Il mio regno per un gastropub | Rolling Stone Italia
Burp!

Il mio regno per un gastropub

Da luoghi dove bere birre servite a temperature discutibili e sfondarsi di fish & chips a punti di riferimento della ristorazione britannica: se nel Regno Unito ora non si mangia più da schifo, il merito è soltanto loro

Il mio regno per un gastropub

Foto: Getty Images

Era un freddo giorno d’inverno, quel 14 gennaio 1991, ma nella cucina del The Eagle faceva molto caldo, perché stava andando a pieno regime per la prima volta. Quel giorno nasceva ufficialmente il concetto di gastropub, grazie all’intuizione di Michael Belben e David Eyre, rispettivamente restaurant manager e chef, fondatori di questo tempio ancora oggi meta di culto per gli amanti della buona tavola a Londra. Il The Eagle è a Farringdon, quartiere assai vivace per la proposta gastronomica e culturale: il vicino Sadler’s Wells Theatre ha una programmazione di prim’ordine. Dieci minuti a piedi, la stessa distanza che divide il pub dallo Smithfield Market, il tempio della carne della città dove ogni notte, dal lunedì al venerdì, i ristoratori vanno a scegliere i tagli migliori per le loro cucine.

Non una semplice annotazione geografica, perché guarda caso il signature dish del The Eagle è il Bife Ana, un panino con due fettine di scamone (rump steak) marinate. Piatto che viene dalla tradizione portoghese e che ben sintetizza la rivoluzione partita dal The Eagle, e che ha trasformato il concetto stesso di public house. Fino agli anni Novanta i locali tradizionali in terra d’Albione erano luoghi dove bere birre, soprattutto le classiche ale e bitter, servite a temperature discutibili come da tradizione. Non tutti i pub avevano anche una cucina degna di questo nome e in ogni caso la proposta culinaria si limitava ai piatti tipici: sausages and mash (salsicce cotte al forno in un brodo di carne accompagnate da purè di patate), fish & chips, le pie ripiene o l’altrettanto popolarissima shepherd’s pie (uno sformato di patate e carne non dissimile dalla moussaka). E la domenica il Sunday roast, ovvero quattro fette di arrosto guarnite con broccoli, patate arrosto, carote e horseradish (rafano) e innaffiate di salsa gravy fatta con il fondo di cottura della carne unito a farina e aromi.

 

 
 
 
 
 
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I pub erano i luoghi per famiglie della classe media o proletaria, a seconda della localizzazione. L’intuizione di Belben e Eyre fu quella di inserirsi in un buco preciso del mercato della somministrazione, favorito anche da un desiderio di cambiamento del sistema dei pub sostenuto dallo stesso governo britannico, che contestava alle catene proprietarie di offrire un servizio scadente e costoso, speculando in particolare sul prezzo della birra. The Eagle aprì la strada alla nuova stagione delle free house, ovvero pub indipendenti non appartenenti a un gruppo o al massimo consorziati in piccole compagnie, spesso locali. Soprattutto, il concetto era quello di offrire cibo di qualità, con contaminazioni anche da altre culture gastronomiche, rivisitando i piatti della tradizione e introducendone di nuovi che, nel corso degli anni, sarebbero diventati dei classici.

E così è stato, con tutte le montagne russe che usualmente caratterizzano un movimento culturale. Due momenti fondamentali. 2001: The Stagg Inn, una bella locanda a Titley, nell’Herefordshire, circa 150 miglia da Londra, diventa il primo pub a guadagnarsi una stella Michelin. 2011: il gastropub è morto. Almeno così affermava Elizabeth Carter, critico gastronomico dell’Evening Standard e consulente della Good Food Guide: «La nostra sensazione è che il gastropub fosse un po’ un carrozzone su cui sono saliti in molti. Credo che i clienti si stiano annoiando. I pub devono essere socialmente diversificati, devono offrire molte cose, sia che si entri per un drink e uno spuntino sia che si voglia un pasto vero e proprio. I pub si rendono conto che l’attività locale è molto importante, così come l’ospitalità. Si stanno allontanando dall’essere come un ristorante e stanno tornando a essere un pub». Quando leggo queste sentenze mi viene sempre in mente una cosa che disse nel 1927 Harry Warner, uno dei Warner Bros. «A chi diavolo vuoi che interessi sentir parlare gli attori?». A dire il vero, Harry si pentì molto presto di avere detto una simile scemenza, tanto che fu lui il vero motore della rivoluzione che portò alla realizzazione del Cantante di jazz, il film che segna ufficialmente l’inizio dell’era del cinema sonoro.

I proprietari dei gastropub erano perfettamente consapevoli che l’identità locale era fondamentale per il loro business, soprattutto in una società in via di gentrificazione come quella londinese. Non c’è quartiere nella capitale senza almeno un gastropub di riferimento, e ognuno ha qualcosa che lo rende in qualche modo unico e degno di essere visitato. Se siete ad Arsenal, a pochi passi dalla fermata della Piccadilly Line e dell’Emirates Stadium, non potete non andare al The Plimsoll, perché la vostra vita non avrà senso finché non avrete mangiato il loro Dexter Cheeseburger. Il soufflé a doppia cottura con formaggio, crema di porro, radicchio e mela cotogna di The Clarence Tavern a Stoke Newington Church Street è quello che avrebbe dovuto imparare a cucinare Sabrina al corso di cucina a Parigi per conquistare il cuore di William Holden dopo dieci minuti. Caratteristiche comuni: buone carte dei vini (nonostante la Brexit) e prezzi di poco superiori ai menu dei pub di catena, questi ultimi standardizzati e indifferenti alle materie prime di giornata e alla stagionalità. Insomma, cibo da pub, non da gastropub.

 

 
 
 
 
 
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Undici anni dopo la fortemente esagerata notizia della loro morte, i gastropub sono ancora qui. Quelli stellati Michelin sono diventati diciotto, ma uno solo a Londra, The Harwood Arms a Fulham, e non è un caso. Se da una parte la rivisitazione e la contaminazione sono alla base dell’idea stessa del gastropub, nel corso degli anni altrettanto importante è stata la valorizzazione dei prodotti locali, della cultura slow food e chilometro zero. Qualche esempio? The Sheppey Inn è un posto magico, in mezzo alla campagna del Somerset, sulla riva del fiume omonimo a 13 miglia dal mare, a dieci minuti di macchina da Wells, la cittadina dove fu girato Hot Fuzz, film cult di Edgar Wright con Simon Pegg e Nick Frost, e a cinque da Glastonbury. Non a caso la musica dal vivo è una delle specialità della casa. Allo Sheppey potete spaziare dal controfiletto di manzo del Somerset all’hamburger di agnello pascolato nel prato di fronte servito con una salsa alla menta e aioli. Se preferite i piatti di mare, nessun problema: la zuppa di pesce con asinello (haddock), vongole, merluzzo e salmone è sublime. E, come tutto, rigorosamente local.

 

 
 
 
 
 
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Spostiamoci sulla costa opposta, andiamo nel Norfolk, a Cromer per l’esattezza, deliziosa località balneare inglese (perdonate l’ossimoro) famosa per il granchio. The Red Lion Hotel è il posto che fa per voi, da marzo (aprile meglio) a ottobre, che è la stagione di pesca per il crostaceo. Se vi fermate a dormire, chiedete una delle stanze con vista sul mare e sul bellissimo pontile. Nel buffet della colazione trovate anche tutto l’occorrente per un perfetto Bloody Mary (in caso di possente hangover procurato dalle ottime ale locali servite al bar).

In tutto questo tripudio di sapori ed emozioni di quartiere, paese e campagna, persino l’ego dello chef fa un passo indietro. Thomas Tudor, giovane talento che dirige la cucina di The Stagg, divide il piacere del cibo con l’amore per il suo Aston Villa. Edward Mottershaw è il terzo head chef del The Eagle in trent’anni, già per questo fa parte dell’Olimpo della storia dei gastropub. Se proprio non riuscite a fare a meno di una firma celebre, fate un salto in Cornovaglia, dirigetevi verso St. Merryn e sostate al The Cornish Arms di Rick Stein, chef molto noto anche al pubblico televisivo, il cui piccolo regno è composto da dieci locali tra pub, ristoranti e fish & chips. Se la trovate in menù prendete l’aragosta, specialità della casa, magari introdotta dalle cozze marinate al vino bianco, ottime in Cornovaglia.

Ci sarebbero libri e libri da riempire con le storie di ognuna di queste piccole imprese che hanno rinnovato una tradizione, dato che di taverne nella campagna inglese in grado di servire cibo eccellente si ha testimonianza sin dal XVII secolo. E la bellezza e il piacere si possono trovare dove meno te lo aspetti. Un esempio? In Galles c’è un cammino noto come Offa’s Dike Path, 285 chilometri lungo un muro costruito nell’VIII secolo da Offa, re sassone di Mercia, il regno che all’epoca confinava con l’attuale Galles. Verso la fine della seconda tappa, dopo 25 chilometri di cammino, c’è una chiesetta del 1100 con annesso un piccolo cimitero. Di fianco c’è un’altra casa, anch’essa molto antica ma perfettamente ristrutturata. Siamo a Llangattock Lingoed, una frazione di Abergavenny (dove peraltro c’è il The Walnut Tree, un altro dei 18 pub stellati). L’altra casa è l’Hunter’s Moon Inn. Tre camere, un pub di rara bellezza, il beer garden adiacente il churchyard, una cucina inaspettata. Le Seared King Scallops, capesante con bacon croccante in salsa di burro, limone e rosmarino guarnite con purè di cavolfiore, sono sulla stessa carta delle fettuccine fresche fatte in casa con ragù di cinghiale selvatico della foresta di Dean. Leggenda vuole che ci sia il fantasma di una donna che appare ogni tanto sulle scale della locanda. Ci credo, io ho prenotato un posto nel camposanto per non fare troppa strada per il Paradiso a colazione, pranzo e cena.