Mi sono illusa per molto tempo che Bologna fosse ben protetta da spesse mura di mortadella, altissimi bastioni di tortellini, profondi fossati sui cui alvei giacciono tagliatelle al ragù pronte a imprigionare l’invasore con i loro tentacoli e a farlo affogare in una palude di carne macinata e soffritto. Capivo che i vari «andiamo un weekend a Bolo?» delle mie amiche suonavano come grida d’aiuto, come la speranza d’essere tratte in salvo, la pretesa (nonché la certezza) – almeno per un weekend – di mangiare bene, in maniera sincera e a prezzi più che onesti. Bologna, insomma, da qualche anno a questa parte viene vissuta sia da me medesima che dalle persone a me vicine come la soluzione più veloce ed efficace per prendere una pausa da Milano, per lo meno gastronomicamente parlando.
All’Osteria Bottega, da Nello al Montegrappa, al Ristorante Grassilli, alla Trattoria di Via Serra, alla Trattoria Battibecco, alla Trattoria Sandoni, (parecchio) fuori porta da Irina a Savigno; per non parlare degli aperitivi tutto tranne che stitici durante i quali, dopo averti generosamente riempito il bicchiere, arriva sempre qualcuno a domandarti «ragazzi, desiderate un tagliere?». E tu che fai, gli dici forse di no – rinunciando a mortadella, salame, tigelle, squacquerone e gnocco fritto – perché sei abituato alle patatine umidicce e alle noccioline del 1926 che ti servono come a farti un favore nei locali milanesi? Sia mai.
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È con questa sicumera che, nel weekend in cui si tenevano le primarie del PD (bizzarra circostanza, pensandoci a posteriori), sono scesa nella mia città natale insieme a un’amica, munita d’una lista di prenotazioni effettuate nelle settimane precedenti, ché ci manca solo che non mangiamo dove vogliamo mangiare. Tutto bene fino a sabato sera, quando arriviamo piuttosto provate (pranzo a base di vino rosso e tagliere allo Zerocinquantino, aperitivo a base di Franciacorta e tagliere alla Vineria Favalli) all’alba delle 21:45, pronte a provare un posto di cui abbiamo tanto sentito parlare a Milano.
E qui si apre la prima parentesi, sulla stronza (e talvolta inconscia) ostinazione di noi milanesi, che – quando usciamo da Milano – ci ritroviamo spesso a tornare nell’inferno dal quale siamo fuggiti: una pervicacia che ha del masochistico, attribuibile probabilmente alla FOMO che ci perseguita («Siete state a Bologna? Ma siete andate da…», «Ehm, no», «Ma come no?»), o forse al nostro innato senso di superiorità («Siete state a Bologna? Ma siete andate da…», «Ovvio, ma è una roba che a Milano facevano dieci anni fa»).
Chiudo la prima per aprire subito la seconda, a proposito del piattino, termine corsivato apposta in quanto espressione di un modus vivendi – anzi, mangiandi – un’epidemia peggio del Cordyceps che non uccide subito, bensì agisce ammazzando subdolamente e pian piano la voglia d’uscire. Il piattino – come le sfighe – non arriva mai da solo, ma insieme ad altri piattini, tutti da immolare sull’altare della condivisione casuale e sfrenata. Il piattino è una manna dal cielo quando vai a bere una cosa, chiaramente non in un ristorante, e al terzo giro di drink scopri di poter tamponare l’alcol in loco, senza sbattimento alcuno: i più lungimiranti hanno afferrato il concetto introducendo la prenotazione sin dall’aperitivo e infatti sono sempre pieni, dimostrando che la formula funziona alla grande.
Il piattino diventa una maledizione a cena, con quelle che sono le sue regole implicite: non esiste una divisione tra antipasti, primi e secondi, tutti i piattini sono uguali e accanto al broccoletto arrostito vivono lo spaghettino alla liquirizia e la braciolina glassata. I prezzi più o meno si equivalgono: in media sono alti, così come il dilemma etico e lo sconforto che t’assalgono. Quanti piattini dovrò ordinare per saziarmi? La lattuga con riduzione di melograno si sposa bene con la coscetta d’oca al coriandolo? E questo cavolo cappuccio con besciamella di maiale (!), quanto sarà grande? Da dove arriverà, per costare ben 18 euro? Oh tu guarda, un french toast con cipolla fondente: cosa vorrà dire? “Carpaccio di verdure crude” perché scrivere insalata faceva cafone? Mentre t’arrovelli sulla scelta tra piattini che in genere mischiano ingredienti buttati lì un po’ a cazzo di cane (spoiler: ne ordinerai sempre troppo pochi, nel mondo dei piattini non c’è giustizia sociale), s’apre la parentesi relativa al vino, la nostra terza.
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I ristoranti che propongono piattini generalmente non hanno la carta dei vini, e i loro vini sono (ovviamente) naturali. A tal proposito ricordo scambi parecchio affascinanti da Røst, iniziando con un grande classico: «Noi non abbiamo la carta dei vini, noi i vini li raccontiamo».
Proseguendo con un dialogo vagamente surrealista:
«Vi proporrei un vino “simpatico”»
«Ma in che senso, simpatico?»
«Nel senso che è più una bibita che un vino»
«Ah, noi però vorremmo un vino che è un vino»
Concludendo con un piccolo trattato di psicologia: il vino rosato naturale biodinamico prodotto nella valle mai sentita nominare e recuperata da due coraggiosi vignaioli alla modica cifra di 40 euro che «va tenuto un po’ lì e lasciato riposare per poterlo capire».
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La cena a base di piattini è equiparabile a un coito interrotto: il ristoratore raggiunge l’orgasmo appena la carta di credito viene strisciata, tu invece te ne stai lì un po’ in disparte a domandarti quando arriverà il tuo momento di personale godimento. Il più grande fallimento del piattino avvenne in un luogo dal nome profetico: Bites, dove per letteralmente tre morsi – ehm, piattini – senza pane («la nostra filosofia è di non servirlo») e una bottiglia del vino naturale più economico spendemmo la modica cifra di 70 euro a testa. Lo definimmo l’aperitivo più caro della storia e con estrema nonchalance ripiegammo su una quattro formaggi da Pizza OK; costo totale della serata, mettici pure il taxi per tornare a casa, più di 100 euro.
Milano ha questo talento, riesce a farti sperare nell’avvento della dittatura rivoluzionaria del proletariato, e finalmente mi riallaccio alla premessa di ben otto paragrafi fa: le fughe bolognesi e la famosa cena prenotata con settimane d’anticipo alle 21:45. In un ristorante che nella capitale italiana della resistenza al piattino decide di cavalcare comunque la moda del piattino, e che pare giustificarsene già dal nome (Ahimè, quasi un monito), assistiamo impotenti alla disfatta. Il pane c’è, ma si paga (6 euro), i piattini hanno un livello di sapidità che richiederebbe l’intervento del Tribunale internazionale dell’Aia, il vino (naturale) su cui abbiamo ripiegato dietro raccomandazione del sommelier è talmente orrendo che tentiamo invano di stemperare l’eccesso di sale con fiumi d’acqua frizzante. Prezzi chiaramente milanesi e una conclusione univoca e insindacabile: ahimè, no.
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Ora, una rondine non fa certamente primavera, ma vorrei che venisse messo agli atti: cari piattini, giù le mani da Bologna. Non so da dove e non so come siate riusciti a raggiungerla, ma andate a fare le vostre crociate altrove, voi con le vostre lattughe col chimichurri; le vostre banane arrosto col fegato d’anatra; le vostre scarole al tuorlo, mela e senape. E tu, cara la mia Bologna, non cedere al canto suadente dei piattini: è come quello delle sirene omeriche, delizioso, dolce e seducente, destinato a stordirti e a costringerti a sacrificare barbaramente lasagne, taglieri e tortellini. Sicura che ne valga la pena?