Il Ramadan è una festa fatta di incontri, qualche rinuncia, un po’ di fame a metà giornata e tavole imbandite. Quest’anno è iniziato il 10 marzo e dovrebbe terminare l’11 aprile, in base all’avvistamento lunare. Non è un semplice fatto di privazione e gole secche: è un momento dell’anno che serve a rigenerarsi come credente e individuo sociale.
Ma il Ramadan è, soprattutto, un fatto serio: ci si dedica alla preghiera, alla generosità nei confronti dei meno fortunati, e spesso si affrontano i propri limiti. Durante le ore di digiuno – dall’alba fino al tramonto – è fatto divieto di mangiare, bere, fumare e fare sesso (in alcun modo, intendiamoci). Il digiuno, sawn, è tra i cinque doveri di ogni musulmano. Raccontato così, il Ramadan assume le forme di un evento puro e casto, al limite del sopportabile. A peggiorare la situazione, un velo di pregiudizio che si riassume tutto intorno a un unico concetto: “chi ve lo fa fare”.
Sappiamo bene, però, che di pregiudizi si muore, e che, per dirne una, nessuno a Natale è davvero più buono. Quindi, cominciamo a sfatarli. Innanzitutto, dal digiuno vengono esclusi i minorenni in età prepuberale, gli anziani, le donne in gravidanza, quelle che allattano, o durante i giorni del ciclo mestruale. Anche chi viaggia è esonerato. È pur vero che ogni credente conosce i propri limiti, e se una persona non sta bene può subito interrompere il digiuno e recuperarlo in seguito: non è un periodo di divieti, è necessario ribadirlo ancora una volta.
Si parte sempre da un processo di autoconsapevolezza: in questo periodo impari a conoscere i tuoi limiti e fai prova di una vita in cui il cibo non è un fatto ovvio. Chi soffre di una malattia debilitante, come il diabete o l’asma bronchiale, è esonerato dal Ramadan. Al netto di queste considerazioni, il periodo di digiuno perde il suo aspetto più restrittivo e si orienta verso un pensiero più inclusivo. Il periodo di digiuno cambia ogni anno, non è mai stabile. È la luna a scegliere: i musulmani si affidano al calendario lunare, si osserva la prima falce della luna crescente e solitamente ogni anno si retrocede di circa dieci giorni.
Può capitare, nella vita di un musulmano, che il Ramadan capiti in pieno inverno o in piena estate. Ciò influenza la durata del digiuno, più breve in inverno e più lungo in estate. Al tramonto, si spezza il digiuno con un dattero e un bicchiere d’acqua, per poi proseguire con il pasto serale, l’iftar. Fino a questo momento mi sono limitato a raccontare – quasi teoricamente – la celebrazione del Ramadan. Ma, in fondo, il Ramadan è davvero solo una questione di sete e fame?
È chiaro che ci sia una grande differenza tra il Ramadan raccontato dall’esterno e quello sperimentato dall’interno. Ho avuto la fortuna di vivere – da italotunisino – l’esperienza del Ramadan tra le mura di casa. Qualche giorno prima (non chiedetemi il motivo, non lo so neanche io) iniziavo a ingozzarmi di panini alla Nutella e Kinder Bueno, con la paura che sarei morto di fame. L’ho fatto per vari anni, quasi come gesto di “autoconservazione calorica”: in fin dei conti ero un bambino affamato che non aveva voglia di digiunare.
Sta di fatto che durante i giorni di Ramadan vivevo le giornate con un misto di ansia e forte senso di eccitazione. Non mi preoccupava saltare la merenda a scuola; dell’acqua neanche mi interessava. Quello che davvero mi preoccupava era il giudizio sociale. A scuola i miei compagni azzannavano panini davanti a me, bevevano acqua rumorosamente; gesti che avevano l’obiettivo di farmi sentire al di fuori della loro realtà.
Difficilmente mi capitava di avere fame, non dopo un abbondante suhur alle prime luci dell’alba. Solitamente il suhur prevede l’assunzione di pietanze scelte in base ai propri gusti: meglio frutta ricca di acqua o un mlawi pieno di Nutella? È chiaro che la scelta di un bambino non possa che ricadere su del pane che ricorda molto la forma di una piadina romagnola, ma più sfogliata e corposa [il mlawi, ndr]. Di solito mia madre preparava mlawi a casa, grazie a una lista di ricette di sua suocera. Restava poi in frigo o all’aperto per alcuni giorni – dipende dalla stagione – e si poteva consumare anche durante il pasto serale.
Tra le altre cose, ho un ricordo tormentato dell’assida zgougou, un budino di pinoli ricoperto con crema pasticcera e frutta secca tritata. Il gusto è difficile da definire, ma ricordo che mio padre ne mangiava a cucchiaiate. Contento lui, mi dicevo. Non mancavano i classici biscotti del supermercato, i cornetti che mio padre recuperava all’alba ancora caldi e profumati, e la shamia. Che trauma, la shamia. Immaginate di prendere in mano un pezzo di intonaco o un gessetto: la sensazione tra le mani è quella. Avendo come ingrediente principale il sesamo, lo zucchero e talvolta le mandorle, in bocca la sensazione è di aver ingerito qualcosa di secco e dal retrogusto dolciastro. È una botta calorica a rilascio lento, mi era difficile andare oltre le tre cucchiaiate. Ciò nonostante, la mia famiglia tunisina ne andava ghiotta e provava a rivendermela, durante i viaggi a Tunisi, come una prelibatezza. Ogni tentativo andava fallito, ero troppo legato ai cornetti e ai makroudh, dei dolcetti fritti ripieni di purea di datteri, davvero molto dolci.
Ma torniamo al suhur: solitamente si consuma a letto, o per i più mattinieri anche a tavola. I primi giorni di Ramadan possono essere duri, soprattutto nei mesi più caldi, dove la sete fa capolino ogni secondo. Ecco perché, in questi mesi, si tende a consumare molta frutta all’alba, quella più ricca di acqua e zuccheri, così da poter andare avanti tutta la giornata. Durante le ore del giorno la vita prosegue come da tradizione: lavoro, stress, partite alla PlayStation da finire, libri da leggere, le solite preghiere e poi, finalmente, l’adhān, ovvero il richiamo alla preghiera che conclude il digiuno.
Da piccolo correvo a prendere il mio tappeto blu, mentre mia mamma sistemava le ultime cose sulla tavola e mio padre girava il couscous, e cantavo a pieni polmoni quei versetti che conoscevo a memoria. Subito dopo si era pronti per consumare il pasto serale. I datteri, quasi totalmente ignorati dalla mia famiglia, rimanevano in un angolo a osservarci con i nostri cucchiai pieni e i tovaglioli già sporchi. Il menu variava ogni giorno, secondo le proprie esigenze e i propri tempi: mia madre e mio padre friggevano i brik – triangoli di pasta croccante molto simile alla pasta fillo – ripieni di uova, tonno, capperi e prezzemolo. Consumati di solito come antipasto, vi si spreme sopra poi, a scelta, del limone. La versione più strong include un solo ingrediente: un uovo a media cottura, ancora liscio, un po’ di sale e pepe.
Mentre si consumano i brik, il couscous borbotta nella pentola ancora calda. Piatto principale in moltissime tavole durante il periodo del Ramadan, il couscous è preparato con passata di pomodoro, verdure (si passa dalla zucca fino al cavolo), carne o pesce. La ricetta, ovviamente, cambia in base all’appartenenza geografica. Quello tunisino, molto più rosso e brodoso rispetto alle versioni presenti nel Maghreb, preferisce la carne di pollo o di montone. La versione con il pesce include orata, triglie, dentice e talvolta anche scorfano. Su ogni piatto viene poi eretto un baklouti arrostito, un peperoncino mediamente piccante. Ad accompagnare le cucchiaiate, bevande gassate o il classico elben, il latte fermentato spesso consumato anche prima dell’alba.
Ma non si può vivere di solo couscous. La molokhia è uno spezzatino di carne che con la cottura assume un colore verde scuro, per via della polvere essiccata di malva utilizzata nel composto. Si cuoce per molte ore, fino a rendere la carne molto morbida. È un piatto molto calorico, per la presenza di olio che solitamente si aggiunge generoso, e nelle famiglie è consumato con buone quantità di pane. Il gusto è forte e molto generoso: si va dall’amaro della malva alla dolcezza della carne.
Se i gusti forti sono un po’ la vostra passione, non può allora mancare sulla tavola l’osban, un grosso polpettone cotto al sugo ripieno di riso, erbe, carne di agnello e interiora. Spesso accompagnato al couscous, l’osban è probabilmente uno dei pochi cibi che mi spingeva a prolungare il digiuno. Quando in casa si preparava l’osban, mia madre cucinava sempre da parte un po’ di chorba frik, una zuppa a base di grano con pomodoro e carne (o in alternativa pesce), molto più leggera dell’osban che intanto olezza dall’altra parte della tavola.
Per concludere poi – ma solo se lo stomaco regge ancora – arrivano in tavola tè caldo alla menta con pinoli e dolcini misti. In Italia consumavamo dolci spesso confezionati, per la difficoltà nel reperire quelli della tradizione tunisina. A Tunisi, invece, la tavola si riempiva di ghräiba homs (dolci a base di farina di ceci), taralli dolci alle mandorle, basbousa fatti con semolino e acqua profumata, kaâber louz coloratissimi fatti di marzapane, baklava e makroudh [biscotti ripieni di datteri e pasta di frutta secca, ndr]. Alla fine del pasto si prega insieme, o ci si reca in moschea per recitare il Tarawih [speciali preghiere, ndr], un momento che vuole essere anche una profonda riflessione sulle condizioni dell’uomo.
Per un musulmano, fare Ramadan vuol dire rifarsi come persona, comprendere certe mancanze, farne tesoro, rigenerarsi. L’Eid Al Fitr, che conclude il periodo del Ramadan, è vista come una festa collettiva nel quale festeggiare e stare insieme. Si fanno regali ai più piccoli, si continua a donare per i più poveri. Della fame e della sete di quei giorni quasi non c’è più memoria. Ho fatto esperienza del Ramadan per alcuni anni, prima di abbandonare la fede. Ricordo le passeggiate al mare per acquistare il pesce fresco dai pescatori, i regali aperti anche quando, per via dell’asma, ho smesso di rispettare il periodo del digiuno. Anche perché, in fondo, il Ramadan è tutto quello che abbiamo detto, ma soprattutto è una questione di pance piene di ricordi.