La guida di Enrico Dal Buono ai bar e ristoranti di Ferrara | Rolling Stone Italia
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La guida di Enrico Dal Buono ai bar e ristoranti di Ferrara

In vista del concerto del Boss al Parco Urbano Bassani, abbiamo chiesto allo scrittore ferrarese – il cui terzo romanzo, ‘Ali’, è edito da La nave di Teseo – di portarci alla scoperta dell’enogastronomia della città: lui ha acconsentito, a nostro rischio e pericolo digestivo

La guida di Enrico Dal Buono ai bar e ristoranti di Ferrara

Chi scrive non vive più a Ferrara da molti anni. Anche se Google Maps sembra dimostrare il contrario, la città stessa potrebbe non esistere più. Forse Bruce Springsteen, che si esibirà il 18 maggio, suonerà in una landa desertica, tipo Burning Man. Questo per dire che le dritte qui sotto potrebbero rivelarsi storte: ricalcano lo spazio-tempo curvato in cui abita il provinciale che, nonostante si sia trasferito da tempo immemore nella grande città, crede che nulla cambiato nella piccola da cui proviene. Mai, dico mai fidarsi di un provinciale emigrato. Come fidarsi di uno che non sa nemmeno qual è la propria casa? Nelle cucine ha lasciato qualche tradizione, nell’armadio qualche vestito, sugli scaffali qualche libro, nelle piazze qualche bar, qualche ristorante nelle vie. Non taglia del tutto i ponti con la moglie (la provincia), non si mette definitivamente con l’amante (la metropoli). È un traditore per cause di forza maggiore, vittima di ambizioni centripete, bipolare abitativo, orgoglioso e complessato, esule elastico.

La città in cui sei nato si è svuotata di facce conosciute. Ti fai la vasca in centro, la mano ti freme per le decine di saluti che hai in canna da mesi, ma non la alzi mai. Però, ecco, chi ha messo su un bel bar invece è rimasto. Per esempio Geppa. Per assicurarvi che sia proprio lui, chiedetegli di alzarsi la maglietta. Se sotto l’ombelico notate un tatuaggio in corsivo adolescenziale – “Geppa” – be’, non dovete nemmeno domandargli di mostrarvi il passaporto: quello è Geppa. E salutatemelo. Il suo bar, Ludovico, che è il modo confidenziale in cui Geppa si rivolge a Ludovico Ariosto, il cui fantasma naturalmente infesta il suo locale, sorge, guarda un po’, in piazza Ariostea.

 

 
 
 
 
 
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Un ovale di erba con uno stantuffo nel centro – sulla cui sommità dicono stia appollaiato il vecchio Ludo – che in primavera offre postazioni ideali per mangiarsi un gelato, bersi una birra, farla finita. Il bar sta sotto i portici che incorniciano la piazza e ha tutte le caratteristiche di ogni bar di provincia che si rispetti. La grande città è stratificata. Ogni casta ha il proprio quartiere di riferimento, ogni nicchia i propri negozi, ogni subcultura il proprio bar. Nella provincia il bar è il punto di confluenza universale, al di là di ogni differenza culturale e sociale. È il Bar. Ti abitui a conversare di furti con scasso con un tizio, brindi, ti volti, e parli di cresime con un altro. In ogni caso, qualsiasi sia il vostro ordine, al Ludovico concludetelo sempre con a là Gép (con la “é” chiusa). Tipo, una sambuca a là Gép, grazie.  Geppa si adopererà in questo modo per personalizzare magnificamente il vostro drink.

Un altro bar, il Brindisi, di fianco al Duomo, si vanta di essere la più antica osteria del mondo in attività, e magari è pure vero, ma chi se ne importa della verità quando hai bevuto tre bicchieri di vino all’ombra di una splendida cattedrale gotica, in un locale che profuma di vecchio legno?

 

 
 
 
 
 
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Venendo ai ristoranti – so che siete lì a fremere: hai rotto il cazzo, dove si mangia? – mentre vi fate un giro nelle viuzze del ghetto ebraico, incapperete certamente nell’Osteria del… Ghetto (a quanto pare la toponomastica ferrarese tiranneggia la fantasia degli imprenditori). Il boss qui è Dario. Purtroppo non ha tatuaggi che ne attestino l’identità ma è una delle poche persone rimaste che ancora fuma novecentescamente sigarette tradizionali – Gauloises blondes rouges – e quindi lo scoverete con facilità sul divanetto davanti al locale. Che ha anche un grazioso dehor e serve piatti tipici ferraresi. Ma il piatto forte è il passato del Dario di cui sopra. In età da naja, invece di rifugiarsi come altri suoi coetanei a Londra, nel così detto Battaglione Tamigi, per evitare il servizio di leva grazie a qualche cavillo burocratico, si è pacificamente arruolato nella variazione exotic chic sul tema, il Battaglione Almendares, fiume che passa per l’Avana, così da trascorrere la metà degli anni ’90 a Cuba, quando l’isola non era ancora Disneyland con Che Guevara al posto di Topolino.

 

 
 
 
 
 
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Per rimanere il tema ebraico, in via Ercole primo d’Este, già via degli Angeli, secondo alcuni la prima via moderna d’Europa e secondo Giorgio Bassani sede del giardino dei Finzi Contini, c’è la Provvidenza, il grande classico della borghesia ferrarese. La cucina tipica qui è arricchita da tocchi opulenti come tartufo e petto d’oca.

 

 
 
 
 
 
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Se siete così barbari da possedere ancora un mezzo autonomo di locomozione a motore, è consigliata almeno un’esperienza fantascientifica fuori città, da Tassi a Bondeno, un baluardo novecentesco, un viaggio sulla DeLorean. Ha tutta una sua sontuosità di provincia, di certo i camerieri chiamano ancora gli aerei “apparecchi”. Ci sono i carrelli, di primi asciutti, di primi in brodo, e poi di bolliti, e poi di arrosti. Le ruote rullano, vassoi e pentole fumano, i camerieri servono le porzioni con gesti da Secolo Breve. A memoria d’uomo, nessun ospite, per quanto corpulento, si è mai spinto oltre il carrello degli arrosti. C’è vita oltre il vitello? Scopritelo.

 

 
 
 
 
 
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In generale la cucina ferrarese può essere riassunta in una formula algebrica: cucina emiliana + ignoranza. Perché, se i suoi piatti ricalcano per lo più, nei nomi e nelle forme, quelli del resto dell’Emilia, da questi si differenziano per l’utilizzo di un ingrediente segreto, e quell’ingrediente segreto – qui lo sveliamo a rischio della vita – è un’ignoranza belluina. Prendi i cappelletti ferraresi. Assomigliano a quelli reggiani, così come ai tortellini bolognesi. Ma sono più grossi, e soprattutto sono gonfi di carne. Se chiedi a tre zdore (massaie) cosa mettono nel ripieno, ti daranno tre risposte diverse. E ti servirebbe un’approfondita conoscenza di anatomia zoologica per capire cosa ti stanno comunicando. Oppure, altrove in Emilia mangiano il cotechino.

 

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da Elisa M (@viaggiareconilcibo)

A Ferrara, la salama da sugo. Che è una specie di cotechino mannaro: più forte, più speziato, più carnivoro. I cappellacci di zucca ferrarese assomiglierebbero ai tortelli di zucca di altre zone della regione, non fosse che sono grossi il doppio e spesso vengono ricoperti da qualche sbadilata di ragù. Ma il re di questa strabiliante resistenza a ogni salutismo stronzetto è il pasticcio ferrarese. Maccheroni pasticciati in ragù bianco, besciamella, nella ricetta originale anche funghi e tartufo, il tutto infilato in un involucro di pasta frolla. Speriamo che Springsteen non lesini sul volume dei bassi perché surclassare la vostra digestione non sarà facile.