Se fossi vissuto negli anni ’70 in America, probabilmente l’avresti sentita ovunque: negli ascensori, nei centri commerciali, nelle hall degli hotel, negli aeroporti, nei supermercati, nei ristoranti, nelle pubblicità alla radio, persino alla Casa Bianca. Stiamo parlando di Muzak, la musica di sottofondo prodotta da un marchio che nel secolo scorso era così iconico da diventare sinonimo di ciò che produceva. Un soft jazz strumentale caratterizzato da ripetizioni e arrangiamenti semplici, progettato per essere trasmesso in spazi commerciali pubblici, con l’obiettivo di alterare positivamente l’umore e (quindi) il comportamento delle persone.
La storia di Muzak è quella della rivelazione del potere che ha la musica sul subconscio collettivo. Tutto iniziò con il generale George Owen Squier, nato nel 1856 in Michigan, che negli anni ’10 del Novecento inventò la multiplazione – nelle telecomunicazioni, il sistema che consente la trasmissione simultanea di due o più messaggi attraverso la stessa linea. Nel decennio successivo, Squier ebbe l’intuizione di sfruttare questa potenzialità della tecnologia per trasmettere musica via cavo a pagamento, inventando lo Spotify degli anni ‘20. Si chiamava Wired Radio e ottenne scarso riscontro: erano i tempi del boom della radio, che non richiedeva abbonamenti a pagamento.
La rilevanza di Muzak si manifestò solo negli anni ’40. Nel frattempo, il generale Squier era morto prima di vedere il vero potenziale della sua tecnologia, ma solo dopo averla battezzata – appunto – Muzak, dalla crasi tra musica e Kodak, l’azienda tecnologica più famosa del tempo. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’imprenditore William Benton assunse la proprietà del marchio, cambiando il focus da musica via cavo a musica per fabbriche, registrando insieme al musicista Ben Selvin circa settemilacinquecento pezzi originali nei più svariati stili: swing, foxtrot, colonne sonore di film, opere liriche, gospel, cubano, hawaiano, salsa, polka, e chi più ne ha più ne metta.
Vivace ma un po’ insulsa, era il tipo di musica che stimolava la produttività nei luoghi di lavoro, fondamentale durante il boom manifatturiero degli Stati Uniti durante la Grande Guerra. Il processo, validato da ricerche pseudoscientifiche (spesso finanziate dalla stessa Muzak) era basato sulla Stimulus Progression, cioè la somministrazione di sottofondo musicale scandito da blocchi di quindici minuti alternati da quindici minuti di silenzio, cambiando stili e tempi musicali per influenzare i ritmi del corpo umano. Osservando che la produttività lavorativa diminuiva in determinati momenti, come pre e post pranzo, le “playlist” si adattavano a questi schemi, trasmettendo musica vivace durante i periodi di bassa attività.
Un sistema che ebbe un successo enorme: in quegli anni, ogni fabbrica era allineata alle sonorità di Muzak. Dopo la guerra, negli anni ’50 Muzak uscì dalle fabbriche e arrivò ovunque, soprattutto nei luoghi dove si volevano stimolare i potenziali clienti all’acquisto – era musica che non voleva catturare l’attenzione su di sé, e questo era il punto, perché doveva agire a livello subliminale. Ai tempi del suo massimo successo, gli utenti attivi quotidiani erano cento milioni e Muzak introdusse cover strumentali di canzoni popolari di artisti noti (che si possono ascoltare ancora oggi sulle piattaforme di streaming).
In questo periodo la musica di sottofondo entrò nei ristoranti, diventando essenziale — soprattutto in America — ma solo per una ventina d’anni. Fino a quel momento, la musica nei ristoranti di lusso era solo musica d’archi tranne al Luchow’s Restaurant, un ristorante tedesco divenuto celebre per la musica bavarese. Con l’avvento del proibizionismo, si aprirono le porte al jazz nei luoghi di consumo del cibo, che così attiravano le persone sia per l’alcol illecito che per la musica, oltre che per mangiare. Negli anni ’50 le grandi orchestre erano svanite, ma il rock ‘n’ roll non riuscì a prendere piede nei ristoranti, dove la quota giovani era irrisoria per via del costo elevato di tali locali. Il Jazz Brunch debuttò a New Orleans, ma a quel punto Muzak aveva già conquistato la scena con quello che sarebbe stato poi chiamato “easy listening” nelle sale ascensori, nei grandi magazzini e nei ristoranti; il tutto a basso costo e con la promessa di manipolare i consumi della clientela.
Lo conferma la storica della ristorazione Jan Whitaker, secondo la quale «i ristoranti erano uno degli utenti target di Muzak, con un tipo speciale di musica rilassante prodotta appositamente per il momento della cena. I primissimi ristoranti clienti del servizio figuravano a dire il vero già nel 1936, ed erano tutti a New York, tra questi, la sala da pranzo dell’Hotel Algonquin e il ristorante svedese Kungsholm sulla E. 55th Street. Dal 1954, da che erano diffusi soltanto nei grandi centri urbani, grazie ai progressi tecnici i franchising di Muzak presero a diffondersi anche nelle città più piccole del Paese. La musica conferiva prestigio ai locali che desideravano ricreare l’atmosfera romantica di una performance musicale dal vivo nei ristoranti di lusso, senza però dover sostenere i costi dei musicisti».
Il successo di Muzak nella ristorazione, però, non durò molto, svanendo quasi completamente a partire dagli anni ’70. La sua decadenza, come riportato in un articolo pubblicato sulla piattaforma di streaming Topic, iniziò in parte a causa di una società concorrente chiamata Yesco che apparve nel 1968, con un’idea opposta alla musica di sottofondo: la musica foreground. Qui è opportuno aprire una parentesi e fare una debita distinzione: quella tra musica di sottofondo (background music) e quella invece che invita a un ascolto attivo, partecipato (foreground music). La prima è la casella in cui si inserisce Muzak, la seconda invece rappresenta la musica live, i concerti, l’orchestra.
I dirigenti di Yesco si chiesero se davvero le persone apprezzassero l’atmosfera preconfezionata e standardizzata che la background music ripeteva da vent’anni. Yesco e un’altra società, la Audio Environments Inc. iniziarono a offrire alle nuove aziende in crescita come TGI Fridays e Victoria’s Secret una versione anticipata dell’esperienza contemporanea delle playlist in streaming, ossia l’uso di canzoni con testi, una dose stimolante di “vera” musica nella colonna sonora della vita negli esercizi pubblici. Muzak seguì l’esempio e, alla fine degli anni ’80, le due società si fusero. Nel 2011, Muzak fu acquistata da un concorrente, la Mood Media con sede ad Austin, che mantenne il suo nome dopo la fusione.
Muzak è stata per molto tempo oggetto di dibattito, con alcuni che ne lodavano l’ascoltabilità e l’associazione immediata con sentimenti di felicità, mentre altri la trovavano troppo pervasiva, soppressiva del pensiero critico, addirittura “cancerogena”. Tra i pochi fan, Andy Warhol e Jack Paar, mentre Vladimir Nabokov la detestava. In ogni caso, l’insindacabile eredità di Muzak – e quella delle melodie di sottofondo che sono sopravvissute al fenomeno specifico del marchio – è la musica come forma di controllo sociale: se stai ascoltando musica che non hai intenzione di sentire, molto probabilmente è stata progettata per manipolarti. Specialmente a partire dagli anni ’90, con l’avvento della democratizzazione dei consumi, le aziende iniziarono a preferire nettamente la musica foreground, pop, che connota l’esperienza e attira l’attenzione.
Nel frattempo, la ricerca ha provato a studiare con approcci più scientifici l’impatto della musica nei ristoranti sui consumi: a partire da una delle pubblicazioni più celebri sul tema “influenza della musica di sottofondo nei ristoranti” (del 1986, a opera di Ronald E. Milliman, allora Professore Associato di Marketing alla Western Kentucky University), che constatava come la musica di sottofondo potesse modellare le decisioni di acquisto più del prodotto stesso. Se lenta, per esempio, aumenta la permanenza e gli ordini di alcolici, se ritmata, stimola il turnover.
Poi ci sono stati i Y2K, dove abbiamo avuto la fase delle chef playlist, cioè le playlist selezionate proprio dagli chef per accompagnare i menu degustazione e un po’ anche il loro ego. Questo approccio divenne presto oggetto di lamentela da parte de critici gastronomici, disturbati da questa nuova bizzarria e dai decibel eccessivi: c’era pure chi assegnava punteggi da uno a quattro campanelli o elencava i livelli di decibel nelle proprie recensioni. In effetti, l’inquinamento acustico tipico di questo trend ha anche avuto la responsabilità di cacciare, purtroppo, molti potenziali clienti.
E infine arriviamo all’attualità, cioè all’era post-pandemia, in cui ci troviamo ad assistere alla rinascita della musica dal vivo, per esempio a Londra, dove la musica live sia essa classica, jazz o cabaret viene proposta da sempre più ristoranti e pub per riconquistare la clientela in un mercato sempre più difficile e per offrire un’esperienza più completa in cambio della spesa sostenuta dai clienti.
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La musica di sottofondo, per quanto divenuta meno centrale, è rimasta un tema sempre presente, così come anche la questione di come scegliere una playlist da ristorante in maniera efficace. Oggi la manipolazione emotiva della musica d’ambiente sta diventando sempre più specifica, e al tempo stesso noi ascoltatori siamo diventati più orientati alle emozioni, in gran parte grazie a Spotify – nel 2015, la piattaforma ha contribuito ad alimentare il passaggio da un ascolto basato sull’artista, sull’album o sul genere a un ascolto basato sull’umore, raccogliendo dati sugli stati emotivi degli utenti attraverso playlist come Chill o Happy Hits e vendendo questi dati a inserzionisti e aziende di marketing.
Spesso i ristoranti trascurano l’aspetto della musica di sottofondo, che influisce in modo importante sull’esperienza dei clienti: non è sufficiente avere il volume adatto per accompagnare la conversazione senza sovrastarla, ma è necessario che rifletta l’atmosfera del locale e sia coerente con l’ambiente desiderato. Di solito i gestori si limitano a mettere una stazione radio o utilizzare una playlist che piace loro o che ritengono appropriata per il luogo: musica latina in un ambiente giovane e alla moda, jazz in un ristorante di lusso, con risultati a volte disastrosi. Ne sa qualcosa Ryuichi Sakamoto, che nel 2018 ha proposto una playlist ad hoc per Kajitsu, un locale giapponese e vegano tra la 39esima Strada e Lexington Avenue a New York, che a detta sua diffondeva una musica tremenda e incoerente con l’anima del locale.
Ma come si concretizza, in pratica, la scelta di una playlist in un ristorante? Si tratta di un lavoro piuttosto complesso, che può portare diversi vantaggi ma anche molti rischi, il peggiore quello di annoiare e scacciare clientela. Non sorprende che ultimamente i ristoranti stiano assumendo consulenti per selezionare la musica per i loro clienti: e parlava il Guardian nel 2019, illustrando il fenomeno delle realtà specializzate nell’aiutare le aziende a riflettere la propria identità di marca attraverso la musica, creando playlist adatte alle diverse fasce orarie e alla tipologia di clientela, tenendo conto di fattori come il genere musicale, l’energia e il mood appropriati per ogni momento della giornata. Alcuni ristoranti puntano a una playlist più audace e distintiva, mirando a un pubblico specifico che si identifica con un certo tipo di musica: una scelta che può essere polarizzante, ma può anche aiutare a creare un’atmosfera unica e memorabile. L’altro aspetto importante da considerare è la selezione musicale in base al tipo di clientela: se il ristorante è frequentato principalmente da Millennial e Gen Z, potrebbe essere appropriato inserire nuove tendenze musicali come rap e trap; se invece il pubblico è più adulto, potrebbe trovare questo tipo di musica troppo rumorosa e fastidiosa.
In Italia siamo bravi a sfamare i turisti e ad arrangiare ospitalità in ogni angolo, ma è come se ci fossimo dimenticati di curare uno degli aspetti più fondamentali dell’atmosfera: la musica. Con l’eccezione dei ristoranti di cucina internazionale (cinese, spagnola, messicana, per citarne alcune), dove la musica non manca mai. Merita un discorso a parte il mondo del fine dining, che ben conosce il tema dell’esperienza e lo cura fino in fondo. Ne parlava recentemente Egon Heiss del ristorante Prezioso all’interno del Castel Fragsburg a Merano su Repubblica, spiegando che per lui una cena stellata è un’esperienza a trecentosessanta gradi e «si vive l’atmosfera con una delicata musica di sottofondo».
Me ne ha parlato anche Stefano Corghi, chef dell’Osteria Santa Chiara di Modena (e Presidente di Modena A Tavola, parte dell’associazione Piacere Modena), ristorante di cucina tradizionale di alto livello nel centro della città emiliana: lo chef sceglie personalmente la musica secondo il mood e il clima della giornata, come parte integrante del servizio. «La mia cucina la paragono alla musica, che è un po’ blues perché uso pochi ingredienti e ci metto l’anima. La scelgo come il terroir nel vino, è un mix tra uomo e territorio. Quando c’è la tipica nebbia emiliana, ad esempio, metto Tom Waits e improvvisamente il locale e la cena assumono una dimensione onirica. A volte invece mi piace trasmettere pezzi di rottura, che catturano per un momento l’attenzione spostandosi dal sottofondo, come French Fries w/ Pepper dei Morphine, o Whorehouse blues dei Motorhead».
Rimane comunque un aspetto meno curato di altri, ma non stupisce all’interno di un mondo che ancora fatica a celebrare la sala, dispiegando tutte le energie nei confronti della cucina. L’assenza di musica è stata associata all’immagine non positiva di un ristorante, nonché a una circostanza che a volte può pure mettere in imbarazzo. Sarebbe invece un fondamentale punto di riflessione da parte di tante trattorie e osterie nostrane, che semplicemente studiando una playlist da uno dei tanti servizi di streaming potrebbero farci sentire a nostro agio quando arriviamo e l’ambiente non è ancora riempito dalle chiacchiere. Si tratterebbe di un sottofondo che non avrebbe necessariamente bisogno di essere ascoltato, ma avrebbe la funzione di arredare, allo stesso modo di una sedia, un tavolo o un quadro. Un’opportunità per ora persa per la stragrande maggioranza, insomma, a meno di non riporre le proprie speranze in clienti à la Sakamoto che decidano di salvare sia le nostre orecchie da un sanguinamento assicurato, sia il nostro pasto.