come dicevamo, la credibilità di chi si definisce maestro imparato. Specie quando si parla di pasta fresca d’Emilia, bestia permalosissima che distingue tortelli e ravioli, cappelletti e cappellacci, a volte su una questione di millimetri di diametro. C’è solo la tradizione, potrebbe dire una zdōra.
«La tradizione è una cosa innegabile, nel senso che non la puoi ignorare. Qualsiasi percorso serio deve partire da lì, come insegna anche la filosofia di chef Bottura. E anche proseguendo nel percorso di sono alcuni dettami che devono rimanere fissi, bisogna scriverseli sopra la postazione di cucina e non dimenticarseli mai. Quanto è grande un tortellino, per esempio. Qual è la giusta proporzione di tuorlo per quanta farina. Dopo questo però c’è la crescita, che se vogliamo possiamo chiamare innovazione. Mi sembra però più una nuova concentrazione. Una volta che hai capito le regole del gioco, puoi cominciare a divertirti. A me piace dare spazio ai singoli sapori, capire come estrarli al massimo da quello che preparo. Allora si forma la vera figura dello chef, il cui primo compito non è saltare o brasare, ma osservare, essere curioso, imparare. Solo così puoi sviluppare un senso di rispetto verso gli ingredienti. Per gli Stati Uniti questo concetto è quasi impossibile da capire, perché come nazione non abbiamo l’idea di “tradizione”».
Né, forse, di quality over quantity. Negli Stati Uniti, quantity comes first. Sia in forma “suggerita” – come in questo Instagram post sapientemente editato per simulare un banchetto; la fonte è il profilo di Major Food Group, proprietari di Carbone –, che letterale, come nei video-eccessi di TikTok che documentano cascate di mozzarella filante in mezzo a fette di pane abbrustolite, colate laviche di salsa, pugni di caviale da ingoiare all’alpina. Non c’è da stupirsi che, in un dietro le quinte di Rezdôra prodotto da Eater, chef Secchi ridacchi mentre chiude una fila di Uovo Raviolo, omaggio a Nino Bergese e piccolo scrigno di ricotta e tuorlo d’uovo intero, lamellato con tartufo nero fresco. «Di questi ne serviamo uno a piatto», si sente, «e a volte i clienti non capiscono perché sia così poco rispetto alle loro aspettative». Oggi l’Uovo Raviolo è in carta a 31 dollari.
Smuovere il pachiderma della consuetudine è un compito lungo, gravoso. Il segnale positivo, però, è che Rezdôra «è frequentato sia da giovani che da sessantenni italo-americani. E tutti vengono qui per farsi coccolare come se fossero a casa». Di una nonna emiliana, per la precisione. In questa nuova era di pasta per gli Stati Uniti, insomma, un piccolo Rinascimento sembra avere gli spiragli giusti per montare, facendo brillare qualche idea ben rodata e, proprio per questo, nuovissima. Tradizione con occhio contemporaneo. Un concetto che forse, sotto-sotto, una zdōra da pedigree non approverebbe, né forse il coinquilino che si vanta della sua marinara stramba. Poi però assaggerebbero un Uovo Raviolo, un Fiore di Granchio, una forchettata di tagliolini tirati a mano da Secchi. E allora, siamo convinti, si ricrederebbero entrambi.