È inverno e stai passeggiando per il centro di Reggio Emilia illuminato dalle luci natalizie. Ti lasci alle spalle la Basilica di San Prospero e inforchi via Roma, una strada non particolarmente memorabile. A un certo punto però, sulla sinistra, noti l’insegna di una pasticceria aperta dal 1890, la Pasticceria Boni, così decidi di entrare a scuriosare. Tra panettoni al cioccolato e zuccotti, noti uno strano dolce a forma di serpente. Chiedi informazioni: «Si chiama Biscione Reggiano, è una specialità natalizia di queste parti». Una biscia (anzi, facciamolo localizzato, bisia) a rappresentare il Natale? Questa è nuova. E invece no, al contrario, si tratta di una tradizione ben più antica di pandoro e panettone, di origine pagana e nemmeno limitata alla città del Tricolore.
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Le tradizioni pagane prima che il Natale fosse Natale
C’è stato un tempo, anteriore all’esordio della musica pop, in cui il Natale non era un’occasione per chiedere a Babbo Natale la propria crush in dono, e la Coca-Cola non aveva ancora monopolizzato la brand identity di ogni immaginario festivo.
Prima del ‘900, il Natale era un’esperienza permeata esclusivamente da radici religiose e tradizioni comunitarie: le case erano addobbate con semplicità, si usavano agrifoglio e vischio, e le chiese erano il fulcro delle celebrazioni, con messe di mezzanotte e drammatizzazioni della Natività. Certe tradizioni però risalgono anche a prima della nascita di Gesù – della cui data esatta non esistono prove storiche – e si intrecciano con riti pagani: il 25 dicembre, prima che il Cristianesimo diventasse religione di Stato dell’Impero Romano nel 380 d.C., era collegato alla festa del Dies Natalis Solis Invicti (letteralmente “giorno di nascita del sole invitto”), celebrata dai Romani durante il solstizio invernale in onore del dio Mitra. I Saturnali, dal 17 al 23 dicembre, erano invece dedicati a Saturno, dio dell’agricoltura, con scambi di doni e banchetti.
Alcune tradizioni pagane latine si sono poi fuse nel Cristianesimo, assumendo nuovi significati tramite influenze culturali diverse e arrivando ai giorni nostri, anche sotto forma di dolci. Durante il periodo dell’anno in cui il sole raggiunge il suo minimo sull’orizzonte, immergendo l’emisfero boreale in una notte lunga e fredda, le culture hanno da sempre celebrato divinità mediante offerte, canti e processioni, con il proposito di invocare protezione e prosperità, sfidando gli impatti dell’inverno e implorando la rinascita della vita. In tutto questo, i dolci erano protagonisti, e tra questi c’era per esempio il marzapane, che assumeva a volte forme simboliche, tra cui quella del serpente.
Perché proprio il serpente?
Nell’antica Roma, i cittadini onoravano i defunti con una devozione quasi divina, specialmente durante i Saturnali, durante i quali si celebravano i Lari. Questi erano gli spiriti benevoli dei defunti, considerati guardiani delle famiglie, e durante le festività le famiglie scambiavano statuette chiamate “sigilla”, raffiguranti appunto i Lari, dedicando loro uno spazio speciale in casa, noto come “larario”. Qui offrivano piante profumate, fiori, cibo e incenso. Nel larario era comune trovare un serpente crestato, simboleggiante il genius loci: un tema iconografico visibile anche sulle pareti esterne delle case di Pompei ed Ercolano.
A quanto pare, si trattava di divinità pagane che avvertivano che quel luogo era sotto la loro protezione. Pensiamo anche al caduceo, il bastone alato con due serpenti arrotolati simbolo della medicina. Questo, insomma, a conferma dell’importanza della figura del serpente nell’antichità. A Roma, sempre nel periodo “natalizio”, veniva poi venerata una dea chiamata Strenua, spesso raffigurata con un serpente arrotolato e identificata come divinità legata al mondo sacro dell’oltretomba – il nome Strenua ha dato origine in italiano alla parola “strenuamente”, l’avverbio che indica la forza messa in atto dalle persone per affrontare le avversità. Secondo la leggenda, a questa divinità era stato dedicato un bosco sacro, dal quale i Romani raccoglievano rami per offrirli a Romolo, un rituale che si svolgeva fino alle calende di gennaio e che prevedeva anche lo scambio di frutta fresca e secca, come fichi e mele, simboli carichi di significato positivo per augurare prosperità. Durante le celebrazioni di Strenua, i bambini ricevevano dolci di marzapane: alcuni forse raffiguranti il genius loci romano, un serpente amico e rassicurante, simbolo sacro che annullava influssi maligni e preservava la vita.
E anche quando nessuno credeva più alla dea Strenua, erano ormai rimaste come lascito culturale le strenne, cioè i doni di buon auspicio del Natale italiano. Tra questi, ogni anno, certi dolci a forma di serpente continuano a presentarsi, strenuamente (ops!), sulle tavole di alcuni italiani.
Il biscione reggiano e gli altri casi italiani
Ma veniamo alle ricette. Il dolce natalizio a forma di serpente, chiamato anche “biscione natalizio”, è particolarmente amato dai cittadini di Reggio Emilia. Insieme alla Spongata, rappresenta l’equivalente reggiano del Pandoro di Verona o del Panettone di Milano, ed è un dolce di preparazione abbastanza complessa, realizzato con mandorle dolci italiane, zucchero, uova e canditi. L’impasto viene lavorato a forma di serpente lungo, che può essere arrotolato su più piani di una tortiera per un effetto–wow e anche un po’ kitsch. Viene cotto al forno, e la parte superiore è decorata con una meringa che non dovrà assolutamente prendere una colorazione gialla. Si trova nelle pasticcerie più storiche della città, anche se la sua origine pagana è in realtà una finta origine inventata: la sua nascita in realtà si colloca solo agli inizi di questo secolo, ideato da un pasticcere (anch’egli ricoperto dai veli della leggenda) che lo ideò come regalo natalizio per i suoi dipendenti.
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Nel resto d’Italia si producono dolci simili, alcuni, questa volta davvero, con radici che affondano nella cultura pagana. Il Torciglione Umbro, per iniziare, è un dolce di pasta di mandorle a forma di serpente arrotolato su se stesso, per occhi ha due ciliegie e per squame dei pinoli. È il tipico dolce natalizio di Perugia e dell’area di tradizione etrusca dell’Umbria. Zucchero, farina, brandy, un tuorlo e gli albumi, oltre alle mandorle macinate, sono gli ingredienti principali di questo finto rettile, che ha una lunghezza media di 25 centimetri e la cui origine è legata al solstizio d’inverno. Inizialmente votivo, rappresentava un serpente adorato come divinità, simbolo di vita eterna. Alcuni ritengono che in realtà rappresenti un’anguilla del lago Trasimeno, inventato da monache in un periodo di carestia per deliziare ospiti in mancanza di pesce.
In Lazio e Abruzzo il Torciglione ha preso il nome di “Serpentone” ed è un dolce di pasta di mandorle aromatizzato al limone, decorato con colori vivaci, con le nostre due ciliegie rosse al posto degli occhi e una mandorla all’altezza della bocca, per simulare la lingua. Se vi trovate a Spoleto o nella Valle del Nera durante le festività mangerete invece l’“Attorta”, o, nella zona di Foligno, Assisi e Spello, la “Rocciata”. Anche questi dolci sono a forma di serpente, hanno un colore rosato dovuto all’alchermes, e racchiudono una base di pasta sfoglia con ripieno di mele cotte nel vino, zucchero, noci, cacao e limone. La Rocciata aggiunge fichi, marmellata, uva sultanina, pinoli, mandorle, cannella e vaniglia. La loro origine è legata alle calate delle popolazioni nordiche dopo la caduta dell’Impero Romano, e la tradizione persiste con le sagre, come quella della Rocciata di Foligno.
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Il “Lu Serpe”, invece, è un dolce natalizio a forma di serpente arrotolato tipico delle Marche, con radici profonde nella tradizione faleronese – nella provincia di Fermo. È stato inventato probabilmente nel ‘600 dalle Monache Clarisse, e simboleggia il rinnovamento naturale dell’anno e, intrinsecamente, il cambiamento positivo. I suoi ingredienti includono mandorle, zucchero, uova, liquore, limone, arancia, cannella e cacao. Il dolce è pitturato con cioccolato e decorato in maniera molto minuziosa, infatti è tra i serpenti natalizi più belli.
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Scendendo infine in Campania si trova la “Pizza Figliata”, che ha un nome ingannevole: non è una pizza bensì un dolce diffuso principalmente a Camigliano, tra Capua e Pignataro Maggiore, e in comuni limitrofi come Calvi Risorta e Teano. Con una forma cilindrica a ciambella, leggermente spiralata, è di colore biondo ambrato, è fatto con un impasto di farina, uova, olio d’oliva, zucchero e vino bianco, e ha un ripieno di pasta sottile con miele, noci pestate, zucchero e aromi naturali. In passato veniva fritta in abbondante olio d’oliva, mentre oggi alcune varianti includono cacao e uvetta nel ripieno, mantenendo comunque la preferenza per la versione tradizionale.