Alberto Grandi è un professore associato all’Università di Parma che insegna Storia delle imprese, Storia dell’integrazione europea, Storia economica e Storia dell’alimentazione. Autore di svariati saggi e pubblicazioni, da uno di questi, il bestseller Denominazione di Origine Inventata (Mondadori, 2020) decide di trarre assieme all’amico scrittore Daniele Soffiati un podcast omonimo. Me lo fa conoscere l’amico Pietro Nicolauchich un anno fa e da allora ne sono di fatto dipendente. Di puntata in puntata Grandi e Soffiati, con la testimonianza occasionale di qualche ospite referenziato, raccontano l’affascinante genesi dei più iconografici e famosi piatti della tradizione culinaria italiana, una storia fatta di necessità trasformata in virtù, ingegno, ottime materie prime e provvidenziali botte di culo, una mitologia degna delle migliori saghe norrene le cui divinità (carbonara, tiramisù, lasagne, tortellini, polpette etc.) sono ampiamente venerate in tutto il globo.
Il fatto però è che i miti fondanti della nostra tradizione enogastronomica si infrangono contro il muro dell’evidenza storica, il velo fiabesco che ammanta le nostre celeberrime ricette viene squartato dalla realtà. Questa, in soldoni, è la tesi di DOI. Documenti alla mano, attraverso la voce di Grandi e Soffiati facciamo quindi dolorose scoperte: nella carbonara in origine c’era la pancetta e pure il gruviera, dentro i tortellini c’era quello che capitava (altro che lombo, mortadella, prosciutto e parmigiano) e la pizza non sarebbe mai diventata quella che tutti conosciamo e amiamo oggi senza l’indispensabile contributo degli immigrati italiani che a New York l’arricchirono con la salsa di pomodoro… di esempi ce ne sono moltissimi, almeno uno per ogni puntata del podcast.
Io personalmente amo la sua prospettiva storica che getta una nuova luce sull’origine del nostro mondo culinario (qualche anno fa scrissi anche un documentario sul tiramisù, una parte del quale verteva sulla faida tra friulani e veneti per contendersene la paternità) ma molti miei concittadini evidentemente meno. A dar fuoco alle micce ci ha pensato la settimana scorsa una intervista del Financial Times a Grandi che ha fatto il giro del mondo, è stata ripresa dai più importanti quotidiani internazionali e ha prevedibilmente dato fuoco alla polveriera dei sacri tutori delle nostre origini. Dal Ministro Salvini che sul suo strumento di comunicazione preferito (i social) lamenta un attacco di sedicenti adoratori di farine di grillo e presunti “esperti” alla bellezza della nostra tradizione italiana; passando dai principali quotidiani e i loro titoli drammatici fino alla Coldiretti che parla di «attacco surreale», Grandi è diventato il nemico pubblico n.1 che con le sue tesi distrugge e piccona la nostra cucina, sgretola una delle nostre poche certezze, sputa nel piatto dove tutti noi mangiamo, preparato con amore come facevano le nostre bisnonne (ma non è del tutto vero) e che ci definisce come italiani.
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La questione identitaria, il “sovranismo alimentare” rispetto al quale bisogna essere ultraortodossi se non si vuole essere additati come terroristi sembra essere un tema cruciale per questo governo e non riguarda solo la preservazione immutabile nel tempo delle nostre origini alimentari ma anche la ricerca per limitare gli sprechi energetici e l’inquinamento ambientale derivato dagli allevamenti intensivi. Francesco Lollobrigida vuole organizzare delle task force che vadano in giro per i ristoranti italiani nel mondo a controllare la corretta esecuzione dei piatti italiani (e se dovessero scoprire che in quella trattoria di Tegucigalpa mettono la panna nella carbonara che contromisure dovrebbero adottare? Una pallina su TripAdvisor?); Meloni dichiara più volte che quello dell’Unione Europea è un attacco alle nostre eccellenze italiane e che «noi alla farina di grillo preferiamo un buon bicchiere di vino» (se è per questo pure io, Giorgia); una delle norme varata dal Consiglio dei ministri l’altro ieri e quella riguardante lo «stop in Italia alla produzione e commercializzazione di alimenti e mangimi sintetici», la famosa carne in vitro, con conseguente arresto della ricerca.
Ma da quando quello che c’è nel mio piatto è diventato agenda politica? E Alberto Grandi, che ora è richiestissimo da BBC, Antenne 2 e vari programmi televisivi italiani (ieri era a Piazzapulita), adesso dovrà entrare nel programma Protezione Testimoni per le continue minacce? Siccome questi logoranti interrogativi non mi facevano dormire (questi, un reflusso livello Pompeii e ricordarmi dove ho parcheggiato la macchina) ho strappato Alberto Grandi per qualche ora al suo tour de force fatto di lezioni, ospitate, podcast e tentativi di sfuggire al linciaggio per una veloce chiacchierata.
Iniziamo dalle origini. Non quelle della nostra cucina, le tue. Come è iniziata la tua carriera di myth buster?
È nata studiando una cosa che non centrava nulla con il cibo bensì i violini di Cremona. La liuteria di Cremona oggi è considerata la migliore del mondo e noi pensiamo che la sua origine sia da attribuire a Stradivari o Guarneri del Gesù. Ma Stradivari muore nel 1737 e del Gesù nel 1744, e dopo di loro a Cremona non resta nessuno che sappia costruire un violino. La storia dei violini cremonesi inizia 200 anni dopo quando Farinacci, il peggiore dei fascisti, si inventa la scuola di liuteria ma deve chiamare i maestri da Milano e dalla Germania. Questa cosa mi colpì molto e allora capii una cosa fondamentale: la storia e la tradizione sono due cose molto diverse.
Il mio amico Matteo Fronduti, Chef di Manna a Milano, considera la purezza della tradizione un esercizio di calcificazione, sterile e immobile: «vuoi la matriciana originale? Ok, allora tolgo il pomodoro, visto che arriva dall’America». Cosa c’è secondo te all’origine dell’ossessione italiana della purezza della tradizione”?
L’ho scritto varie volte. C’è una ricerca di identità nazionale che ha avuto un andamento abbastanza ondivago, non lineare, in relazione anche all’andamento economico. Oggi questa identità nazionale si è largamente perduta e quindi la purezza enogastronomica è quella che io definisco “l’ultimo baluardo” e quindi si è intransigenti rispetto a questa cosa. Noi siamo quelli che fanno la cacio e pepe e le lasagne, se smettiamo o le facciamo diverse non siamo più niente, nonostante io creda ci sia molto di più. Cchiedo sempre ai miei studenti di Storia dell’Alimentazione chi è Giulio Natta: nessuno lo sa. Eppure Giulio Natta (Premio Nobel per la Chimica nel 1963, Nda) è italiano e ha inventato una cosa che ha cambiato il mondo: la plastica. Nessuno se lo ricorda però ci ricordiamo tutti quant’è buona la caciotta di pienza. Questo per me è il segnale di un paese che ha un po’ perso i suoi punti di riferimento.
Beh, il pecorino di Pienza spacca. Ma il pecorino in generale direi. Alberto, onesto: tu ami la cucina italiana?
Io la amo profondamente! Però devo dire che io amo tutte le cucine. Non ho mai mangiato davvero male in nessun posto del mondo, ovviamente mangiando i piatti di quel posto. La cucina italiana ovviamente ha una sua rilevanza, una sua storia molto affascinante (e molto diversa da quella che ci raccontiamo abitualmente) e una reputazione e qualità molto elevate. Bisogna dire però che i primi a non amare molto la cucina italiana sono gli italiani stessi, che la maltrattano con la loro sciatteria. Siccome la cucina italiana è la migliore del mondo, dicono, qualcuno fa le cose – ora uso un termine tecnico – “alla cazzo”. Comunque io amo tantissimo la pasta e soprattutto i dolci. Il top per me è la pastiera.
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Mi hai fatto venire in mente il rigore, l’amore e l’abnegazione che i pizzaioli giapponesi infondono nelle loro pizze. A Tokyo, zona Daikanyama, ricordo di aver mangiato da Seirinkan una delle margherite più buone di sempre (forno rigorosamente a legna, nel menù solo margherita e marinara).
Io ricordo di aver mangiato una caprese strepitosa nel Wisconsin (gli stessi che fanno il parmigiano come lo facevano i nostri nonni), ero con dei colleghi e siamo andati in un ristorante italiano. In generale quando sono all’estero non mangio italiano, ma quella caprese è stata probabilmente la migliore della mia vita.
Di tutti gli argomenti e i miti della cucina italiana affrontati in DOI qual è quello che ha fatto incazzare di più gli italiani?
Sicuramente la pizza ha generato effetti incredibili, poi la carbonara. In una delle ultime puntate ho detto che il caffè italiano è mediocre e questo ha creato una piccola tempesta. Il podio delle incazzature direi quindi che è pizza, carbonara e caffè. Il prossimo argomento che affronterò sarà il cappuccino, ma preferisco non anticipare nulla.
Immagino la quantità di insulti e minacce…
Insulti, minacce in quantità, auguri di cattivo destino… Ma l’accusa che mi ferisce più di tutte è quando mi dicono che faccio tutto questo per avere visibilità. Mi manda in bestia. Possono dire di me quello che vogliono, parlare male di mia mamma, ma dirmi «lo fai per visibilità» va a colpire le motivazioni di un’attività e non le argomentazioni. Quella di disonestà intellettuale è la peggior accusa che mi si possa fare.
Nelle storie che racconti un ruolo cruciale nell’evoluzione di un piatto ce l’hanno spesso gli italiani all’estero. Ce ne sono che ascoltano DOI?
Abbiamo avuto diversi riscontri all’estero, in ultimo la giornalista italiana che lavora al Financial Times, autrice della famigerata intervista. Devo dire che i riscontri sono molto più positivi all’estero che in Italia. Qui da noi il podcast va molto bene ma la gente reagisce in modo combattuto. Gli italiani all’estero, ce l’ha detto la giornalista, sono impazziti di gioia, perché per la prima volta si attribuisce agli emigrati una funzione centrale nella storia dell’alimentazione. E questa sarebbe un’altra questione interessante da indagare. C’è questa grande rimozione, per cui si raccontano sempre gli emigrati come di eroi, cavalieri che hanno portato la civiltà gastronomica italiana nel mondo. La realtà è molto diversa: i nostri avi emigrati erano poverissimi, affamati, poco istruiti e a volte tendenti alla delinquenza.
Perché il mito delle origini alimentari è così importante per noi?
C’è una sorta di glorificazione, la consapevolezza che la nostra cucina nasce povera e la si voglia nobilitare fin dall’inizio. In questa storia c’è forse un punto di partenza, ossia quando, nel 1961, a Mantova si fa un grande pranzo in occasione della mostra del Mantegna, ci si inventa un sacco di ricette e a tutte si attribuisce un’origine medievale. Giorgio Gioco (Chef dei 12 Apostoli di Verona), si inventa “gli anolini alla Isabella d’Este”, “il consommé Barbara di Brandeburgo”… cose che oggi non sono rimaste a parte “Il Cappone alla Stefani” proposto in tutti i ristoranti Mantovani, e un metodo: quando si inventa un piatto, bisogna dargli un’origine che non ha. E vale anche per i nostri prodotti tipici: l’UE per darti una DOP o una IGP chiede che questi prodotti abbiamo venticinque anni di storia. Ma noi non ci accontentiamo mai di venticinque anni di storia. Bisogna sempre tirare in mezzo i Celti, i Romani, gli Aztechi. Forse soffriamo di sudditanza psicologica, soprattutto nei confronti della Francia.
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Ok, ora siamo nella parte “profonda” dell’intervista. Quanto ha a che fare l’identità con la storia?
Noi spesso confondiamo l’identità con le radici. Un prodotto è buonissimo? E allora è sempre stato buonissimo e così com’è oggi. Oltretutto c’è una grande rimozione della memoria: nessuno sembra ricordarsi di quando la carbonara aveva l’uovo stracciato e non c’era niente di male in questo. L’identità di un piatto ha molto a che fare la storia nel senso di evoluzione: una ricetta che ci piace oggi è frutto di un’evoluzione e un adattamento progressivo ai gusti che cambiano. Domani potrebbe piacerci altro. Confondere i diversi piani è pericoloso perché ci porta a cristallizzare la cucina e ucciderla: se non si evolve, muore.
Dato il suo storico non mi stupisce l’attacco di Salvini. Ma la Coldiretti?
Credo che la Coldiretti si sia ormai trasformata in paladina dell’italianità, ovviamente senza nessun titolo e facendo secondo me molti danni. La loro visione è molto ottusa: no a tutto, l’Italia è perfetta così, il nostro settore agroalimentare è perfetto così… perdipiù con molta ipocrisia, visto che loro sanno benissimo in che condizioni versa il nostro settore agroalimentare.
E se la cucina italiana non diventa Patrimonio Unesco che succede?
Sarà una reazione ottusamente patriottica, diranno «tutto il mondo ce l’ha con noi». In realtà per come ho visto il dossier, mi sembra una candidatura molto zoppicante. Il rischio che non diventi patrimonio Unesco c’è.
Per chiudere ti chiedo cosa pensi dell’ostruzionismo che il governo sta facendo alla carne sintetica.
È una cosa senza senso. Non si può dire di no a una cosa solo perché è nuova, è un atteggiamento tipico del Medioevo, che noi europei abbiamo applicato alla patata, dicendo che portava la lebbra e privandoci per duecento anni di questo fondamentale alimento. È una sciocchezza penalizzare la ricerca. Multare la ricerca credo l’abbiano fatto solo l’Italia e l’Iran, a netto che ovviamente bisognerà fare tutte le verifiche del caso. L’Italia ancora una volta sulla base di una considerazione di esclusivo carattere ideologico, precludendosi la possibilità di essere uno dei Paesi-guida in questo processo. Abbiamo le competenze, ma decidiamo di essere un Paese al traino. Quindi finirà che prima o poi l’importeremo. Perché il mare non lo fermi con le mani.