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Nora Bouazzouni: «Vorrei che la guida Michelin sparisse dalla faccia della Terra»

Di cibo usato per dividere, invisibilità e insicurezza alimentare; ma anche del perché essere femministe potrebbe voler dire smettere di mangiare la carne. Abbiamo intervistato la giornalista e autrice di 'Faminismo. Il sessismo è in tavola', portato in Italia da Le plurali editrice
Nora Bouazzouni

Foto: press

Nella cultura, e dunque anche in cucina, all’eterna diatriba con la natura ci andiamo sempre sotto: c’è un modo “come mamma ci ha fatto” di gestire le cose, o ogni ruolo, ogni comportamento altro non è che la performance che giustifica un ordine che ci siamo imposti, gatto che si morde la coda?

Per Nora Bouazzouni (e pure per chi scrive), giornalista, traduttrice e attivista femminista francese, la risposta è univoca: alcune cose ci siamo detti che funzionavano, e le abbiamo lasciate lì, protraendole passivamente senza troppe domande. Tra queste è compreso il ruolo delle donne nelle cucine e nel sistema del cibo. «Il primo cibo assunto dall’uomo, o meglio dal bambino, è fatto e prodotto dalla donna», così si legge nella prefazione a Faminismo. Il sessismo è in tavola, unica tra le opere di Bouazzouni (per ora) tradotta in italiano – grazie alla casa editrice Le plurali. Eppure, la questione sul “posto delle donne” rimane: osannate nei ricordi dai più grandi chef (rigorosamente uomini), spesso relegate alle categorie “dedicate” nei premi di categoria.

Scriveva il sociologo Pierre Bourdieu, citato da Bouazzouni: «Le stesse attività possono essere nobili e difficili quando sono realizzate da uomini, insignificanti e impercettibili, facili e futili quando sono realizzate da donne – come risulta dalla distanza che separa il cuoco dalla cuoca, il sarto dalla sarta: basta che gli uomini si assumano compiti considerati femminili e li svolgano fuori dalla sfera privata, perché tali compiti vengano come nobilitati e trasfigurati». Se Dominique Crenn, Hélène Darroze e Ana Roš hanno tutte ricevuto il titolo di “migliore donna chef”, significa che il fatto di essere donne prevale sul loro essere chef. La loro essenza, secondo la nostra cultura, è data dalla loro natura.

Secondo Faminismo, allora (il cui titolo gioca tra le parole “fame” e “femminismo”), ciò che avviene da almeno due o tre secoli in ambito gastronomico è l’espropriazione di un sapere da un genere, e l’appropriazione da parte di un altro. Ne deriva non solo il mancato riconoscimento del contributo femminile a ciò che ci mettiamo nel piatto, ma anche pesanti conseguenze per la sicurezza socio-economica delle donne in primis, e degli strati più deboli della popolazione poi. La donna sfama la collettività, l’uomo i singoli, giusto? La donna chiunque, l’uomo (di solito dalla cucina di un ristorante) solo chi può pagare per sedersi a tavola.

È il carnofallogocentrismo di Jacques Derrida: nella gerarchia culturale che abbiamo dato alla natura, prima viene la parola (quindi la specie umana), poi il fallo (quindi l’esemplare maschile), quindi la carne (con l’atto dell’uccisione, tradizionalmente associata al genere maschile). Con Bouazzouni allora abbiamo parlato delle cose che accettiamo senza troppo peso, in un doveroso esercizio di decostruzione. Non per distruggere, ma per ricreare. E scrivere una storia più veritiera, che tenga in considerazione tutti, e non solo chi può pagare per essere tramandato alla memoria dei posteri.

La copertina di ‘Faminismo’. Courtesy of Le Plurali editrice

Chi sono i ricchi e i poveri del cibo, oggi?
Per rispondere bisogna far chiarezza su come funziona il sistema del cibo. Per esempio, quando in Francia ci siamo trovati nel mezzo di una grande inflazione, alla tv passavano solo le facce dei capi dei grandi supermercati che cercavano di “rassicurarci”, dicendo che ci avrebbero salvato, noi tutti e i nostri conti bancari. Ma la verità è che sono loro che controllano i prezzi, che li decidono. La visione pubblica non vede il cibo come un oggetto, ma come una commodity. Solo che, al contrario delle altre commodity, la speculazione attorno al cibo può portare a carestie, e momenti molto difficili per tante persone. Quindi i ricchi del cibo oggi sono le aziende che controllano tutta la filiera del cibo, dai semi alla logistica, eccetera. Il cibo c’è, è disponibile, il problema è l’accessibilità. Avremmo abbastanza cibo per debellare la fame nel mondo, ma non lo facciamo. In Francia, per esempio, milioni di persone devono far affidamento alle banche del cibo per sopravvivere, e allo stesso tempo la fame è invisibile. Puoi vedere persone senzatetto per casa, ma non puoi vedere qualcuno che soffre la fame. Non è una cospirazione, è che non siamo abituati a vedere tutto ciò. Ci fanno credere che i vertici della piramide siano bravi ragazzi, e invece non lo sono.

Come sta la classe media in Francia?
Ormai non ci sono tante persone che si identificano con l’appartenenza alla classe media. Ma facendo due conti, mettiamo si abbia un salario annuo di 40.ooo euro o più e non si abbiano figli, si sarebbe nello strato superiore della popolazione, nel 10% più ricco, quindi la ricchezza è diversa. Oggi più persone sono ricche, ma meno si definiscono tali, perché la disuguaglianza è maggiore. E poi c’è il fatto che la classe media vuole rifiutare il proprio privilegio e mettersi insieme alla classe operaia. Il fatto comunque è che la classe media non ha problemi di cibo, può comprarsi quello che vuole, cibo che faccia bene e che sia cucinabile a casa propria, hanno i mezzi e la conoscenza per farlo. Per tutti gli altri, carne e pesce buoni, ma anche le verdure, sono quasi improponibili. I dati mostrano che non tutti possono permettersi di comprare prodotti freschi tutti i giorni. Così fa ridere sentire che il governo promuove un’alimentazione “sana”: non fanno altro che produrre sensi di colpa nelle persone, perché molti non potrebbero permettersi proprio quei generi alimentari che sono sponsorizzati.

Foto: press

La quantità – e la qualità – del cibo sono importanti, e infatti le tratti anche in Faminismo, dove, tra le altre cose, metti in relazione la dieta vegetariana con il femminismo.
Dobbiamo fare un passo indietro: dobbiamo ricordarci che in Occidente tendiamo a sorvolare sulle origini della dieta vegetariana, dello stile di vita vegetariano, che affonda le sue radici nelle culture dell’Asia e dell’Africa e ha legami con diverse religioni. Essere vegani o vegetariani non fa parte dello stile di vita occidentale “tradizionale”, come tante altre cose è stato importato, rubato. Oggi, al contrario, essere vegetariani significa essere eticamente superiori, e vuol dire potersi anche permettere di spendere di più sul cibo. In Francia, le classi sociali sono altamente polarizzate dalla dieta che seguono. Le classi superiori vogliono impartire la lezioncina a quelle inferiori, dicono loro che la loro dieta non va bene, che dovrebbero mangiare diversamente, e questo provoca una reazione uguale e contraria che a volte diventa irata e violenta. Chi siete voi per dirci che cosa dovremmo mangiare?

Andare in bicicletta, mangiare la quinoa, fare attenzione ai temi ambientali… Per tanti è un attacco personale al proprio stile di vita. E così il divario tra poveri e ricchi si ampia. What you eat is what you are, corretto? In più, questo succede molto di più con gli uomini che con le donne, perché l’identità maschile è legata alla carne e al suo consumo. Io scrivo del rapporto tra cibo e gender, e ho ricevuto molteplici insulti e minacce di morte. Il cibo è qualcosa di intimo, eppure è politico, è collettivo e privato, e va a toccare qualcosa di profondo, che parla di chi siamo. Perciò, mettere in discussione la dieta di una persona vuol dire mettere in discussione loro stessi. O almeno, alcuni lo interpretano così. Non è certamente il mio scopo, io voglio promuovere la coscienza critica attorno a ciò che facciamo.

Come si relaziona questo con la cultura gastronomica francese?
In Francia ci rifiutiamo di osservare il cibo dal punto di vista del suo impatto sociale, e dunque anche della sua relazione con il genere di una persona. Ci interessa soprattutto ricordare a tutti che abbiamo inventato i ristoranti, che abbiamo tantissimi chef stellati, e che “il cibo come lo facciamo noi non lo sa fare nessuno”. Ma quei ristoranti non danno da mangiare alle persone, solo ai ricchi. Lasciando poi da parte il fatto che non va bene andare a mangiare fuori tutti i giorni dal punto di vista della salute fisica. Ma i francesi non vogliono essere messi in discussione sul cibo, nemmeno quando non riescono a dare da mangiare a tutti i cittadini.

Proprio dello stesso andare al ristorante che è stato reso glamour dalla tv e dal cinema.
Ho avuto una fase giovanile in cui ero piuttosto affascinata da questo tipo di intrattenimento. Tampopo è bellissimo, Ratatouille fa ridere… ma ora mi fanno solo rabbia, La passion de Dodin Bouffant o The Bear, per esempio. È essere nutriti a forza con un ideale che non esiste. In Francia si trasforma sempre in propaganda, nell’idea che siamo stati noi a inventare la grande cucina e il grande cibo.

Com’è che abbiamo presentato Dodin Bouffant e non Anatomia di una caduta agli Oscar? Questo dice tutto sullo stato di salute della politica francese. Preferiamo una visione museale della Francia, una che dia a chi visita il paese l’impressione che tutto lo Stato sia racchiuso nel cibo. Per inciso, la mia cucina preferita è quella italiana. C’è l’impressione che in Francia tutti mangino benissimo, ma non è affatto così. The Bear è un po’ diverso, non mi piace perché normalizza l’idea della violenza in cucina, e fa passare l’idea che sia encomiabile non lavorare sui propri traumi e scaricarli sugli altri. Ma anche programmi come Top Chef, MasterChef… rendono tutto glamour, tolgono importanza al gesto di cucinare.

Odio anche gli chef intendiamoci, almeno alcuni di loro. Di solito si riassumono con: stellati, vecchi, uomini, bianchi. Fanno finta di essere dei geni e continuano a essere degli stronzi dietro le quinte. Quando sono loro la classe operaia! Cucinare è un lavoro manuale, non da nobili. Si prendono l’immunità umana degli artisti, mentre chiunque di loro è solo un lavoratore. Tutti siamo dei lavoratori.

Stiamo in questo dietro le quinte. Che cosa succede in cucina?
Succede che la violenza è endemica, non importa chi sia coinvolto. La professione in sé è quasi violenta, devi stare in piedi per 12 ore al giorno, fa caldissimo, è stressante, qualcuno ti urla addosso, potresti tagliarti o ferirti, così via. Quando qualcuno mi dice che le cose stanno migliorando, rispondo che non è vero. Anche per le donne, non sta migliorando nulla. Quello che è cambiato è che nessuno vuole parlare di ciò che vedono, che vivono. In Francia gli chef hanno i loro sindacati, i loro sottoposti no. E se sei una donna in cucina vivi tutto questo, ma sempre a un livello peggiore degli uomini. Se una donna venisse da me a dirmi che non ha mai avuto un problema di nessun tipo, in cucina, direi che sta mentendo. Benissimo se davvero non le hanno mai toccato il sedere, se non le hanno mai fatto una battuta, ma generalmente è tutto il contrario. A volte le stesse persone danno due versioni diverse della storia, una davanti e l’altra dietro le telecamere. Perché quello che succede, e che gli uomini fanno, è ricordarti che sei prima di tutto una donna, sempre.

Un esempio: alcuni miei contatti mi dicono che gli chef e i colleghi fanno ogni giorno battute sul fatto che potrebbero, in quanto donne, rimanere incinta. Il copione è: “Sarai mica incinta? Spero di no, altrimenti dovrei spingerti giù dalle scale per risolvere il problema e riaverti a lavorare in tre settimane”. La violenza non si può fermare, si sentono giustificati. Le cucine sono un boys’ club. Tutto viene giustificato per il “greater good”: dare da mangiare ai ricchi. Sembra conti solo questo, ogni altro aspetto della società diventa irrilevante.

Poi ci sono i premi, dove naturalmente le donne hanno categorie a parte.
Ogni chef donna dice che odia questi premi, o meglio, odia il fatto che ci siano categorie separate. Si torna sempre al fatto che si è donna prima che chef. Allo stesso tempo, sembra l’unico modo per mettere in luce le donne che lavorano in ambito gastronomico.

In generale odio i premi e le classifiche e le guide, vorrei che la Michelin sparisse dalla faccia della Terra. Perché ci sono premi per chi dà da mangiare ai ricchi e non per chi aiuta davvero a diminuire la fame delle persone? Perché diamo tutto questo spazio mediatico a chi fa da mangiare solo per chi se lo può permettere? Cucinare è un atto stupendo e onorevole, è un modo bellissimo per dimostrare il proprio amore, ma perché siamo ossessionati da questi premi? Non li abbiamo per i dottori o gli infermieri. Capisco i premi per gli artisti, ma perché abbiamo deciso che cucinare è un’arte al pari del fare un film? In più, crediamo tutti alla bugia collettiva che sia solo lo chef a cucinare, e che vada bene che il premio sia dato a lui e non alla sua brigata. Ma anche le stelle Michelin non sono date ai singoli cuochi, ma ai ristoranti. Dove sono i premi per chi sfama il più grande numero di persone, con la qualità più alta?

Il corollario di tutto questo è: chi ha il diritto di dire che un certo modo di cucinare è migliore di un altro? È tutto qualcosa che hanno deciso le persone bianche. È la validazione di qualcosa che è già validato. Per questo non mi interessano i premi, e non mi interessa il cibo da ricchi.

Si arriva al punto in cui anche il sapore dei piatti si appiattisce, si standardizza. Mi sembra che questo tipo di “palato assoluto” sia parimenti influenzato dall’impronta bianca e maschile.
È vero. Quello che fanno è cercare di farti credere che loro “si sono fatti il palato” perché hanno viaggiato e hanno incontrato cibi e cucine diverse. Quindi te lo mettono sotto l’ombrello dell’inclusività, ma è sempre tutto filtrato dalla loro esperienza, dal loro punto di vista. È una setta, un culto: “siamo aperti a provare cose nuove”, ma poi affibbiano aggettivi come “femminile” ai piatti. L’industria del cibo è completamente formata da uomini bianchi e ricchi, la cui opinione conterà sempre più della tua. Sono una minoranza che pensa di rappresentare la società. Per riassumere, il gusto è semplicemente disgusto per il gusto di qualcun altro. Tutta la Francia fa così, decidiamo che cosa sia il gusto sulla base di che cosa piace a noi.

Addirittura, c’è un giro ancora più interessante: ovvero, a volte alcuni di questi uomini bianchi si interessano di comportamenti esterni al loro gusto, li nobilitano e li inseriscono nel canone come se fosse una trasgressione cool, mangiare al fast food per esempio. Quello che è sopravvivenza per qualcuno diventa coolness per altri, è l’ennesimo guilty pleasure. Nella nostra cultura associamo subito la ricchezza alla virtù, e tutto quello che fanno i ricchi è buono e giusto. Se da McDonald’s ci va un povero, invece, è uno stupido che non sa come vivere, non sa cosa sta facendo. Se lo fa un ricco, tutto benissimo. Poi dicono cose come: “Ma che cosa ci vanno a fare questi agli stellati, tanto non hanno il palato per apprezzarli. Non sanno che cosa siano le cose buone”.

È facile disconnettersi con la realtà della società e delle altre persone quando si è ricchi e lo si è sempre stati. E i media non aiutano a modificare la situazione.

Abbiamo gli strumenti per scrivere una storia parallela della cucina e delle cucine? Che tenga conto di chi ora è invisibile?
Studiare la storia della cucina e della gastronomia ti fa capire che si tratta di ambienti dinamici, che la tradizione non è immobile e non è sempre stata così. Per questo dobbiamo inserirci in questo flusso, capire che gastronomia non vuol dire ristorazione, o che, per esempio, la carne non è sempre stata vista dalla società nel modo in cui la vediamo oggi, e così le verdure e tutto il resto. Un libro che consiglio sempre è The sexual politics of meat di Carol J. Adams. Dobbiamo rendere il cibo politico, ma non in ottica nazionalpopolare. Il cibo non deve dividere le persone, deve unirle. Lo vediamo nelle campagne politiche della destra: in Francia hanno usato anche il cibo per rendere “gli altri” degli estranei, qualcuno che non ha nulla a che fare con i francesi a partire dalla tavola. Vogliono farti credere che la tua identità sia messa in pericolo dall’identità di qualcun altro. Così si creano i buoni francesi e i cattivi francesi, a seconda di quello che mangiano. Anche in Italia avete queste logiche.

Foto: press

La Francia e la politica: che cosa sta succedendo?
È un incubo. Sapevo di vivere in un paese razzista: mio padre è algerino, e da sempre ho ricevuto insulti e messaggi razzisti. In più, come donna, ne vivo anche il lato misogino. La destra francese si porta dietro tutta una serie di fobie e intolleranze. Quando il Rassemblement National ha vinto al primo turno delle elezioni è stato come sputare sui diritti umani. Il sentimento è quello di essere impotenti, anche perché i media francesi ammorbidiscono molto l’immagine dell’estrema destra francese.

Ho paura, la violenza sistemica sta aumentando. Il mio paese è la Francia, sono nata qui, e allo stesso tempo so che per i francesi bianchi non sarò mai davvero francese. Ma il punto è che la situazione è brutta per tutti, e non se ne rendono conto. Non si rendono conto che il Rassemblement non ha alcun programma sociale. Il razzismo e le bugie sono così forti che sono diventati ciechi a tutto. Nessuno se non i ricchi trarrà beneficio dal programma della destra, e davvero, non lo capiscono. Non si comunicano più i fatti: se le tv dice che dovrei essere impaurito, allora lo divento. Ci sono solo opinioni, la maggior parte devianti.

Per chiudere su una nota spensierata: qual è il tuo piatto preferito?
La pizza, rigorosamente margherita e napoletana. Non ho un dubbio al mondo. Non mi serve nient’altro. Io non mangio carne, e in Italia essere vegetariani è facile e stupendo.

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