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Metti, una sera a cena a Roma in un alimentari

In una città culinariamente anarchica e conservatrice al tempo stesso, le botteghe stanno riscrivendo la geografia gastronomica, proponendo un’esperienza a trecentosessanta gradi che non si esaurisce al bancone, ma continua con pranzo, aperitivo e cena

Foto: Ercoli 1928

Uno dei ricordi più confortevoli che ho della mia infanzia è quando mio nonno decideva di non andare a fare la spesa al supermercato, ma di comprare solo poche cose all’alimentari. L’odore pungente degli insaccati, quello stagionato dei formaggi e quello fresco del pane sono ancora oggi una piacevole madeleine. Il premio dell’alimentari era una lunga, sottile, calda e unta striscia di pizza di bianca. La mangiavo nel tragitto che ci separava dal pranzo preparato da nonna, che ovviamente – vedendomi tornare con la bocca smollicata – si sarebbe preoccupata che poi avrei lasciato qualcosa nel piatto, essendomi già riempito di pizza. Per mio padre invece fare la spesa al supermercato significava semplicemente non farla. L’experience, diremmo oggi, dell’alimentari per lui non era paragonabile al supermercato, considerato solo un freddo, impersonale e capitalista surrogato di Pippo, il pizzicarolo vicino alla casa che l’aveva cresciuto con salsiccia di fegato e pecorino. Semplicemente, era rimasto ancorato a una sorta di età dell’oro pre-globalizzata della spesa.

Negli anni gli alimentari sono infatti quasi scomparsi: è cambiato il mondo del lavoro, è cambiata la società, sono cambiate le città. Non c’è più tempo di fare un giro nelle botteghe: dal macellaio per la carne, in pescheria per il pesce e poi al forno per il pane e dall’alimentari per i formaggi, le olive e le alici sott’olio. Sono arrivati gli ipermercati prima e i centri commerciali poi, così non solo compri carne, pesce, litchi e noodles a pochi metri di distanza, accumulando punti e sfruttando il 3×2, ma puoi anche vedere un film e giocare a biliardino.

Complice il Covid, però, la situazione pare essere cambiata: lo stallo dei primi giorni di lockdown, la corsa al lievito, le file fuori dai supermercati, l’impossibilità di allontanarsi troppo da casa, hanno dato nuova vita agli alimentari di quartiere, rimasti assopiti per anni come se non stessero aspettando altro che il vacillare della grande distribuzione organizzata. Quando i siti per la spesa online dei grandi ipermercati impiegavano ore per far terminare l’acquisto e giorni per consegnare i prodotti, macellerie, pescherie e pizzicherie organizzavano il delivery su Whatsapp, massimizzandone l’efficacia. Le botteghe di prossimità, anche grazie a una sempre maggiore attenzione ai prodotti culinari di qualità, hanno così trovato una nuova e felice dimensione.

A Roma, dove ogni quartiere ha le sue istituzioni gastronomiche, gli alimentari hanno piano piano cambiato aspetto, proponendo un’esperienza a trecentosessanta gradi che non si limita all’acquisto dei prodotti da banco, ma continua con pranzo, aperitivo e cena, trovando spazio con sempre più successo nella mappa della città accanto a ristoranti, osterie, trattorie moderne, pizzerie e pizze al taglio.

Nel viaggio alla scoperta di questo arcipelago della gastronomia, il punto di partenza non può che essere Roscioli. Il nome e la sua iconica insegna sono ormai ben noti grazie allo storico forno aperto nel 1972 al quartiere Esquilino da Marco Roscioli. Vent’anni dopo, nel 1992, inaugura la salumeria di Via dei Giubbonari, una degli accessi più trafficati a Campo de’ Fiori. L’attività viene affidata al figlio Alessandro e oggi, oltre a trecento formaggi, duecento salumi e quasi tremila etichette di vini, propone anche un menù che spazia dal ​​foie gras alla mortadella fatta a mano, con i primi classici romani e altri piatti più contemporanei ma sempre ben ancorati alla tradizione.

Mantiene l’heritage ottocentesco Volpetti, storica salumeria sulla Nomentana davanti a Villa Torlonia, che portando avanti una delle storie gastronomiche più longeve della Capitale offre la possibilità di gustare i prodotti del banco direttamente nella norcineria, da integrare con un menu di prime e seconde portate. È il punto di arrivo (per ora) di una carriera iniziata nel 1870 a Campo Marzio, dove la famiglia aveva importato i prodotti allevati e lavorati dalla Valnerina d’origine e che nel 1975 era arrivata a contare undici salumerie in tutta la città. Stesso cognome, Volpetti, ma gestioni e zone differenti: siamo a Testaccio, dove si situa la salumeria di via di Marmorata – qui dal 1973 – che ha deciso di ampliare la sua offerta con una taverna a poche decine di metri, in via Alessandro Volta.

Un approccio simile è quello proposto da Ercoli, dal 1928 un’istituzione a Trastevere, che al bancone e alla gastronomia ha aggiunto cucina e coperti. Altro alimentari-culto è Beppe e i suoi formaggi. Nomen omen: la bottega è anche produttrice diretta, si trova nel Ghetto, ed è un’enciclopedia casearia che negli anni, oltre al ricevere onorificenze in Italia e in Francia, ha sviluppato sempre di più l’attività di ristorazione.

Ma se queste sono le storie di famiglie che hanno attraversato quella di Roma (e d’Italia) riuscendo anno dopo anno, moda dopo moda, a evolvere la loro proposta rimanendo sempre ancorate a nome e tradizione, c’è chi ha deciso di iniziare un tragitto nuovo. È Rudy Ruggeri di Bottega Pasolini. Romanissimo di nascita, cresce a Casal de Pazzi – nel quadrante nord est della città – o, meglio, nel mercato rionale di Casal de Pazzi, dove il padre gestisce una macelleria. Per mettere da parte qualche soldo per le vacanze inizia a lavorare nei ristoranti, prima come lavapiatti e poi come aiuto cuoco, ma è quando si iscrive all’università che capisce che la cucina è una vocazione. Lascia gli studi e parte: attraversa mezza Europa dove affina sempre più le sue tecniche fino a lavorare a Londra da La Chapelle dei fratelli Galvin, che mentre lui è in brigata prende la seconda stella. Torna a Roma dove continua a portare sul piatto la sua idea di cucina (Lanificio cucina, per citare una delle esperienze di quegli anni), fino a quando non decide di cambiare rotta: non più dietro i fornelli con i ritmi folli dei grandi ristoranti, ma dietro al bancone di una bottega. Prende un box nel mercato in cui è cresciuto e decide di diventare un megafono per i piccoli produttori. L’obiettivo è anche quello del give back: far conoscere pure alle persone di un quartiere di periferia i gusti e i sapori che, tra caseifici e allevamenti, va a cercare in tutta Italia e che si possono assaggiare seduti in bottega.

La formula funziona e si fa conoscere in tutta Roma, tanto da aver instradato anche Daniele Addari, che insieme al fratello Enrico è una delle due anime di una delle realtà gastronomiche più interessanti della città: Ciao. Con il nome che rimanda subito ai sapori vintage di Italia ‘90, Ciao è un alimentari nel centro della capitale (Vicolo di San Celso, al lato del Tevere opposto a Castel Sant’Angelo) che oltre a un fornitissimo bancone che ripudia la grande distribuzione organizzata si è fatto presto conoscere per gli eventi legati alla musica e all’arte, diventando qualcosa di più di una semplice bottega.

Roma è una città che divora e sputa mode, tendenze, locali e quartieri, ma proprio come i suoi abitanti è affamata anche della sua stessa tradizione. In questo universo anarchico e conservatore al tempo stesso, gli alimentari continuano a tenere banco – no pun intended.

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