Parliamo di intrattenimento queer, drag, e trans, che per fortuna sta diventando sempre più popolare, sdoganato, e anche frequentato da un nucleo variegato di avventori. Voglio dire che, nei locali giusti, può capitarti di trovare tanto quello con il lavoretto noioso e la vita ordinaria, che il pavone bellissimo e stravagante, e poi per non dire artisti, chissà, notai, e chi più ne ha, più ne metta. Per me, è un risvolto assolutamente positivo di questa scena, così la visibilità si allarga, con essa la risonanza, e il movimento LGBTQ+ diventa sempre più conosciuto e accessibile, per tutte e tutti. Ricordiamoci che, solo poco tempo fa, questa scena si rintanava nell’underground più profondo, strati pericolosi, di certo non ben accetti dallo status quo.
Per questo, il prossimo tavolo lo facciamo in un posto nuovo, nel senso, non solo per me ma per tutta la città (che poi è sempre Milano), aperto da poco nel trendy quartiere di NoLo. Queer cabaret, piano bar, cocktail bar, però va detto sottovoce visto che si chiama Don’t Tell Mama. Ci vai a bere all’aperitivo, dopo cena, quando vuoi, e oltre alle luci soffuse trovi pure accompagnamento musicale dal vivo, un programma di drag show tuttifrutti, e un vicinato più rilassato di Porta Venezia, ché la strada è più stretta e le pareti insonorizzate per bene.
Il che, appena me lo dici, nel mio cervello funziona un po’ come una madeleine – cose che quelli bravi definirebbero proustiane, ma noi vogliamo divertirci a cena, e non far letteratura. Sta di fatto che mi sale il ricordo di mio zio Costa, che mi portava ancora adolescente a Torre del Lago. Lì si facevano party in una scena trans vigorosa, un posto totalmente trasgressivo e violento: accoltellamenti in pineta, risse, camionisti e freak da tutta Italia convenuti in un paesino in provincia di Pisa per dar sfogo alle loro esigenze sessuali. Tutto lontano dalle serate glamour, piene di glitter, umorismo e arte che si possono trovare a Milano, e ci divertivamo parecchio. Comunque questo imborghesirsi, se così lo vogliamo chiamare, o avvicinamento al mainstream, come dicevamo, è una cosa positiva.
DI fianco a Torre del Lago e allo zio Costa, c’è un’altra scheggia che ci porta qui. La mia introduzione alla scena queer, drag, trans (sono vostro alleato anche se non riesco a usare i termini corretti, per cui, preventivamente, chiedo perdono) è passata anche per il meraviglioso documentario Paris is Burning, opera fondamentale per aprire uno sguardo approfondito sulla cultura drag e ball LGBTQ+ nella New York degli anni Ottanta e Novanta.
Diretto da Jennie Livingston, il film esplora le vite delle persone coinvolte nella ball culture (quella legata al vogueing, per intenderci), fornendo un’analisi approfondita delle sfide, delle aspirazioni e delle identità all’interno della comunità drag e trans. Paris is Burning ha avuto un impatto essenziale sulla cultura popolare e sulla rappresentazione della comunità LGBTQ+ in essa, e ha portato alla luce molte delle questioni e delle sfide affrontate dai suoi appartenenti. Ve lo consiglio altamente, prima o dopo aver fatto il tavolo. Oltre a essere interessante e divertente, è preziosissimo per avvicinarsi a, indagare, forse un po’ capire le origini di questa scena, che a sua volta ha dato origine a mode, show televisivi e spettacoli che non solo sono attuali, ma fanno parte della nostra quotidianità.
Ma torniamo al presente. L’ultimo decennio ha visto una notevole crescita di club e ristoranti queer, drag e trans con intrattenimento dal vivo, e questo ha ridefinito il concetto di spazio sociale inclusivo. Parliamo infatti di luoghi che non solo offrono intrattenimento di alta qualità, fa strano doverlo sottolineare ma lo sottolineiamo, “per tutti”; ma sono anche pensati per celebrare la diversità e promuovere l’accettazione, senza, peraltro, appiattire l’esperienza della comunità sul livello della “normalizzazione”.
Fidatevi di uno che ne ha bazzicati, di queer cabaret: l’atmosfera è calda ma frizzante, la voglia di divertirsi viaggia su vibrazioni impeccabili. La “situa” c’è sempre, l’allegria pure, ma anche se ti volessi fare una serata più in sordina, che lo dico a fare, saresti nel posto giusto. Caratteristiche di pregio, che spesso non si trovano nei locali, diciamo, “etero”. Qual è allora la differenza? È che la gente se ne frega di meno, anzi, forse quasi nulla, ma mica della serata, ché quella è roba serissima. A finire relegato nell’angolo è lo status symbol, quella pressione indefinita ma palpabile che riempie l’aria dei club e dei bar “tradizionali” e finisce come al pranzo di Natale, pietrificato a pensare “ma io come ci sono finito qui”.
Nei posti di cui vi parlo io, invece, e in cui dovremmo fare un tavolo, non conta nulla che orologio hai, con che macchina arrivi, che borsa ti metti alla spalla – oddio, pardon, forse la borsa sì. Comunque sia, sono luoghi creati per celebrare e dare un posto a una creatività che, come dice lo stesso termine queer, è sempre stata obbligata a farsi diagonale, mettersi un po’ in disparte, e osservare i “grandi” divertirsi nei modi che dicevano loro e quelli soltanto. Un cabaret queer è il luogo dove sentirsi sicuri, accuditi quasi, di sicuro accettati, ed è proprio questo insieme di qualità che li rende così elettrici e popolari.
Quindi, se poi volete spassarvela allo storico Plastic – nel qual caso, il mio consiglio è la serata clubbing Domani – o magari ai Magazzini Generali quando al venerdì arriva La Boum, be’, non sarò certo io a dirvi che è una cattiva idea. Anzi, chissà che non finiremo per incontrarci, una volta di queste. Prima però, per riscaldamento o per perdersi nella serata, l’indirizzo di Don’t Tell Mama è via Pietro Crespi 10. Tip da insider: il mercoledì arriva La Trape a dirigere i lavori dell’open mic drag. Arrivi, ti iscrivi (o, se sei di quelli come me, prenoti e poi ti ordini qualcosa al bar in prima fila) e magari va pure a finire che diventi la regina della serata. Che ne dite, lo facciamo questo tavolo?