Era una sera del 2007 quando Britney Spears, prima di cadere nella trappola della conservatorship paterna, ebbe un esaurimento nervoso in un ristorante di lusso, imbrattandosi il viso con cibo costosissimo. Attorno a lei i commensali disgustati, tra cui Victoria Beckham, avvertirono il personale del fatto che Spears si stesse comportando in maniera molto eccentrica. Quando poi iniziò a fingere di travestirsi con il cibo nel piatto, fu allontanata dal tavolo e le fu comunicato che non era più gradita nel ristorante e nella struttura alberghiera. Dopo due anni le fu revocato il divieto e tornò al ristorante per festeggiare il suo ventottesimo compleanno. L’hotel in questione era lo Chateau Marmont.
Un caso simile risale al 2011, quando la protagonista di reality televisivi Jenn Hoffman fu bandita dallo stesso hotel a causa di un suo tweet che descriveva il comportamento stravagante di una supermodella ospite del ristorante. Il peccato di Britney e di Jenn non risiedeva tanto nel loro comportamento, quanto piuttosto nella sua natura sfacciatamente pubblica: una delle regole non scritte dello Chateau Marmont è sempre stata che quello che succede al suo interno deve rimanere al suo interno. Il segreto noto a tutti i clienti dello Chataeu per lasciarsi andare a comportamenti trasgressivi, a volte sconvenienti e senz’altro inappropriati alla pubblica esposizione — e poi soprattutto sfuggirne le conseguenze — era mantenere il silenzio sulle proprie stramberie; nel caso in cui ci si trovasse colti sul fatto, era necessario restare ambigui, con un certo distacco, oppure narrare in modo volutamente esagerato le proprie presunte malefatte.
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Da oltre novant’anni, lo Chateau Marmont veglia sul Sunset Boulevard di Los Angeles, al civico 8221 di West Hollywood, dove finiscono le case e inizia il verde della collina, offrendo un rifugio discreto a celeb, rockstar, scrittori e artisti affinché possano esprimersi e rilassarsi lontano da sguardi indiscreti. Inizialmente fu concepito come un condominio per i ricchi: nel 1926 l’avvocato Fred Horowitz comprò due ettari di terreno e andò da suo cognato, l’architetto Arnold A. Weitzman, con alcune fotografie scattate nella Loira, allo Château d’Amboise (un castello che aveva ospitato anche Leonardo da Vinci) a rivelargli il suo sogno, un castello gotico in stile francese per i californiani facoltosi.
Lo Chateau Marmont aprì ufficialmente le porte il primo febbraio del 1929, ma la struttura non era ancora un hotel. Era, come scrisse il Los Angeles Times, «il recentissimo, sofisticato e prestigioso insieme di residenze urbane della città: in una posizione ideale, sufficientemente prossimo alle attività commerciali ma al contempo adeguatamente distante per offrire una piacevole serenità. È il complesso abitativo più esclusivo della città.». Con l’arrivo spettrale della Grande Depressione, gli appartamenti dello Chateau Marmont si svuotarono e nel 1931 Fred Horowitz vendette il suo castello a Albert E. Smith, che lo convertì in un hotel. Fu negli anni Trenta che lo Chateau Marmont divenne una vera istituzione di Hollywood, sopravvivendo a una guerra mondiale, terremoti e a mutamenti di epoche e tendenze. Nel corso degli anni, passò di mano più volte, trasformandosi in un luogo che non cercava il lusso, ma offriva un buen retiro, specialmente per le star del cinema in cerca di protezione.
Forse non è mai stato l’hotel più sfarzoso o costoso di Los Angeles, ma sicuramente è stato il più famigerato; una sorta di pettegolezzo vivente. Chiunque avesse un nome in città aveva anche una storia da raccontare sullo Chateau Marmont: profetiche le parole di Harry Cohn, ex presidente della Columbia Pictures, che a tal proposito disse «se vuoi metterti nei guai, vai al Marmont». Nel libro del 2019 di Shawn Levy, The Castle on Sunset: Life, Death, Love, Art, and Scandal at Hollywood’s Chateau Marmont (edito in Italia da EDT), l’autore si immerge nella storia ricca, vivace e spesso dolorosa di questo celebre hotel, che si snoda tra le sue stanze e i suoi famigerati bungalow. Come quella volta che l’attrice Bette Davis, nel 1958, vi si addormentò mentre guardava uno dei suoi film e l’incendiò con la sua sigaretta. L’attore Lou Jacobi, che alloggiava accanto, vide il fumo fuoriuscire dalla finestra e probabilmente le salvò la vita, mentre l’intero hotel dovette essere evacuato.
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Oppure quella volta in cui, dopo la notte degli Oscar 2004, Scarlett Johansson invitò Benicio Del Toro nella propria suite allo Chateau Marmont, dove viveva con il suo chihuahua e il suo pesciolino Cassius. Anche se non è chiaro cosa sia successo esattamente, l’immagine delle due star avvinghiate in ascensore fece il giro di mezzo mondo. O ancora, quando Lindsay Lohan in meno di due mesi accumulò un debito complessivo di quasi cinquantamila dollari nei confronti dell’hotel. La direzione richiedeva il pagamento ma Lohan sosteneva di non doverlo pagare, al che il direttore, Philip Pavel, inviò un dettagliato conto e una nota intimandole di lasciare l’albergo entro dodici ore. Di fatto, venne bandita pure lei dall’intero hotel, ristorante e bar compresi.
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Lo Chateau è tristemente noto pure per eventi tragici che hanno segnato la industry. Nel 1982, un trentatreenne John Belushi era già in pessime condizioni quando fece check-in nel suo bungalow: pochi si stupirono, vuoi perché le sue dipendenze erano note ma in un certo senso tollerate. Robert De Niro e Robin Williams furono tra gli ultimi a vederlo vivo prima del 5 marzo, quando fu trovato incosciente a causa di un’overdose nella sua stanza dalla propria guardia del corpo, Bill Wallace. Per molti anni a venire, lo Chateau Marmont sarebbe stato indissolubilmente legato alla morte di John Belushi, che aleggiava sull’hotel come un’ombra. Ancora, nel 2004, l’hotel fu teatro di un’altra perdita quando il leggendario fotografo di moda Helmut Newton perse apparentemente il controllo della sua auto uscendo dal garage dello Chateau e si schiantò mortalmente contro un muro.
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Inevitabilmente, la presenza delle celeb ha catturato sempre più l’attenzione dei media, che hanno trasformato nell’immaginario collettivo lo Chateau Marmont in un luogo di perdizione senza pari. Durante l’epoca d’oro di Hollywood, le grandi case di produzione parcheggiavano qui gli attori che potevano dedicarsi tranquillamente alle loro tresche; uno scenario che venne replicato anche successivamente, quando gli attori dell’Actors Studio s’incontravano allo Chateau, ritrovando un po’ dell’atmosfera della loro amata New York. Lo Chateau è insomma da sempre andato a braccetto col cinema, da quando Nicholas Ray conobbe James Dean e tra i divani dell’hotel prese forma Gioventù bruciata fino al Somewhere di Sofia Coppola, che tra la piscina, le camere e i corridoi si aggiudicò un Leone d’oro al Festival di Venezia.
Il fulcro del gioco di potere per la gloria hollywoodiana divenne per Albert Ruddy proprio lo Chateau, dove frequentò (e sposò) l’allora proprietaria Françoise Glazer e fece le conoscenze che gli avrebbero permesso di ottenere il ruolo di produttore per uno dei più grandi film della storia di Hollywood, Il Padrino. Françoise Glazer, all’anagrafe Wizenberg, si rivelò infatti una figura fondamentale che aiutò Ruddy a produrre il film durante il periodo in cui furono sposati, fino ai primi anni ’70, dopodiché la sua promettente carriera di imprenditrice e socialite ebbe una svolta inaspettata. Se avete visto la serie Netflix Wild Wild Country, l’avrete sicuramente conosciuta: terminato il matrimonio con Ruddy si unì al movimento Rajneesh di Osho (di cui fu segretaria personale, col nome di Ma Prem Hasya) durante un viaggio in India, contribuendo poi all’acquisto del ranch dell’Oregon trasformato in Rajneeshpuram e sposando in seguito il medico personale di Rajneesh, George Meredith. Rimase un’importante esponente della comunità anche dopo la morte del guru e fino al 2014, anno in cui a sua volta passò a miglior vita.
Françoise Glazer si era insediata allo Chateau Marmont nel 1965, quando il suo primo marito Guilford Glazer, un multimilionario ebreo del Tennessee di quindici anni più anziano di lei, lo acquistò per farla felice. La nostra era un personaggio piuttosto peculiare: nata a Parigi nel 1937 e sopravvissuta all’Olocausto sotto falsa identità, nell’estate del 1948 emigrò in Israele dove visse prima in un campo profughi per immigrati a Netanya e poi crebbe in un kibbutz. Nel 1955 emigrò negli Stati Uniti con la madre, e l’anno successivo si unì in matrimonio a Glazer. Come racconta Shawn Levy, «avevano due figli piccoli, ma Glazer lavorava come un pazzo, “trascurava la famiglia e si preoccupava soltanto dei suoi affari – anche nel fine settimana e durante le vacanze”, come ebbe a lamentarsi la moglie nella causa di divorzio che venne discussa subito dopo l’acquisto dell’hotel». Lo Chateau Marmont e la vita da favola che ne conseguì non furono infatti sufficienti a tenere in piedi la relazione: si trattò di una gestione limitata nel tempo, che diede però al futuro braccio destro di Osho l’opportunità di coltivare amicizie con importanti personaggi di Hollywood come appunto Albert Ruddy.
Nel 1975 lo Chateau passò a Raymond R. Sarlot e Karl Kantarjian di Sarlot-Kantarjian, società immobiliare che investì parecchio in interventi di recupero, al punto che l’anno successivo l’hotel fu designato come Monumento Storico-Culturale di Los Angeles. Avanti veloce fino al 1990, quando la proprietà passò a André Balazs, responsabile di importanti lavori di ristrutturazione per salvaguardarne il fascino storico che avrebbero continuato ad attirare celebrity e milionari in cerca di privacy, ora protetti da recinzioni più alte e coprenti per scoraggiare il pubblico dal guardare all’interno del complesso. Nonostante tali accorgimenti, col passare del tempo e l’avvento di internet e degli smartphone, la riservatezza degli ospiti ha subito inevitabili violazioni, trasformando l’esperienza di soggiorno allo Chateau e rendendola inevitabilmente più pubblica.
Gli ultimi anni sono stati segnati dalle turbolenze: prima con le accuse di discriminazione razziale e molestie sessuali denunciate da oltre trenta dipendenti in un rapporto dell’Hollywood Reporter, poi con un piano controverso annunciato da Balazs il 28 luglio 2020 per trasformare lo Chateau in un members-only-hotel, in cui “proprietari” altamente selezionati avrebbero potuto acquistare quote in cambio di un accesso esclusivo. Una notizia accolta con grande astio da tutti, specialmente per l’effetto immediato che questo piano ebbe sui dipendenti: la maggior parte di loro fu licenziata senza indennizzi, con conseguente ira dei sindacati e il boicottaggio di celebrity e case di produzione. Cercando di evitare l’effetto boomerang, l’intenzione di convertire l’hotel in una Soho House privata fu annullata e si arrivò a negoziazioni coi sindacati a favore dei lavoratori, che hanno calmato le acque.
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Grazie al sapiente mix di arredi non pacchiani, servizi essenziali, posizione maestosa, nonché di un’aura fatta di miti e leggende, lo Chateau nel tempo si è conquistato un ruolo peculiare nel panorama di Hollywood, diventando ironicamente l’emblema degli anticonformisti, un rifugio confortevole dove dimostrare che il lusso non era importante. C’era un detto che recitava: «Se volete farvi vedere, andate all’Hotel Beverly Hills. Se non volete farvi vedere, andate allo Chateau Marmont». Per molti anni, questo corrispose vero: l’hotel era uno dei pochi luoghi nella terra del cinema in cui le celebrità potevano comportarsi come persone comuni senza che la stampa, i loro superiori o i loro coniugi scoprissero cosa stessero combinando. In parte perché era più piccolo rispetto a rivali come il Beverly Hills e il Beverly Wilshire, in parte perché la sua eleganza era un po’ sottotono e attirava ospiti che apprezzavano la tranquillità più della mondanità, con il supporto totale di proprietari che hanno istituito politiche volte a enfatizzare la privacy dei loro clienti, famosi o meno. Oggi, forse, l’avremmo definito l’oasi della quiet luxury. E probabilmente questa stessa definizione gli avrebbe levato gran parte del fascino che tuttora conserva.