Per Thomas Straker, il burro è una cosa seria. Lo chef inglese lo usa sui suoi profili social al posto dei pronomi personali preferiti: né lei, né lui, ma burro. Lo è anche per la provincia di Parma, dove lo si ritrova sotto il culatello, strato di mezzo con pane, torta fritta, come volete. Lo è per gli irlandesi della contea di Cork, che al burro hanno dedicato un museo. Lo è per i francesi che infatti lo salano bene, lo era per alcune popolazioni antiche che, come scrive Elaine Khosrova in Butter: A Rich History, lo consideravano sacro (sia per il mistero attorno alla sua produzione, sia per il legame con i simboli della fertilità, nella fattispecie la zangola). E, se siete di quelli che frequentano la “cucina raffinata”, avrete notato che il burro, a tavola, è esploso. Forme, colori, sapori: dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, tutti ci mettono il burro. Sul pane, ovvio.
O meglio, a fianco. Fatto tondo, sferico, a panetto. Dolce, salato, affumicato. Centrifugato in casa, appaltato alla cascina di fiducia. Tematizzato per un menu, l’occasione. E voi direte: ma che novità è, ma non lo sai che Maison Bordier, lassù in Bretagna, nei burri personalizzati ci sguazza, che li vende ai clienti, che ci fa i soldi? Non lo sai che su TikTok c’è stato un #butter trend guidato proprio da Straker, all things butter e tra queste anche taglieri di burro? E poi quenelle aromatizzate, grassi animali a favor di telecamera, edonismo a suon di uno dei prodotti più demonizzati degli ultimi quarant’anni?
Ma sì, ma certo. So che il burro di Norbert Niederkofler all’Atelier Moessmer è scuola di porno. So che da Etra, a Genova, ci hanno giocato e l’hanno reso un teschio rosa, strizzando l’occhio al Geranium di Copenhagen. So che quello estivo sa di fieno e quello invernale – be’, di molto meno. Che Ai Due Platani, appena fuori Parma, mantecano di fresco un gelato alla crema che pare una montagna di burro. Che con l’acciuga sta sempre meglio. Che se Marco Ambrosino me lo serve da Sustanza a Napoli invece che l’olio non è che mi stupisco, me lo aspetto. Che il Soresina ha la confezione, in latta, più intramontabile di tutte. Che salato, perdonatemi, è più buono. Che il Kerrygold l’abbiamo visto tante volte in tv come sponsor di MasterChef. Che pane, burro zucchero è la madeleine all’italiana, e che la nostalgia è di moda. E nonostante tutto questo, non riesco a spiegarmi perché questo burro, queste aspettative, proprio ora. Perché se poi vai in un posto “fine” e non te lo portano, ammazza se ci rimani male.
Riavvolgiamo le puntate. La nostra relazione con il burro è stata, storicamente, im-mediata: metodo per conservare il latte (per una puntata apposita, da questa parte), per avere nutrimento facile quando il conteggio calorie non era cosa, per far più buono il sugo di pomodoro e lasciar di stucco i nipoti – i trucchi delle nonne trasformano ogni principiante in rezdōra provetta. Scrive Khosrova che si pensa che il primo burro sia nato per caso, quando, addirittura nel Neolitico, un qualche mandriano abbia conservato del latte in pelle d’animale. Con il passare del tempo e lo sballottamento del trasporto, il latte si sarebbe separato dal siero e si sarebbe così creato il burro. «Aveva un sapore delizioso e veniva usato come medicina e per rendere impermeabili gli oggetti», scrive l’autrice.
Da genere umile e serendipico, il burro divenne fatto da ricchi verso il 1400, quando la Chiesa cattolica impose una tassa sul suo consumo quaresimale, tradizionalmente proibito. Poi i grassi saturi, è noto, ci hanno spaventato; le preoccupazioni per la salute si sono unite alla scarsità di burro provocata dalla Seconda Guerra Mondiale; e per un periodo è stato più consono trovarlo al ristorante che fargli posto sugli scaffali del frigo.
Creata nel 1869, la margarina (di fatto un surrogato del burro, o l’alternativa per intolleranti al lattosio, vedete voi) aprì la danza del: “Ma quanto burro c’è in quella torta?”. “Niente, niente, non ti preoccupare. È una sette vasetti e ci metto lo yogurt magro”. Negli Anni Cinquanta (dati USA), la margarina superò il burro in popolarità. Bisognerà aspettare fino al 2005, e a un’onda di rigetto per la diet culture degli Anni Ottanta, per il nuovo sorpasso del burro sulla cugina surrogata. Come scriveva il Washington Post, alcuni erano addirittura tornati a mettere il burro nel caffè.
Dalle nostre parti, è dallo scorso decennio che ci siamo iniziati a chiedere “chi avesse paura del burro cattivo”. C’entra anche la predilezione per un’alimentazione più in linea con la “naturalità” del prodotto, qualsiasi cosa si voglia intendere. Il burro non cresce sugli alberi ed è più “intuitivo” di un ammasso di olii vegetali resi crema. Così, almeno, corre il pensiero. What a time to be alive.
La cronologia, comunque, non viene in nostro favore. Dobbiamo cercare la nostra risposta altrove. Proviamo qui: «Se il burro è sempre stato una fissa per un certo tipo di chef iper-attento ai dettaglio, i clienti lo hanno spesso trattato come qualcosa che arriva e basta». Ok: dalle pagine di Grub Street, Ella Quittner ci sta dicendo che non dovremmo farci prendere troppo la mano, associando tutto alle meraviglie del presente. Allo stesso tempo, però, «il burro non è più il personaggio secondario. È diventato il protagonista, e non ha intenzione di spostarsi dai riflettori tanto presto». Parafrasando: il burro non è mai stato qualcosa di nuovo; finché non è diventato qualcosa di “nuovo”.
Dalle nostre parti, abbiamo detto, il nuovo-nuovo è arrivato come star delle cene stellate o aspiranti tali. Al Libertine di New York ha l’aspetto di un kebab di burro zangolato (non credo abbiano la zangola, al Libertine, ma lasciatemela passare). A Las Vegas, lo Stanton Social Prime gli conferisce il rango di portata a parte, servendolo in un piccolo disco sotto una cloche, accompagnato da rifiniture vegetali e una piccola baguette.
Negli anni Dieci del nostro secolo, il cuoco Dan Barber introdusse il single udder butter, piatto di burri serviti au naturel. Da Quality Bistro (della famiglia del famoso Bad Roman), sempre a New York, il burro è piatto a sé: Butter Service, con il suddetto e ammenicoli (no, va bene, hors d’oeuvre), per circa 40 dollari. Per tornare al fattore-edonismo: è complicato – e senza compromessi.
Relazione ingarbugliata, quella tra il pane e i ristoranti (vi facevamo un riassunto qui) e, ultimamente, anche tra filoni, grissini e compagnia bella e il loro companatico. La questione è ancestrale: viene prima il burro o la pagnottina? Prima il condimento o la base a raccoglierlo? Lo chiedo a uno chef, mi fa intendere che è sempre una questione di punti di vista: forse io ho tanta voglia di strafognarmi di carboidrati lievitati, e con il grasso sopra sono più buoni, comfort, piccolo lusso che mi giustifica l’eccezione del mangiare fuori casa, lo completa. Forse lui preferisce vederla così: il burro sì, l’olio sì, ma qualsiasi inzuppabilità del pane deve avere una sua ragion d’essere ad anteriori. Dev’essere, sostanzialmente, tutto parte di uno stesso piatto. Altrimenti, meglio portare fette da coperto e non pensarci più.
Forse ha ragione. L’antidoto alle bizzarrie, alle storture di un sistema che si morde la coda e replica se stesso – il fine dining, mica il burro – potrebbe stare nel levarsi dal gioco. Eppure, e l’ho visto giusto ieri: se sul tavolo non compare quel coltellino corto e piatto, che annuncia l’arrivo di croste scrocchianti e molliche sugose, io ci sto male come l’amante a cui viene preferita la moglie. Anche se viene presentato a secco, senza parole introduttive, narrazioni di contorno. In altre parole, quando si parla di coerenza del menu, di coesione e percorsi: il burro raramente vi è inserito. C’è, e basta.
Se però ogni portata vuole una storia, anche per il burro, “piattizzato”, dovrebbe essere così. Oppure no, e prendiamoci il coraggio di dire che mangiamo per mangiare, e fatto giusto e bene, ma che tanto è. In caso contrario, spesso capita un riflesso: il “vino bovino”, sic in una definizione da addetto ai lavori riportata dal Guardian, finisce a parlare di noi più che di quelli che lo servono. Della nostra voglia di non pensarci. Dell’ottimizzazione della spesa a cui siamo arrivati nell’era post-Covid: se ci lascio dei soldi, voglio riempire quella cifra al massimo. Del fatto che vogliamo godercela ai nostri termini: ignorare la vulgata sul burro e spalmarcela, questa fetta di pane, sentire la seta che scioglie sulle labbra, il dolce l’erboso, una punta di sale magari. Colpevole, perfetto edonismo, appunto.
Per tornare a noi: allora, com’è che il burro impazza su ogni tavola? Nelle “grandi idee collettive” può essere impossibile rintracciare capostipiti, “il primo che”. Forse non è nemmeno così importante. Nell’eterno gioco delle partenze e dei ritorni dal nostro immaginario, a noi è toccato in sorte il burro. Che oggi è sine qua non e domani avrà solo chi lo presenterà secondo un progetto, chissà. Anche per spremere questo bianco degli dèi serve pazienza, olio di gomito e una discreta quantità di panna in surplus. Stringi che stringi, vedremo chi rimarrà.
«La fantasia è il burro», scriveva Italo Calvino, «ma perché sia produttiva bisogna spalmarla su una fetta di pane». Ecco, forse ci siamo persi di vista la fantasia. O meglio, forse ci siamo assuefatti a un gesto che ha sempre voluto dir tanto, e che ora abbiamo fatto finire nella consuetudine. Chissà se, tornando alla meraviglia, anche il burro tornerà a essere un piatto originale.