Abbiamo visto cose, noi residenti a Milano da quasi venticinque anni – il che spesso c’illude d’esserci persino nati – che voialtri, giovani espatriati da province siciliane, venete, emiliane, liguri o campane, non potreste immaginarvi. Il va/non va dei locali meneghini segue un andamento diametralmente opposto e drammaticamente veloce rispetto a quello delle altre città: non si tratta d’un banale “andare di moda”, non c’entra tanto il fatto che “ci sia della gente”, quanto che ci sia un determinato tipo di gente – la cui età è in genere un fattore secondario – e che quel determinato tipo di gente animi quel determinato tipo di posto, bello (di rado) o brutto (il più delle volte) che sia.
È difficile spiegare a un non-milanese perché lì sì e là no, perché prima lì era ok e adesso non lo è più, perché se t’invitano a far serata là, be’, lasciatelo dire, è meglio se stai a casa. Gli americani hanno una parola giustissima per descrivere questo perenne movimento, scene, che tradotto in italiano – scena – oltre a fare un po’ schifo non rende perfettamente il concetto. La scene della Milano che non si mischia con i bocconiani fuori sede, con i morti di figa, con le rifattone che traballano sulle Louboutin, con ciò che resta degli hipster, con i fashion victim e più in generale con i whatever-victim, dopo aver sguazzato per un paio d’anni nella pozza del cosiddetto “posto sincero” – tradotto: il bar/trattoria/osteria solitamente squallido dove mangiare pesante e bere il vino della casa che sa di aceto – oggi ha (ri)scoperto un qualcosa che esiste da sempre e che ha eletto a portabandiera del nuovo cool: il bar degli sciuri.
O forse è meglio dire l’ex bar degli sciuri, così come forse è meglio dire nuovo chic: il locale storico, un po’ polveroso e fané, dove al massimo vai per bere un caffè ma sia mai per l’aperitivo o per cena, dove le sciure sono impellicciate pure in primavera inoltrata e spiegano che vorrebbero tanto il cannoncino alla crema, ma poi il colesterolo chi lo sente.
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In principio fu la Pasticceria Marchesi 1824 (rigorosamente nella sede di Santa Maria alla Porta), acquistata e “svecchiata” nel 2014 dal Gruppo Prada, che funse da apripista; a seguire il Camparino in Galleria, datato 1919, che nel 2019 ha subito un intervento di restyling “silenzioso” firmato dall’architetto Pietro Lissoni. Poi, la Pasticceria Cucchi in corso Genova, fondata nel 1936, che per il Natale 2022 ha realizzato una limited-edition con il brand MSGM di Massimo Giorgetti – a sua volta cliente affezionato – composta da panettone, abbigliamento e accessori con i loghi combinati delle due realtà, da cui è nato il gioco di parole “Cucchi, amo”.
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Pur cambiando l’ordine degli addendi si ottiene lo stesso risultato: le ristrutturazioni conservative modernizzano ma non stravolgono; le drink list vengono rese più contemporanee grazie a nuovi bartender e mixologist; felpe e t-shirt sono sold out nel giro di pochi giorni; la voce si sparge e l’idea di dare una chance al bar degli sciuri non sembra così campata per aria. Al punto che i vari Marchesi, Camparino, Cucchi, diventano luoghi d’elezione non solo per l’aperitivo, ma anche in occasione di un rito dimenticato che – in un’epoca di smartworking dove il controllo sulle modalità gestione del proprio tempo lavorativo si è allentato – sta ritornando in grande spolvero: la merenda.
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Ultimo ma non ultimo, il Sant Ambroeus in corso Matteotti, bar degli sciuri per antonomasia, che rappresenta di per sé una case history a parte. Fondato nel 1936 da Teresa Cattaneo, in passato fu il salotto buono dell’intellighenzia milanese, che qui poteva fare colazione, pranzare, cenare o acquistare i dolci della pasticceria. Negli anni Settanta i Cattaneo lo vendettero alla famiglia Pauli, proprietaria del locale fino al 1982, quando decise di esportare l’eredità del marchio a New York e la sede milanese passò alla famiglia Festorazzi. Nel 2003, Dimitri Pauli fonda insieme a Gherardo Guarducci SA Hospitality Group, con l’obiettivo di diffondere ulteriormente l’eredità di Sant Ambroeus negli Stati Uniti e di ricongiungersi un giorno con Milano, cosa che avviene nel 2021: SA Hospitality Group rileva la sede milanese avviando una partnership con la famiglia Festorazzi, che rimane proprietaria dell’edificio, e parallelamente un lungo restauro.
I lavori sembrano infiniti, e l’attesa da sola genera non poco hype. Il Sant Ambroeus riapre ufficialmente i battenti il 14 novembre 2022, dopo un evento blindatissimo in collaborazione con il brand di moda The Attico: già prima dell’inaugurazione nessuno sa cosa è diventato e com’è, eppure tutti vogliono andarci. Gherardo Guarducci, fondatore e presidente esecutivo di SA Hospitality Group, ha definito l’operazione un «ritorno al futuro»: «la premessa che chiunque fa è “non eri cool, e ora lo sei”. Forse però è proprio la premessa a non essere corretta: una storia che va avanti dal 1936 è mai stata “not cool”? È mai stato “not cool” bere il caffè dove da novant’anni lo bevono nomi noti, apprezzati e rispettati della cultura milanese? Queste storie incredibilmente di qualità e di heritage, a Milano come in tante capitali mondiali, sono tutte cool. Probabilmente la chiave sta nel comunicare che sei cool a una nuova generazione».
E a tal proposito Garducci ha una teoria, che trova riscontro immediato nella moda (sì, ancora), se si pensa ad esempio a brand come Adidas Originals e al successo che il revamping di modelli come Samba, Japan o SL 72 sta avendo: «i miei genitori pensavano che fosse cool tutto ciò che stava davanti ai loro occhi e che stava per arrivare: oggi la Generazione Z guarda a quello che sta davanti e non vede, non trova la stessa coolness. I Millennial hanno lasciato un patrimonio poco interessante per gli Z, e gli Z stanno reagendo dando parecchio valore al passato, a ciò che funzionava esteticamente e in qualunque altro senso nella storia degli ultimi cent’anni».
«Per comunicare con loro, una storia cool come quella del Sant Ambroeus si deve affiancare a delle storie attuali e contemporanee, che non sembrino “disperate” per essere cool, ma risultino al contrario “comfortably cool” nel loro posizionamento – come può essere ad esempio quella di The Attico, un brand che è appunto comfortable perché interpreta benissimo lo stile, l’estetica e lo spirito del tempo. The Attico, a differenza di altri marchi di moda, non rincorre la coolness, è cool senza alcuno sforzo: i giovani sgamano subito se una cosa non è genuina e autentica, dunque – strategicamente parlando – la nostra è stata una collaborazione naturale, organica. Gilda Ambrosio e Giorgia Tordini hanno sempre apprezzato il Sant Ambroeus, venivano a New York ed erano clienti, quindi è stata un’affiliazione quanto mai coerente».
Un’operazione che ricorda per molti versi quella tra la Pasticceria Cucchi e MSGM, e che conferma una fortunata tipologia di partnership destinata a essere un leitmotiv nel settore: «moda e ristorazione offrono esperienze sensoriali molto importanti – quella ristorazione poi è a tutto campo, essendo l’unica a coinvolgere in toto i cinque i sensi – e in questo momento storico l’una olia l’altra». Tuttavia, il connubio nel caso del Sant Ambroeus non risulta pacchiano o sfrontato, anzi: bar e ristorante quasi sono sempre pieni, a qualsiasi ora del giorno, abbracciando trasversalmente diverse fasce d’età unite però da un unico comun denominatore, l’appartenenza al medesimo côté culturale ed estetico.
«Tanti pensano che il successo debba essere sfacciato e aggressivo, per cui mi guardano un po’ increduli quando ripeto il mio mantra, “vogliamo sempre essere il ristorante numero due”. Vogliamo essere il ristorante preferito da tutti, da chi vuole andare al ristorante numero uno del momento, non trova posto, e subito gli viene in mente il Sant Ambroeus. La ristorazione è un’esperienza che si deve avvicinare a quella di casa, non certo a quella di un evento modaiolo contraddistinto dal più classico “I have to be there”. Noi non vogliamo andare a braccetto con la FOMO».
E la concretizzazione del Guarducci-pensiero si ha nel piatto-simbolo del Sant Ambroeus, quel famoso spaghetto al pomodoro entrato a gamba tesa nella conversazione cittadina: «lo spaghetto al pomodoro rappresenta la classicità dell’esperienza del Sant Ambroeus: è un evergreen, e insieme un piatto parecchio difficile da eseguire in un ristorante. La ricetta è sì semplice, ma i tempi di cottura e gli ingredienti – la pasta, il sale, il pomodoro, l’olio, il basilico – devono essere controllati al millimetro e raffinati per ottenere un ottimo risultato. Complicated simplicity, come diciamo noi. Siccome non solo a Milano, ma pure nel mondo, non si trova facilmente uno spaghetto al pomodoro da 8 o da 9 – perché da 10 è solo a casa –, allora abbiamo pensato di farlo noi».
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«La semplicità è il vero lusso, quindi lo spaghetto al pomodoro, quando lo trovi buono, è un vero lusso. Così come il nostro piatto di salmone affumicato, fatto con il salmone scozzese. È la solita differenza: mangiare da 9 i grandi classici è un vero lusso. Il problema è che il grande classico di solito lo mangi da 7, quindi non ti lascia un ricordo. Ma se lo ritrovi preparato da 9, è una cosa che ti ricorderai molto di più di un piatto assaggiato in uno stellato».
Se lo spaghetto ha fatto discutere, figurarsi il resto del menu, dove accanto ai classici della cucina italiana trovano spazio proposte dalla forte impronta statunitense come lobster roll, ceasar salad, hamburger e fritto misto Palm Beach style: «abbiamo avuto tanti apprezzamenti, ma anche tante critiche per aver cambiato le cose. Molti detestano il cambiamento perché gli ricorda che la vita prosegue e che ci si trova davanti a una scelta cruciale: andare avanti con la testa, o scegliere di rimanere indietro con la testa. Spesso è più comodo rimanere indietro con la testa e criticare quanto è stato fatto di buono. In Italia poi c’è una grande diffidenza e ignoranza nei confronti del concetto di “impresa”: l’italiano è naturalmente restio a vedere la ristorazione come un’azienda, e l’entrata di un gruppo nel settore suscita perplessità e sospetti».
Sicuramente, nel novero delle mosse furbissime messe in atto da SA Hospitality Group, rientra la decisione di abbassare il prezzo del caffè di cinquanta centesimi: «avevamo l’opportunità di tenerlo a due euro, addirittura di diventare molto discussi e poco apprezzati mettendolo a due euro e più. Abbiamo deciso di abbassarlo a un euro e cinquanta per introdurci con un prezzo super-friendly e democratico e far parlare semmai dei prezzi del ristorante, non del fatto che siamo cari per il caffè. D’altronde sarebbe stata una strategia stupida: sapevamo già che nella ristorazione ci saremmo introdotti nella fascia molto alta e che avremmo ricevuto un po’ di rimostranze. Ci piace vedere il bar pieno e riuscire ad abbracciare tutti gli strati di Milano, e in tal senso il prezzo del caffè è stato indubbiamente decisivo».
Morale, entri per un caffè e non di rado decidi di fermarti, che sia un pranzo, una cena o un aperitivo: «abbiamo avuto la capacità (e il rispetto) di riconoscere un mercato che non va al ristorante per concedersi il miglior pasto della settimana – a differenza di quello che accade solitamente in Francia o negli Stati Uniti. Il miglior pasto della settimana l’italiano lo mangia a casa, poi va al ristorante». O in quello che era il vecchio bar degli sciuri, ma tanto che differenza fa?