C’è stato un tempo lontano in cui l’unica esperienza gastronomica valevole di budget, prenotazioni e infine spesso di code era il brunch: a Milano prenotavi settimana per settimana e la provincia rincorreva affannata, cercando di replicare la formula vincente di questa crasi – tutta anglosassone, nel nome e nell’origine – tra breakfast (colazione) e lunch (pranzo). Era il tempo in cui California Bakery spopolava a suon di cheesecake, uova alla Benedict e torte al cioccolato che, per misurarle in altezza, ti occorreva il righello delle elementari. L’arrivo è databile intorno ai primi anni ’00, e l’apice è durato imperterrito almeno fino al 2014: se durante il weekend non ti facevi vedere al tavolo di un brunch, documentando scrupolosamente l’esperienza attraverso gli schermi dei social e morendo di digestione inamovibile per tutto il pomeriggio, non esistevi. Ma c’è una cosa di cui nessuno aveva tenuto conto: in quegli stessi anni, gli Stati Uniti cominciavano ad averne abbastanza, di questo rito. L’onda di rigetto non era poi tanto distante nemmeno dalle nostre tavole.
Stacco al 2020: proprio quella California Bakery, che aveva popolarizzato la brunch culture e che era stata celebrata come un modello di successo tutto all’italiana, aveva dichiarato fallimento, schiacciata dal brulicare di un’offerta di ristorazione che aveva contribuito a creare (nel 2021 il gruppo di Gabriele Volpi, Ten Food & Beverage, ha completato l’acquisizione del brand, di fatto salvandolo da morte certa, Nda). Tutto qui? Forse, c’è di più. Per capire come ci siamo innamorati, e disamorati – e ora siamo di nuovo in luna di miele: ma non anticipiamo – del “pranzo tardo e lungo della domenica”, conviene però cominciare da lontano. Proprio dalle origini di questa tradizione, e dalla cultura che esprime.
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Nello specifico, tre sono i principali fili che portano alla nascita del brunch. Il primo parte dall’Inghilterra del tardo Ottocento, dove la nobiltà terriera di epoca tardo-vittoriana si gode indisturbata le proprie tenute e inventa modi più o meno creativi per passare il tempo. Quello che ha portato al brunch, in questo senso, non brilla per inventiva: il brunch deriverebbe infatti dalla hunt breakfast, la colazione – più simile a un pranzo anticipato – che si godevano i nobili, rigorosamente maschi, al ritorno di una partita di caccia. A figurare sulla tavola, i classici intramontabili della colazione all’inglese, dai fagioli alle salsicce, dalle uova alla pancetta arrostita. Il costume della hunt breakfast non impiegò molto ad attraversare l’Atlantico: e infatti, ai primi del Novecento si trova già un’abitudine simile – ma priva del rituale della caccia – nei college americani (anche qui si parla di maschi: le quote femminili nelle università erano, in quegli anni, risicatissime), dove gli studenti tiratardi l’avrebbero usato per rifocillarsi di due pasti in una volta e recuperare sul tempo in più passato a dormire.
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Il secondo filo del brunch si dipana sempre dal Nuovo Mondo, ma, questa volta, sotto auspici meno favorevoli: nel 1919 rintoccarono le campane del proibizionismo, ma, famosamente, l’amore degli americani per l’alcol non accennò a diminuire. Anzi: ogni sotterfugio era buono per aggiungere spirito a preparazioni di natura analcoliche. Tra le strategie messe in campo, proprio quella del brunch: un ritrovo privato per un pasto lungo e dalle atmosfere di festa, in cui venivano serviti aperitif a base frutta e verdura… con mascherato dentro un bel po’ di alcol. È così che si aprì la strada per la codificazione delle ricette dei Mimosa (succo d’arancia + champagne) e dei Bloody Mary (succo di pomodoro + vodka). Così che il brunch venne traghettato nell’immaginario non solo delle classi privilegiate, ma, con l’avvento della cultura di massa post-bellica, anche in quello delle classi meno abbienti.
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Il terzo e ultimo filo che conduce il brunch fino a noi vede protagoniste le funzioni religiose della domenica. Per le comunità cristiane statunitensi, il pranzo post-Messa era d’obbligo, meglio se in comunità, meglio se con tanti partecipanti. Il brunch divenne allora un escamotage per sollevarsi dalla fatica di dover preparare tre pasti al giorno (colazione, pranzo, cena) visto uno di questi (il pranzo, appunto) raggiungeva dimensioni ragguardevoli. Basta stare a tavola un po’ di più, mangiando un po’ di più, ed ecco svoltata la giornata (se non lo sappiamo noi italiani, questo segreto, chi).
Arriviamo così agli anni Ottanta, quando il brunch è conosciuto da costa a costa, si è infiltrato anche nelle catene di fast food come IHOP, ed è saldamente radicato nella cultura della nazione, imponendosi trasversalmente sulla ristorazione con il suo menu a base di pancake, burro e pancetta. Tutto oro quel che luccica? Insomma. Perché anche se, da un lato, il brunch rappresenta un’occasione di introiti relativamente facili e fidelizzati per il ristoratore, dall’altro si carica sul groppone una serie di lati oscuri. Il primo riguarda proprio questo guadagno facile lato esercente, che deriva, in molti casi, da un appiattimento del menù, che si limita a proporre “brunch food” e perde la linea altrimenti tenuta dalla cucina. Questo è vero sia per chi è nato nella cultura dell’English breakfast e del suo cibo, sia per chi l’ha assorbita. Un esempio dalle nostre, contemporanee rive: che cosa c’entrano, da Maré, a Milano, croque madame, scrambled eggs, bruschetta di avocado e pancake se il locale fa cucina principalmente di mare, ispirandosi alla tradizione della riviera romagnola?
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“Rivoluzione” che, peraltro, viaggia a braccetto con un altro sconvolgimento da mettere in conto: solo poche ore prima, la cucina ha chiuso il servizio cena, lavorando su un certo menu, con una certa organizzazione di linea. All’ora di brunch, è upside down: linea diversa, carta diversa, piatti generalmente noiosi e poco stimolanti per chi lavora ai fornelli. Una seccatura, insomma, di cui fornisce buona testimonianza Jaya Saxena in un pezzo su Eater dal titolo Brunch Sucks, I Know. La voce raccolta dall’autrice è quella della chef Holly Rowland, che afferma che «chi va a un brunch si aspetta di mangiare sempre le stesse cose» ovunque siano, e a conti fatti avrebbero potuto «ordinarlo da Denny’s (catena di fast-food americana, Nda) […] Non c’è spazio per la creatività. E, nella maggior parte dei casi, si tratta solo dell’ennesima esperienza deludente».
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Ma quelle di Rowland e Saxena non sono le uniche voci a mettere in risalto le criticità del brunch. Alla lista si aggiungono anche Anthony Bourdain, che individuò nel brunch-eater un vero e proprio tipo umano, nefasto per lo stato di salute della cucina da ristorante: «le Persone Che Vanno Ai Brunch. La parola con la “B” è temuta da chiunque stia in una cucina. Odiamo l’odore e il suono floscio che fanno le omelette sui piatti. Disprezziamo l’Hollandaise, le patatine fatte a mano, le decorazioni di frutta patetiche, e tutti gli altri cliché che si mettono in scena per convincere quei creduloni dei clienti a pagare 12,95 dollati per due uova senza batter ciglio. Nulla demoralizza un aspirante Escoffier più di chiedergli di cucinare omelette al bianco d’uovo, oppure uova e pancetta». E poi Julian Casablancas degli Strokes, che nel 2014 aveva giustificato in questi termini la scelta di lasciare New York: «Non so se sono la persona giusta per sopportare, milioni di persone bianche che fanno brunch al sabato pomeriggio».
Ecco: qui c’è una chiave importante per capire lo stato del brunch contemporaneo: è ancora, forse, un’esperienza che non è riuscita davvero a democratizzarsi, e che ha continuato, per un secolo e mezzo, a rendersi appannaggio dei privilegiati, quelli che possono sostenere prezzi gonfiati in cambio di Mimosa all-you-can-drink e a cui, in fondo, non interessa molto la qualità morale, prima che materiale, di ciò per cui si paga. Per questo Casablancas parla di “persone bianche”: perché negli States il brunch rimane un’esperienza prevalentemente da bianchi. E, dopo qualche anno di aspre critiche, sembra pronto a tornare, senza sostanziali cambiamenti di formula: i newyorchesi fanno code di mezz’ora pur di avere un posto alla tavola del brunch, e a Portland sembra essere in atto una brunchification della ristorazione. Che cosa, allora, possiamo imparare dai su e giù del brunch americano?
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Be’, innanzitutto, quello che avremmo dovuto captare in passato: cioè che se una tendenza si muove in America, tempo qualche anno, forse qualche mese, e sarà da noi. Quindi, se il brunch a stelle e strisce sta tornando, occhi aperti. Poi che il brunch, se costruito un po’ senz’anima, è solo una questione di moda e dei suoi ricircoli. In altre parole, se lo faccio “solo per farlo”, senza una reale struttura dietro, mi andrà bene finché durerà il trend. In parte è proprio quello che è successo con California Bakery: una volta passata la novità, non c’erano più molti motivi per rimanere fedeli a uova, pancake, cereali e insalatina, visto che possiamo farcele anche a casa in una giornata qualunque.
Se, però, una via del brunch esiste, sta nelle stradine laterali, quelle poco battute. Come scrive Farha Ternikar, autrice del libro Brunch: A History, il brunch tende ad aderire ai costumi culinari mainstream del suo tempo. Non scardina, non rivoluziona, non innova. E oggi, in Italia come negli Stati Uniti, l’autostrada del brunch è costruita di queste pietre noiosette, che già conosciamo. Per un brunch futuro, e virtuoso, serviranno allora ripensamenti in cucina, così da agevolare il lavoro dello staff; proposte di menù coraggiose, che non rincorrano il like ma che si inseriscano nel racconto a 360° di chi le propone; e un ritorno alle radici di ciò che chiamiamo brunch: un pasto festivo, organizzato per il piacere di stare insieme davanti al cibo e non, come spesso accade, un ritrovo sociale giustificato a posteriori del desiderio di mangiare, per esempio, i non-più-tanto-esotici pancake.
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Esempi virtuosi esistono già: come Spica a Milano, che, per il brunch, riorganizza la sua normale carta di pranzo e cena, facendovi uscire rotolanti dalla pienezza. O Hygge, nome storico per il brunch con un twist scandinavo e internazionale, sempre attento a interpretare la classica proposta di un brunch anglosassone in chiave propria. E a questo punto è impossibile non menzionare il fenomeno del Black Brunch negli Stati Uniti, cominciato come alternativa al brunch delle “persone bianche” per la Black community e via concreta per supportare i Black-owned restaurant. Oggi è diventato veicolo di condivisione, socialità e cultura alimentare, fattore di coesione per minoranze e occasione per scoprire altri piatti e preparazioni legati alla Black diaspora. Ancora: il Drag Brunch, spettacolo di drag queen allestito in concomitanza con i fasti gastronomici di un brunch e ottimo modo per svecchiare le uova alla Benedict, rendendole un simbolo di rivoluzione e non di snobberia gastronomica un po’ vintage. O, infine, la protesta #BlackBrunchNYC, al suono di cui, nel 2015, attivisti di #BlackLivesMatter inscenarono dei flash mob di protesta mentre consumatori anodini si godevano il loro brunch domenicale. Sembra, insomma, che il brunch non se ne sia mai andato. Dobbiamo solo imparare a gestirlo.